VOCI DAL PROFONDO

Ad Howard Phillips Lovecraft,

che mi ha ispirato i demoni.

Alle vittime dei massacri dell’umana follia

1.

Marco apre gli occhi nel cielo terso del mattino. Non è lo stesso cielo di sempre. Il suo corpo, abbandonato sulla spiaggia deserta, si risveglia in uno spettrale silenzio, lasciandosi accarezzare da un gelido vento di maestrale che soffia inclemente. Carcasse di vecchi gabbiani putrefatti, scheletri di pesci, cadaveri di gatti, scogliere distrutte, come colpite da una gigantesca esplosione. Intorno a lui non c’è anima viva, non si sente un rumore, un suono, un brusio… soltanto un freddo e cupo silenzio. Un risveglio surreale dopo un sogno assurdo, un incubo strano, un gioco della memoria stupefatta e stordita dallo scorrere del tempo. Marco si alza lentamente, quasi non ricorda come muovere braccia e gambe. Ha dormito su quella sabbia bagnata cosparsa di carcasse animali, bestie morte in maniera incomprensibile, forse per colpa di un’infezione, un virus maledetto, un bombardamento. Marco non può saperlo. Non ricorda niente di quel che è accaduto. Potrebbe esserci stata una guerra, un’esplosione nucleare, un terremoto, un assalto di feroci pirati, un’invasione di alieni.  Potrebbe essere passato il giudizio universale, salvando soltanto lui dall’ecatombe. Marco ha gli occhi gonfi, bruciati da sole e salsedine, cerca di aprirli del tutto ma non ci riesce. Vede il cielo sopra di lui, un cielo invernale, velato da nubi scure, d’un assurdo colore viola, osserva la sabbia bagnata, guarda con ribrezzo gli animali morti…

“Dove sono?”. Domanda perduta nel vuoto d’un silenzio infinito.

La sua voce risuona flebile come un tremulo soffio che esce da labbra socchiuse. Quella spiaggia dove si è risvegliato, è un luogo che conosce, sente dentro di sé che fa parte dei ricordi del passato, è un pezzo della sua vita. Non rammenta altro. Non sa perché ha dormito sull’arenile deserto in una giornata umida e fredda. Sente che la sua casa è vicina, anche se intorno a lui tutto è cambiato. Voci lontane si affacciano alla mente e lo chiamano per nome. Voci indistinte che diventano sempre più comprensibili e reali. Voci, soltanto voci.

Lo stabilimento balneare è deserto. “Normale”, pensa “siamo d’inverno”. Ma anche le case intorno alla spiaggia non lasciano trapelare voci, non diffondono rumori di vita, solo imposte che sbattono nel vento, vetri in frantumi, portoni aperti, terrazzi spalancati. All’interno delle case – un tempo popolate da donne, uomini e bambini – non si intuiscono presenze umane. Marco sente voci assurde impadronirsi della sua mente. Una ragazza che canta una canzone d’amore, un padre che litiga con il figlio, un bambino che sorride, una moglie in lacrime per i tradimenti del marito, due amanti che si scambiano parole dolci stretti nella loro alcova. Il passato. Le voci della sua vita prima del risveglio. Le voci di chi abitava quelle case deserte, perdute nella solitudine del mattino. Ma quanto tempo è passato? Per quanto ha dormito sulla spiaggia? Perché si trova in quel posto? Domande che non hanno risposta. Marco sa solo che deve alzarsi, camminare, andare avanti. Marco deve cercare i motivi della sua esistenza, seguire le voci che lo tormentano, che indicano un cammino.

2.

