ARCANA 01

Personaggi

- Giorgia Ferrarin, Erika Ferrari & Alessia Leblis, delle adolescenti del luogo.

- Padre Arles, uno strano prete morto da anni.

- Ermanno Burgio, unico abitante rimasto a Saletta, un tossicodipendente.

- Nina Balzaretti, la bibliotecaria di Asigliano.

- Germano Vittone, un proprietario terriero.

- Bruna Bertinetti, la donna coi cani.

- Daniele Pavia, docente di scuola media.

- la pitonessa, sacerdotessa d’una setta di ragazzini che si riunivano al tabernacolo nel 1979.

- la dama bianca, una figura trasparente che si muove lungo i campi, armata di rasoio.

- la bambina bianca, forse una fantasma della mente?

1 – Un tranquillo posto di campagna (E. Morricone)

Fu questo articolo ingiallito ad accendere la curiosità di Giorgia, Erika e Alessia.

Fu questo semplice articolo a far precipitare gli eventi.

Dopo l’esame di terza media, per le tre amiche l’estate era un frutto maturo carico di speranze e paure: per una serie di coincidenze (il superlavoro dei genitori, una caduta con conseguente rottura dell’anca e ricovero d’una nonna 90enne) videro sfumare le agognate giornate di mare, confinate nella canicola di Asigliano, nella bassa vercellese.

I genitori fuori casa quasi tutto il giorno.

La libertà di girare in bicicletta sulle strade bianche.

Si trovavano fin dal mattino e trascorrevano tutte le ore tediose in compagnia, cercando di scacciare i demoni meridiani. Pranzavano assieme, parlavano, aggiornavano la pagina Facebook. Le ansie del futuro erano una costante dei loro discorsi. Da un lato erano felici di aver lasciato il comprensivo nel quale avevano fatto dalle elementari alle medie, dall’altro la scuola superiore sembrava qualcosa di troppo impegnativo, un’anticamera del mondo dei grandi e delle prime responsabilità. Nessuna avrebbe veramente voluto diventare adulta e sciuparsi, un giorno dietro l’altro, come avevano visto accadere ai loro padri, alle loro madri. Comunque, superiori permettendo, rimaneva il problema del tempo da stornare.

L’articolo le fulminò.

Lo scovarono dopo una visita alla biblioteca del paese, per consegnare alcuni libri “hot” presi in prestito col benestare della signora Nina Balzaretti, la bibliotecaria. Nina era una bella donna di 50 anni, amica della madre di Giorgia. Quando le vide avvicinarsi al bancone con una copia di “50 sfumature di grigio” abbozzò un sorriso e fece finta di niente. Siccome fuori faceva ancora un gran caldo e la biblioteca era munita d’aria condizionata, le tre amiche si divertirono a sfogliare dei vecchi raccoglitori coi numeri della Sesia. Lì rintracciarono l’episodio accaduto nel 1979, ormai 36 anni prima.

Per la prima volta videro il loro paesino come il centro del mondo, un luogo in cui era avvenuto un evento, qualcosa di cui ricordarsi.

Da buone ragazze di campagna, non potevano ignorare l’esistenza del tempietto, pur tuttavia erano all’oscuro dei fatti che vi erano accaduti.

La setta di ragazzini.

Una ragazza delle magistrali ad officiare dei riti?

Uno strano prete in odor di stregoneria?

Il tabernacolo di San Sebastiano.

La morte di un’adolescente come loro.

Una volta Alessia ricordava di aver chiesto a suo padre del tempietto e lui le aveva detto di starci alla larga, che era pericoloso e che, in effetti, c’era morto qualcuno.

L’articolo riaccese gli entusiasmi sopiti dalla canicola.

Spesso si trovarono con le biciclette a girare intorno alle casupole diroccate di Saletta, senza mai decidersi ad avvicinarsi.

Poi le giornate in piscina, e qualche batticuore dietro a dei ragazzi più grandi di Vercelli, le distolsero brevemente dall’appuntamento col loro destino.

