ARCANA 03

Personaggi

- Giorgia Ferrarin, Erika Ferrari & Alessia Leblis, delle adolescenti del luogo.

- Padre Arles, uno strano prete morto da anni.

- Ermanno Burgio, unico abitante rimasto a Saletta, un tossicodipendente.

- Nina Balzaretti, la bibliotecaria di Asigliano.

- Germano Vittone, un proprietario terriero.

- Bruna Bertinetti, la donna coi cani.

- Daniele Pavia, docente di scuola media.

- la pitonessa, sacerdotessa d’una setta di ragazzini che si riunivano al tabernacolo nel 1979.

- la dama bianca, una figura trasparente che si muove lungo i campi, armata di rasoio.

- la bambina bianca, forse una fantasma della mente?

3 – Psychism 2: Fear is the great teacher (Secret Chiefs 3)

Sulla strada serpeggiante flora e cascinali.

Erika e Alessia con le ecobici.

Un pomeriggio libero dai primi compiti.

Giorgia aveva degli impegni con la danza.

Toccava a loro tornare a Saletta, attratte dalla sua iridescente fantasmagoria. Ne avevano parlato con alcuni compagni delle superiori e volevano creare una pagina Facebook sul tabernacolo. Mentre pedalavano, ombre calde si sbriciolavano lungo la strada bianca. Ottobre regalava ultimi pomeriggi di sole e calore. Mietitrebbia gigantesche formicolavano nel silenzio dei campi, brillando come astri ultraterreni. Il riso era stato tagliato e alcuni contadini appiccavano i primi fuochi. Spume di fumo salivano verso il cielo terso, mescolandosi ai colli delle nuvole. Erika pedalava, confortata dalla presenza dell’amica del cuore e da una camicetta di chiffon color panna e da pantaloni di velluto blu oceano. I lunghi capelli castani e la frangetta perfetta mossi dalla brezza. Le sopracciglia sottilissime come falci contadine. Il musino aguzzo, temperato da una smorfia sorniona. Alessia la seguiva in t-shirt, collana di fiori e gins a sigaretta. Le ciglia filo di segale, il corpo a forma di picche, labbra di gelatina e un viso molle di cioccolato fuso. Odorose di riccioli di panna, pedalavano nell’ultimo alveare di luce, strofinando l’interno delle cosce contro il sellino. L’improvvisa canicola le alleggeriva, rendendo i luoghi meno carichi di monogrammi misteriosi. Nessuno le spiava mentre legavano le ecobici. Erika e Alessia parlavano di tutto e di niente. Spettegolavano su alcuni ragazzi e relative fidanzate, immaginando quando sarebbe toccato a loro. Poi si perdevano nei soliti discorsi sui genitori troppo severi e assenti nel medesimo tempo, oppure infioravano maledizioni all’indirizzo di qualche professore troppo solerte nel caricarle di verifiche. Allora i ricordi degli anni appena bruciati sotto la cupola paesana delle medie le rendeva melanconiche come un bosco di lappola imbevuto di iodoformio. Subito scacciavano i veli della tristezza stringendosi l’una all’altra e guardandosi intorno, riprendendo a costruire le trame occulte di Saletta, immaginando altri orrori sconosciuti. Videro la figura di una donna che passeggiava sopra i campi con dei cani. Erano forme lontane, sembianze umane cucite all’altezza dei covoni di paglia. Nessun altro spiava l’avvicinamento al tabernacolo celato sotto i groppi di boscaglia. Dispiegarono il solito armamentario di scongiuri e precauzioni, aguzzando l’udito per sondare il terreno ed evitare d’incappare in comitive di satanisti assetati di 14enni vergini. L’idea le riempì di brividi, perché, nonostante le mille ingenuità, le due amiche già sentivano i morsi al ventre del sesso e ne immaginavano i dolorosi piaceri. Ne parlavano spesso, immaginando la deflorazione come un martirio sonnambolico che avrebbe schiuso altre meraviglie. Immaginavano quei bagni di carne con occhi fumiganti, mordendosi le labbra e scoprendo di desiderare qualunque uomo più grande di loro. Facendo le sciocche ondeggiavano i fianchi, dandosi un contegno adulto. Nonostante i profumi di arnica e brunella e tutti i mascheramenti e le smorfie dell’allegria, la visione del tempietto smorzò appena lo strombettio allegro. Le comitive di satanisti le avrebbero assassinate un’altra volta e i lupi mannari dovevano ancora sorgere dalla tomba di luna. Altri pazzi non emergevano dai rottami dei cespugli. Sempre guardinghe, le amiche aggirarono la costruzione gotica e presero a cercare le inquadrature più suggestive. Discettarono sui fanciulli d’ogni epoca attratti dal magnete del tempietto. Come Giorgia, erano rimaste folgorate dalle fiabe sulla pitonessa, i riti, le morti tragiche, le leggende lasciate cadere ad allignare sull’erba ginestrina.

- Potrebbe crollarci sulla testa.

- Figurati, guarda quelle colonne.

- Andiamo dietro, alla cripta.

- Vuoi mica scendere?

- Perché, Erika?

- Sei mica matta? Senza Giorgia, poi!

- E dai, un paio di foto là sotto e ce ne andiamo. Lo sai che figurone ci facciamo? I compagni di Vercelli se lo sognano un posto così.

- La mia dose di coraggio finisce qui.

- Che scema!

- Scendi tu.

- Da sola?

- Eh?

- Seeeeeehhhhh!

- Ah! Volevo ben dire.

Giorgia rimase a fissare il buco slabbrato che conduceva alla stanza sotterranea. Un rocchetto stridulo le arricciò la voce ocarina.