Marco è vestito con brandelli di abiti. Il suo corpo pare sopravvissuto a un’esplosione che ha fatto a pezzi i jeans scoloriti, la camicia celeste, il maglione blu con la scritta University. Sente freddo, ma non ci fa caso, un freddo mattino invernale non è certo il problema più grande. La mente di Marco è pervasa dal pensiero d’un lugubre cimitero di mare. Forse è proprio là che lo conducono i suoi passi. Una voce suadente continua a chiamarlo, ma non è reale, può udirla solo nella sua mente. Lui la segue e ripercorre i ricordi, flebili, indistinti. Rivede i particolari del cimitero solcato da gabbiani e sferzato dal vento di mare: le sculture di marmo bianco, gli angeli bambini, le cappelle di famiglia, i sepolcri interrati, i pilastri in granito simili a fantasmi, le ombre sospese di uomini del passato, ormai cibo per vermi. Percorre il lungomare tra palme e tamerici, non incontra nessuno lungo la strada, solo ricordi indistinti, voci che dicono di andare incontro al destino, di muovere lesti passi nel vento, tra profumati oleandri e agavi cadenti sulle scogliere. Ode lugubri lamenti, pianti di madri e bambini, atroci e disperati rimpianti di persone che gridano nel vento. Marco osserva le case deserte del lungomare. Porte aperte, finestre distrutte, auto incustodite davanti ad abitazioni abbandonate, giardini incolti. Ma la cosa più inquietante è non vedere intorno anima viva. Non ci sono uomini e donne, i padroni delle case, i bambini che giocano tra cortili e piazze. I giardini pubblici deserti sono uno spettacolo orribile: altalene distrutte, scivoli ossidati, piste di pattinaggio crepate e silenzio invece di un vociare stridulo, assordante. La morte infinita al posto della solita vita.

Marco ricorda il protagonista di un vecchio film in un flashback improvviso della memoria, forse è proprio lui l’ultimo uomo sulla Terra, anche se Vincent Price aveva il vantaggio di sapere da chi doveva difendersi, conosceva il pericolo dei vampiri notturni. Marco no. Marco non sa perché è sopravvissuto alla distruzione, salvato e abbandonato in quel niente che lo circonda. Tormentato da lugubri grida nel vento e pianti strazianti, in preda alle voci della sua mente nel deserto infinito.

Sono proprio sicuro che mi abbiano graziato? Forse è questo il mio inferno. Vivere un incubo, pensa. I lamenti continuano a tormentarlo, confusi alle voce della sua mente, pianti assordanti di madri, voci stridule di bambini che gridano un dolore infinito. La strada per raggiungere il cimitero è lunga, ancora più difficile percorrerla tra auto abbandonate accanto ai marciapiede, cassonetti dell’immondizia che emanano odori pestilenziali, alberi che muovono rami scheletriti in una tempesta di effluvi infernali. Tutto intorno un silenzio orribile che scandisce un tempo sempre uguale a se stesso, che non si lascia catturare, un pervadere di sogni che sono incubi a occhi aperti. Marco raggiunge il cancello del cimitero, ossidato e cadente, lasciato spalancato da un custode scomparso. La voce che pervade la sua mente gli dice di andare oltre l’ossario dei caduti della seconda guerra mondiale, di superare la cappella delle vittime del nazismo, di avvicinarsi a una tomba laterale, tra un cipresso e una statua di marmo che raffigura un angelo. Marco si ferma davanti alla tomba, osserva la foto che ritrae una ragazza dagli occhi neri e i capelli castani, sente che è stata importante della sua vita, ma non ricorda bene, tutto è confuso nella sua mente. Passa solo un istante, Marco è immerso nei pensieri, cerca di catturare i motivi dei ricordi, quando dalla tomba della ragazza si materializza una creatura nera, informe, quasi un’ombra spettrale che allunga quattro artigli acuminati verso di lui. Marco è terrorizzato. La creatura vaga come un informe ectoplasma nell’aria, si avvicina a Marco, allunga gli artigli tentacolari, li avvicina al suo volto, li muove con rapidità. Marco è paralizzato dalla paura, non riesce a muovere un passo, mentre le orribili dita del mostro perlustrano la sua carne, si infilano tra le pieghe dei vestiti strappati in più punti, lo toccano lasciando una sensazione di gelido orrore. La presenza non è sola. Alle sue spalle si muovono centinaia di piccoli esseri, neri, microscopici incubi che vagano tra le tombe del cimitero e si lasciano spingere dal vento di mare. Una danza spettrale si muove intorno al corpo di Marco, lo accerchia e annienta la sua volontà, fino a quando l’orribile essere si trasforma in un fuoco tentacolare, gli artigli diventano lingue di vivida fiamma. Marco suda freddo, osserva le fiamme avanzare verso di lui, vede le microscopiche presenze nere guidate da un capo dardeggiante. In quel preciso istante le mani tentacolari del mostro lo afferrano per il collo trascinandolo nel gorgo fiammeggiante. “Se devi guardare dentro la tua anima, il fuoco eterno ti potrà aiutare”, ghigna l’essere demoniaco, mentre stringe con forza il collo di Marco, sempre più terrorizzato. Un ribollire di fiamme infernali si avvicina alla sua gola, solletica il volto e la carne, proprio mentre la fotografia sulla lapide cambia aspetto. Non è più una ragazza dagli occhi neri e i capelli castani, ma un orribile essere con il volto coperto da lingue di fuoco. E ride, in un delirio d’orrore.  Marco perde i sensi, si abbandona tra le braccia di un incubo che pervade d’orrore i viali alberati e le tombe d’un cimitero deserto.