Una mattina, a estate agli sgoccioli, dopo l’inizio delle scuole e l’ingresso nel nuovo universo scolastico, Giorgia propose alle altre di sfatare il mito. Erika e Alessia non aspettavano altro. L’occasione era propizia per raccontarsi le prime impressioni sui nuovi compagni e professori; inoltre avrebbero potuto vincere le paturnie sul futuro immergendosi in quel vivaio di fantasmi, in quell’arena di sortilegi che era sempre stato il tempietto.

Così fecero.

Con le loro ecobici elettriche Malaguti attraversarono quelle lingue paludose di terra che separavano Asigliano da Saletta.

Pedalavano o fingevano di farlo, immerse nella piana infinita, divisa dalle corde dei fossati dove l’acqua si tingeva di rame e altri diserbanti.

Pedalavano inquiete nel vento, mentre gli aironi le osservavano placidamente, dondolando su una gamba sola.

Tutto intorno era risaie, granoturco giallo. Asteroidi di salicina oscillanti nelle brezze.

Loro pedalavano in fuga dal reale, immaginando chissà cosa.

Saletta ormai era una frazione abbandonata, utilizzata dagli agricoltori del posto per parcheggiare mezzi agricoli e balle di fieno.

Lasciarono le ecobici a ridosso della chiesa abbandonata, vicino ai colonnati dell’ingresso. Sopra le loro teste, sul frontone dell’ingresso, erano scolpiti furiosi bucrani, teschi bovini addolciti appena dai triglifi di pietra. Intimidite da quel rigorismo puritano, le ragazzine scacciarono le prime avvisaglie della paura coi freschissimi ovali delle labbra. S’inoltrarono tra le erbe morte dei campi, avvicinandosi al boschetto di pioppi, salici e querce che oscurava dalla strada il tabernacolo dell’occulto piovuto, fuor da ogni logica, nel bel mezzo di quel niente di terre e canali.

Oltre ai cespugli scuri di clorofilla.

Dopo aver scrutato il niente rigato dei campi.

Oltre un terrapieno in lieve pendenza.

Racchiuso da un découpage di muretto e da un vallo superstizioso.

Il tempietto rotondo.

Di ordine dorico.

Elevato su un basamento e scale diroccate dall’edera.

Dodici colonne sepolcrali, romaniche, pagane.

E la facciata di finto marmo.

Il frontone, l’architrave, il fregio, la cornice, capitelli, tutto sfiorito nel colore delle rose annerite, consunte dall’atmosfera e dai vandalismi.

Giorgia, Erika e Alessia rimasero senza fiato.

Assorbite da quella dolcezza di cripta, in quella anamorfosi d’arcano vercellese.

In quel posto, 36 anni prima, la pitonessa aveva officiato i suoi riti, il prete l’aveva istruita e una ragazzina era morta sotto le ruote d’una Giulietta della polizia. Il tabernacolo dedicato a S. Sebastiano le sondava come un occhio malefico, un diavolo di arenaria calcificato dagli scongiuri dei contadini. Diaspore sonnamboliche di fantasmi sciamavano intorno a loro, smovendo il buio sghembo dei fusti.

Le ragazze fecero delle foto coi cellulari e si graffiarono le gambe nell’intrico di rovi ancora folti.

Arrivarono sul retro dell’edificio, dove scritte spray e disegnini di diavoli coronavano i muri.