- Che ci scendevano a fare, laggiù?

- La pitonessa dici?

- Sì, e gli altri ragazzini.

- Giorgia dice che cercavano qualcosa.

- L’avranno trovato?

- Sììììììì!

Le dita minuscole come soffioni di Erika strizzarono i fianchi carnosi dell’amica, procurandole un brulichio polveroso di piacere. L’altra lasciò fare, dispiegando la forbice delle gambe.

- Hai caldo?

- Sì.

- Anch’io.

Come ruscelli, i pantaloni scivolarono via, liberando i fiumi delle cosce. Scalze, allinearono le vallate dei loro ventri, giocando a strusciare i cespugli appena rigonfi dei sessi. Senza gli scrupoli del mondo, le bimbe, già da mesi, avevano preso a stuzzicarsi sempre più, scivolando in atti masturbatori brevi e violenti come acquazzoni. Come nespole spolpate dalle gelate notturne, Erika e Alessia si strigliarono e si scotennarono con le dita, baciando con le lingue la membrana odorosa delle loro prugne. Quando una pioggerella di rugiada inzuppò le loro cosce, si rialzarono dai mucchietti di terra sollevati dalle talpe e si rivestirono in fretta, non per pudore, ma per la paura d’esser sorprese così in quel postaccio. Raccolsero la digitale dalle forre e ripresero il cammino verso la chiesa e le ecobici. Come nulla fosse, ripresero a chiacchierare giulive, alleggerite dagli spasimi degli orgasmi. Per questo sottovalutarono l’ora. La donna coi cani sembrava volatilizzata e con lei le trecce più impavide di sole. Ora un leggero chiarore si stemperava sui campi, preparando l’avvento della notte. Le bimbe, ancora sorridenti, si lasciarono sorprendere dal medesimo vampiro fluttuante dietro ai colonnati scheggiati della chiesa. Ermanno Burgio corse loro incontro come la prima volta, ripetendo la medesima sceneggiata di strepiti e bestemmie. Erika e Alessia smisero con le loro balbuzie e strillarono di più, inumidendo i sellini delle bici. Il motorino elettrico, fedele a una leggenda del posto, non partì e allora dovettero ricorrere ai vecchi, cari, pedali! L’energia trasognante del sesso donò loro un’elettricità prodigiosa, facendole schizzare lungo la comunale. Burgio, colla sua fascetta da corridore d’altri mondi, non provò neppure a seguirle, già smorzato dagli effetti dell’eroina sempre in circolo dentro di lui. Per la seconda volta non era riuscito a intercettare le ragazze. Per la seconda volta non riuscì ad avvertirle di tenersi alla larga da Saletta, e dal tabernacolo. Perché a lui aveva succhiato il midollo spinale, la vita, i sogni, le speranze e le aveva sostituite con un incubo senza fine dal quale non s’era più svegliato. Burgio rimase appeso a quei pensieri, mentre l’aria immobile lo sovrastava e un soffio irreale mosse le fronde dietro la chiesa. Dal cancello remoto del cimitero sconsacrato, oltre i drappi funerari, vide, o immaginò di vedere, la solita bambina, bianca e funebre che gli sorrideva silenziosa, identica all’ultima volta che l’aveva vista. La sagoma della bambina indugiò nel rossore del sole, infine svanì nel giglio di marmo bianco d’una sepoltura. Burgio si strizzò nel chiodo anni ’80 e accese una sigaretta. La fumò confortato dal suo cane lupo, l’ultimo amico.  Quella notte la paura si sarebbe aggirata per Saletta, liberando vecchi scongiuri. Su quel pezzo di campagna una ragazzina era morta nell’ombra celibe della magia. E ancora aspettava la sua vendetta?…

L’universo magico è una analogia poetica.

Questo le aveva insegnato padre Arles prima di morire d’un tumore ai polmoni. Questo le aveva lasciato in dono per i suoi 16 anni. E questo stava insegnando ai suoi adepti, un branco di ragazzini e ragazzine annoiate, eccitate, in gins a zampa, gonne lunghe, maglioni girocollo, braccialetti indiani, camicie a fiori.

Nascosto tra loro, non ancora annullato dalla droga, Burgio spiava le forme diafane della sacerdotessa. Ne ammirava i riflessi ramati dei capelli, rossi d’un rosso ideale, che scendevano lungo il corpo nudo di lei e le incoronavano i seni come panni di porpora. La pitonessa li dominava nonostante avesse qualche anno più di loro. Muoveva la testa con smorfie squisite e dei bagliori le sgorgavano dagli occhi, quasi a volerli ridurre in polvere! Il sacerdote le aveva insegnato il segreto delle analogie e altri trucchetti per vincere la morte. O così diceva. Loro la seguivano, ipnotizzati dalle movenze umbratili di quel ventre trasparente. La pitonessa li trascinò nelle cripte del tabernacolo. All’inizio era un gioco, coronato di birra e ammiccamenti sessuali, dopo divenne qualcosa di meno piacevole. Intorno a loro c’era l’aura della morte. Il buio e l’umidità delle pietre li avvolgevano come sudari, levando il fiato. Accendevano dei lumini da morto e recitavano le preghiere al contrario, bestemmiando sopra alle foto dei morti prese dal cimitero sconsacrato. Il cane di Ecate, la dea degli spettri e gli abitatori del buio li avrebbero ascoltati e premiato i più audaci. Coloro capaci di tramutare il simbolo della putrefazione in sale, argilla, scintilla di vita eterna. La sacerdotessa disponeva il cerchio magico e danzava in quella tomba circolare, poi prendeva il loro sesso arrossato nella bocca e li ingoiava a piccoli sorsi…

(3 – continua)

Davide Rosso