3.

Marco si risveglia madido di sudore. Tutto è come prima. La presenza malefica e le creature danzanti sono scomparse, la fotografia sulla lapide è di nuovo quella della ragazza con gli occhi neri e i capelli castani. Adesso sorride, serena, come catturata in un ricordo d’amore. Marco non riesce a leggere il nome sulla lapide, come se fosse scolorito dal passare del tempo, come se per oscuri motivi qualcuno lo avesse reso irriconoscibile. Lapidi abbandonate e decrepite giacciono tra vegetazione selvaggia, monumenti spettrali si stagliano contro il cielo, mentre angeli alati protendono le spade verso l’azzurro infinito in difesa del niente. Marco sente sempre più intenso il fetore delle carcasse animali ammassate lungo la strada, intuisce figure furtive che si aggirano per le vie oscure del cimitero, mentre nel cielo si addensano nubi oscure gravide di pioggia. Ricordi ossessivi lo spingono a uscire dal cancello, a lasciarsi indietro quel cimitero cadente, mentre le statue di marmo sembrano prendere vita e inseguirlo, ripetendo in maniera incessante il suo nome. Marco si catapulta in strada, in preda all’angoscia, corre tra silenzio e cadaveri, una distesa maleodorante e desolata, inciampando su radici putride di alberi cadenti, protesi su scogliere desolate, sferzate dal vento. Braccia di rami grotteschi si stendono in un cielo infernale che cambia colore, passando dal nero della pioggia al violetto d’un assurdo orizzonte. Marco si sente afferrare alle spalle dai rami degli alberi che si allungano verso di lui come artigli rapaci, il legno si trasforma in carne, adesso sono mani che tentano di afferrarlo, ma non ci riescono. Risate beffarde, grida, stridore di catene nel vento, una voce femminile implora il suo nome: “Marco, perché l’hai fatto?”. Non comprende. Perché quella domanda? Lui non ricorda di aver fatto niente. Si è trovato immerso in un orrore senza fine, spettatore d’una vita inesistente, unico attore nel silenzio infinito. D’un tratto vede un albero assumere le sembianze di una donna in lacrime: “I miei bambini… i miei bambini…”, sussurra in un lamento straziato. Marco cerca di fuggire, spaventato, ma la donna lo insegue, non riesce a liberarsene, si sente oltrepassare dal suo corpo, come se fosse un ectoplasma infernale. “Tu sia maledetto!”, grida la voce femminile. Le mani della donna diventano lingue di fuoco, si spingono verso il suo volto, dardeggiano inclementi intorno ai suoi occhi, si modificano in un pugno serrato, lo minacciano.

“Morirai anche tu, come tutti. Morirai…”, sussurra.