Videro la bocca negra che conduceva nella cripta sotto la costruzione, nelle budella umide in cui altri adolescenti avevano cercato risposte alla medesima noia. Giorgia voleva scendere, armata dalla luce raziocinante del cellulare. Erika iniziò a mordersi il labbro e stringere gli occhi. Alessia era tutto un girarsi al minimo bisbiglio. Vinsero le paure e rimandarono la discesa nel maelstrom. Continuarono a scattare foto da postare su Facebook e si misero in posa sotto le colonne. Quando la luce iniziò a incepparsi tra gli alberi stretti – e la malinconia bulimia di casa morse i loro stomaci – le amiche tornarono sui propri passi, senza staccare la coda dell’occhio dall’edificio rozzo che le attraeva con violenza. Nei mille discorsi che fecero, nessuno riuscì a rendere tangibile la sbalorditiva bellezza della paura che il tabernacolo emanava su di loro. Come bamboline di legno tornarono a respirare fuori dalla selva, incolumi. La pitonessa non le aveva ghermite. La polizia non le aveva inseguite. Il prete nero le aveva risparmiate. Eppure la follia latente di quel posto le seguì fino alle ecobici, esaltando i risolini, le gomitate e i primi segni di sangue mestruale nelle mutandine. Ancora avevano la macula del tabernacolo nelle pupille quando un’ombra sbucò dal colonnato neoclassico della chiesa e le assalì. Strillarono e sbiancarono come stelle. L’ombra avanzò selvaggia e abbrancò l’aria. Aveva una fascia spugnosa e odorosa sulla fronte, un chiodo da anni ’80 e dei gins attillati vecchi come i libri di Storia. Animate dai fili del terrore, le amiche cercarono la salvezza nei sellini delle ecobici e fuggirono via, in quel che rimaneva dello splendido pomeriggio di fine settembre. L’uomo accennò ad inseguirle, poi lasciò perdere e, ansante, le ammonì di non mettere più piede in quel posto, di lasciare in pace i morti, di lasciarlo in pace. Nella sua giubba da schermidore del metal fuori moda, col suo viso ovoidale simile a caucciù rigonfio di sudore, Ermanno Burgio, unico abitante di Saletta, bestemmiò un’ultima volta verso i puntini delle ragazze e un cane pastore inzaccherato di fango lo guardò di sottecchi sembrando compatirlo, poi gli s’avvicinò, come per riportarlo alla quiete. Burgio accese una sigaretta e cercò la pace incamminandosi sulla destra della chiesa, oltre un muretto stordito di crepe di un cimitero abbandonato. Il cimitero era stato chiuso per evitare altre profanazioni. Burgio s’accasciò accanto a un obelisco funereo, intontito dall’ultima dose d’eroina che gli ricamava le vene. Nemmeno s’accorse del puntino lontano sullo sterrato tra i campi. Una donna tarchiata, dalla lunga treccia bianca e un viso bruciato dagli anni, camminava lenta attorniata da cani bastardi. E non vide colui che li guardava tutti. Un uomo magro, avvolto in un impermeabile beige da detective, seduto su un Nissan Terrano chiaro fermo tra i saliscendi della comunale…

Mentre infuriavano gli ultimi colpi di un mondo che avrebbe ideologicamente perso, mentre la classe operaia e i brigatisti sfumavano nel nuovo consumismo collettivo, lontani dalle colossali trasformazioni politiche e sociali del paese, una banda di ragazzini e ragazzine scivolavano nella pancia del tabernacolo. Scendevano scale liquefatte e ghiacciate di muffe verdi e si disponevano lungo il corridoio anulare di archi e pilastri, nella stanza ipogea. Al centro, illuminata da cespugli di candele, il corpo acerbo e nudo della sacerdotessa. La “pitonessa” come la chiamavano. Colei che li aveva iniziati e raccolti al grande mistero. I lunghi capelli rossi scendevano – come un’aromatica foresta profonda – sulle beltà appena visibili dei seni. Lei, pupille fosforescenti di cloro, danzava e mormorava antiche preghiere, forse imparate, forse inventate. Abbagliati dal mare d’ebano del suo corpo, i ragazzini aspettavano in quel marmo nero di tomba che qualche prodigio si compisse. In realtà aspettavano di sfuggire alla noia della loro vita provinciale. Non era così per la pitonessa. Nella sua magra nudità covava un pensiero fiammeggiante, un’opera alchemica da compiere…

(1 – continua)

Davide Rosso