“Dove sono finito… dove sono finito…”, mormora Marco.

Marco scappa ancora, in preda al terrore, verso la piazza protesa sul mare come una nave tra le onde, un posto che d’un tratto gli fa ricordare il passato, il tempo in cui veniva a passeggiare sul mare con la sua ragazza, ma anche le giornate trascorse con il padre a pescare e con la madre a nuotare, mentre lei restava a guardarlo da un arenile affollato di famiglie e bambini.

Fuggire. Posso soltanto fuggire. Fuggire dagli incubi che mi tormentano. Fuggire dalle atrocità della mia mente. Tutto è un incubo. Un incubo che prima o poi dovrà finire.

4.

I ricordi di Marco sono confusi. Adesso siede su una panchina della piazza deserta, gli occhi rivolti al mare, a quelle scogliere dove così tante volte si è tuffato da bambino. Il ricordo è un flashback offuscato, mentre il vento di scirocco sconvolge capelli e pensieri, pare sorridere nel silenzio inquietante, ghignare atrocemente, tormentandolo di rimorsi. Una sensazione di angoscia si impadronisce di Marco, un incomprensibile senso di terrore, di vuoto, di paura ancestrale, infinita.

“Perché dovrei provare rimorso? Non ho fatto niente”.

“Pentiti!” grida una voce lugubre che sembra provenire dal mare, facendosi largo tra le scogliere.

Marco non comprende dove abbia inizio la sua memoria, davanti a lui si stendono lugubri panorami di anni senza numero, il presente sembra un istante irreale, isolato in una grigia e informe eternità silenziosa. Non comprende come possa parlare, pronunciare flebili frasi disperate in un mondo surreale, popolato da inquietanti presenze. Un mondo onirico, che sembra estendersi oltre la soglia del reale, dove Marco si sente perduto. Scorrono nella sua mente immagini di un vecchio film. Un ricordo del passato, nebuloso, informe. I protagonisti della storia finiscono dentro un quadro che d’un tratto diventa la loro vita, la cornice li rinchiude definitivamente, impedisce l’uscita. Una vita composta da un deserto lugubre e infinito, una pianura costellata di spettri e cadaveri, di inquiete presenze. Un vero e proprio aldilà da scontare vivendo, in preda ad angosciosi tormenti.

“Siamo noi il tuo aldilà”, sorridono le scogliere trasformandosi in volti umani, modificandosi in espressioni affrante di uomini, donne, bambini. “Siamo noi il tuo inferno”.

Marco si sente trascinare nel mare in burrasca da due mani gigantesche, artigli insanguinati che sbucano fuori dalle tamerici salmastre, vede cerchi concentrici fiammeggiare nel cielo, sente una mostruosa litania intonata da gracchianti voci infernali. Un vento tenebroso lo trascina verso abissi insondabili, grigie presenze si confondono a volti di bambini che piangono, mentre il suo corpo pare sbattuto sulle scogliere da mani ossute e artigli insanguinati. Sogno? Realtà? Incubo atroce? Impossibile capire. Marco fugge ancora nel silenzio infinito, rotto da singhiozzi di madri e terrificanti grida di bambini.

5.

La fuga è un istante senza fine, un momento senza tempo. Marco scappa da se stesso, dagli incubi che lo tormentano. Ritorna al punto di partenza, rivede i luoghi della sua città in abbandono, ricorda volti del passato, offuscati, stemperati, come in un incubo terrificante. Gli occhi di sua madre in pianto, una ragazza che ricorda l’immagine nella lapide, forse la sua ragazza, anche se non riesce a capirlo, ne intuisce soltanto il sorriso, un sorriso amaro, come di rimpianto. Vede fantasmi di bambini correre impauriti, ectoplasmi di uomini e donne che attraversano dolorosamente il suo corpo in fuga, per poi scomparire.

“Cosa mi sta accadendo, maledizione! Se almeno riuscissi a capire…”, mormora. Le parole escono con fatica dalla bocca semichiusa, si fanno largo tra vento che soffia, immagini che rimbalzano su pensieri, tristi presenze che osservano la sua folle corsa. In realtà non sono uomini, ma immagini, forme vaporose che vagano nell’aria, incubi informi, grigi fantasmi del passato.

“Fermati e affrontaci. È con noi che devi vedertela”, dicono.

Marco corre lungo la strada che porta alle scogliere, sudato, stanco, affranto, sconvolto dai pensieri che lo tormentano, incapace di capire quel che gli sta accadendo.

“Adesso vedrai come finiscono le persone come te!”.

Una voce cupa, gutturale, minacciosa lo coglie di sorpresa. Un uomo seminudo, con la barba incolta, le braccia tatuate, lo sguardo truce è fermo davanti a lui e gli sbarra il passaggio. In mano stringe una mazza ferrata, come quelle che usavano gli antichi soldati di ventura. Solleva minaccioso la terribile arma e la brandisce verso il corpo di Marco impietrito dal terrore. L’essere orrendo apre la bocca, mostra i canini, come un gigantesco vampiro guerriero, grida una frase incomprensibile che scatena una tempesta di vento: “I miei uomini hanno fame!”. E dietro di lui appaiono altri esseri giganteschi, altrettanto orribili, armati di mazze che si fanno avanti, inquietanti, lasciando cadere un liquido bavoso da spaventose bocche aperte. Affamati. Sì sono proprio affamati, pensa Marco. E vogliono mangiare me con i loro denti da vampiri. Marco, in preda al terrore, inverte la direzione di fuga, cerca di scappare dalle grinfie fameliche di un esercito di selvaggi dalla lunga barba e i denti aguzzi. “Non sfuggirai ai tuoi rimorsi!” grida il capo degli esseri infernali. Ma non lo insegue. Si ferma come se fosse di fronte a un ostacolo invalicabile. Lo lascia andare. Permette che Marco fugga lontano dalle scogliere, che torni sui suoi passi, in direzione del cimitero, dove brillano fuochi fatui come lucciole invernali, risuonano voci di fantasmi e le tamerici sono inquiete presenze dalle braccia scheletriche perdute nel vento.

6.

Il cimitero sembra non arrivare mai. Il viaggio è più lungo del solito. Marco si avvicina ai cipressi ma il cancello spalancato e cadente si allontana. Sembra diventare irraggiungibile. Pare che qualcuno stia giocando con lui per non fargli capire quel che sta accadendo. Passa vicino a un campo da tennis in abbandono, non c’è anima viva neppure nella pista di pattinaggio utilizzata come campo di calcetto, un deserto innaturale coperto da vegetazione marittima, tamerici, cipressi, oleandri. Marco si ferma atterrito. Nel silenzio angosciante, rotto solo dall’ululato monocorde del vento, sente una voce, che pare provenire dalla sua mente. “Figlio mio, figlio mio…”, sussurra. Sembra la voce di sua madre, almeno così la ricorda, ma è un pensiero indistinto, fugace, non riesce a trattenere le sembianze della vecchia madre. “Mamma”, mormora, “dove sei?”. Ma la donna è una presenza invisibile, si sente soltanto la sua voce disperata che continua a ripetere ossessivamente: “Figlio mio… figlio mio…”. Improvvisamente dalle porte dei campi da tennis si odono rumori gracchianti e lugubri latrati, come un intenso abbaiare di cani, lanciati all’inseguimento di qualcuno, protesi a difendere un luogo da non profanare. Marco si rende conto che l’orda è vicina, ma quando ne intuisce le fattezze innaturali si rende conto che non sono bestie normali, ma esseri infernali, orripilanti esseri deformi che si muovono come in un incubo fantastico, vestiti con macabri manti neri, ricoperti di squame, muniti di branchie, con le zampe palmate. Demoni infernali, pensa Marco. Demoni infernali che mi vengono a prendere. Le orrende creature saltellano intorno a Marco, i loro volti sono immobili, le parole che escono da quelle bocche sono cupi latrati, un gracchiare informe e minaccioso. Una moltitudine di bestie immonde circonda Marco, centinaia di bocche da pesce si avvicinano al suo volto, mentre suoni informi percuotono il suo udito. “Maledetti incubi della mia mente!”, grida Marco. In un istante tutto scompare. Marco è a terra, sudato, spaventato, distrutto dal terrore. Adesso vede il cimitero vicino. Intuisce il cancello circondato da cipressi a pochi metri di distanza, sembra comparso dal niente, in mezzo al deserto roccioso delle scogliere a picco sul mare. Una voce lo ammonisce di fare in fretta, perché tra quelle tombe di marmo troverà la spiegazione, potrà capire che cosa sta accadendo in quel mondo percorso da demoniache presenze. Le creature orrende si sono volatilizzate, i guerrieri dell’apocalisse hanno ceduto il passo. Adesso può entrare nel camposanto, farsi largo tra cipressi e tombe, comprendere finalmente dove le voci interiori cerchino di condurlo.

Marco si rende conto che qualcosa è cambiato. Non è più lo stesso cimitero, silenzioso, cupo, preda di oscure presenze, di alberi e tombe che prendono vita, trasformandosi in demoni fiammeggianti. Marco vede diverse persone riunite attorno a una tomba. Un becchino scava lentamente una fossa. Uomini e donne piangono. Un prete prega e recita una lenta omelia. Musica sepolcrale e odore acre d’incenso. Marco si fa largo tra persone che sembrano non vederlo. Volti sconosciuti, indistinte presenze del passato, espressioni assorte, uomini e donne dai lineamenti indiani che pregano in una strana lingua, alcuni suonano una triste musica di violino, altri intonano lugubri canti di morte. Sono in mezzo ai fantasmi? Sto passando e nessuno si accorge di me… pensa. Marco continua a camminare tra gente che non lo degna di uno sguardo, uomini e donne intenti a recitare tristi preghiere in una lingua incomprensibile. Marco d’un tratto la vede. Si sente stringere la gola da un nodo di pianto. Avanza di pochi passi, costernato, affranto, sconvolto. Non comprende. Non può comprendere. In mezzo alla folla di persone che si accalcano davanti a quella tomba riconosce sua madre. Marco si avvicina. Suda freddo. La sua voce è tremante. “Mamma, cos’è successo? Perché sei qui?”, chiede carezzandole il volto con affetto. “Figlio mio, cosa ti avevano fatto?” grida la donna in pianto. E d’un tratto scompare nel vento, come rapita da un nero vortice infernale che la risucchia nel cielo infinito. In un rapido istante scompaiono tutte le persone riunite davanti alla tomba. Il prete, gli uomini e le donne in preghiera, il becchino con la pala ricolma di terra. Resta solo il sepolcro. Marco si avvicina. Osserva la foto. Un grido di dolore esce dalla sua bocca. Cade a terra disperato. Abbraccia la croce e affonda il volto nella terra. E d’un tratto rivede la scena. Vede uomini e donne saltare in aria in quel campo nomadi proprio accanto al cimitero. Vede le sue vittime volare nel cielo del mattino come ombre grigie che si disperdono nel vento. Vede il suo corpo esplodere in mille pezzi santificando il massacro. Vede la sua follia riflessa nella foto che lo ritrae nella lapide di quel cimitero di mare. Adesso può tornare in scena il mostro tentacolare con le braccia composte da lingue di fuoco. Una mano con le unghie acuminate si protende verso i suoi capelli, lo afferra con gesto deciso. “Adesso che hai scavato nei meandri della tua anima è arrivato il momento di andare”. Marco non oppone resistenza. Si lascia bruciare lentamente da lingue di fuoco infernale che assorbono per sempre i suoi peccati.

29 ottobre – 4 novembre 2012

Pubblicato originariamente nella collana “I Foglietti”

Edizioni Il Foglio Letterario

diretta da Gordiano Lupi e Paolo Merenda

Gordiano Lupi