VIII TROFEO LA CENTURIA E LA ZONA MORTA: III CLASSIFICATO

UN CANTO PER SENZA NOME

di Davide Camparsi

 

Fiancolegno conduceva i Monocorni alla cavezza, sovrappensiero, scacciando le mosche.

Le bestie, tozze e robuste, trascinavano l’aratro rivoltando il terreno, procedendo caparbie lungo sentieri paralleli a ciò che rimaneva del Vallo, pettinando la terra per la successiva semina.

Le rovine dell’antico bastione affioravano qui e là attraverso la grande piana fertile. Fiancolegno sapeva il perché di quella benedetta generosità. Suo nonno, Ventreteso, quando i giovani gli chiedevano di narrare della Battaglia, poco prima che venissero spenti gli ultimi fuochi della sera e accesi i bracieri notturni, non si faceva pregare.

«Hanno seppellito i corpi dei caduti il prima possibile, per evitare il diffondersi di malattie o pestilenze, ma erano troppi, così hanno fatto un lavoro frettoloso. L’anno successivo si vedevano ancora braccia, piedi e visi affiorare nella prateria. Allora li disseppellirono, tritarono le ossa dei morti e le usarono per concimare il raccolto. I campi erano bianchi…»

La Battaglia era molto famosa, sebbene fossero trascorse tre generazioni da quando si era combattuta, all’epoca in cui le Stagioni erano un luogo, e non un tempo.

Allora, la città di Evo era il cuore della Primavera, e la capitale di quelle terre. Lungo l’Anello dell’Estate prosperavano campi e fattorie, garantendo frutti e messi in abbondanza. L’Anello dell’Autunno era terra di frontiera, attrito e poesia. Tra questo e l’Inverno, dove non spiccavano montagne, foreste impenetrabili, acquitrini inaccessibili o il mare, si ergeva il Vallo: un bastione di pietra eretto dagli abitanti di Evo contro i rigori del gelo e della neve.

E delle genti che vi erano confinate oltre.

Fiancolegno teneva lo sguardo basso, per non lasciarsi abbagliare dalla luce tagliente dell’alba, quando i Monocorni si arrestarono di colpo, facendolo incespicare. Possedevano una natura recalcitrante, nonostante fossero bestie affidabili. Colpì quello al suo fianco con la verga di salice che si portava appresso; un buffetto amichevole, per spronarli a proseguire.

I Monocorni nitrirono, abbassando il capo fino a sfiorare il terreno con il tozzo corno che spiccava al centro della loro fronte. L’aratro però non si spostò.

Fiancolegno imprecò, chinandosi a controllare il vomere e il coltello, affondati nella terra grassa. Pareva che il metallo si fosse incagliato in qualcosa: si augurò che non si trattasse di una falda rocciosa. Spinse gli animali a destra e a sinistra, per provare a liberare l’aratro senza rovinarlo, ma non riuscì a fare altro che essere quasi morso da uno dei due Monocorni. Fischiò, e suo figlio corse subito da lui.

«Ortica, dammi una mano. Scaviamo un poco e vediamo di che si tratta.»

Non era una pietra. Era troppo bianca e non si trattava di gesso.

Era un osso. Un osso molto grande.

Più tardi, anche se l’aratro era ormai libero da un pezzo, stavano ancora scavando.

Ortica guardò il padre negli occhi: anche lui aveva ascoltato le storie di Ventreteso. Lo sguardo di Fiancolegno brillava, le mani tremavano, mentre erano intenti nel portare alla luce quello che pareva il profilo corrugato e antico di un teschio enorme.

«Malvolo?» balbettò Ortica.

Fiancolegno non disse né sì, né no.

«Vai a chiamare gli altri. Anche Ventreteso» ordinò.

«Dì che portino vanghe. Chiunque ne abbia una. E convochino il Mostrastorie più vicino.»

 

La sera era calata da un pezzo.

I fuochi scaldavano l’aria notturna, sfumando il vibrare delle stelle. Tutto il villaggio si era radunato lungo i resti del Vallo, in prossimità dello scavo. La scoperta aveva richiamato anche gente dalle fattorie più lontane.

Non avevano dissotterrato tutto lo scheletro, ma buona parte del teschio e della spina dorsale. Nessuno di loro aveva mai visto una bestia così grossa: secondo le leggende, Malvolo era stato l’ultimo dei grandi Draghi. Nessuna di quelle creature era stata più scorta solcare i cieli, dopo la Battaglia. Ora, quando gli uomini impegnati nello scavo estraevano i resti di una scaglia cangiante dal terreno, si levavano grida di ammirazione da parte dei presenti. Era ritenuto una fortuna possedere un simile talismano.

Lungo il bordo della fossa, Ventreteso annuì all’indirizzo di Fiancolegno e Ortica.

«Il gran Drago fu uno degli ultimi a cadere. Il Mostrastorie farà tremare molti cuori, stanotte.»

Oltre che del fumo dei falò, l’aria era intrisa anche dall’aroma del cibo che arrostiva tra le fiamme e sulle ceneri calde. Chi era dotato nella voce cantava ballate sguaiate o struggenti, raccogliendo gruppi festanti di persone, sempre più numerosi. La notizia dello spettacolo, e che presto un Mostrastorie li avrebbe raggiunti per esibirsi nella propria magia, doveva aver oltrepassato i confini della piana.

Quando infine l’uomo giunse, accompagnato dai propri apprendisti, il chiacchiericcio si smorzò. Un Mostrastorie non era cosa di tutti i giorni, e ciò che avevano rinvenuto apparteneva a un’epoca di leggende e vecchia magia.

Fiancolegno lo accompagnò fin sul bordo dello scavo, impettito, orgoglioso. Ventreteso, le mani incrociate dietro la schiena, li seguiva a un passo. Pareva faticare nel trattenere un commento e ogni tanto brontolava tra sé bisbigli incomprensibili. Gli occhi di Ortica erano enormi.

Persino il Mostrastorie parve sorpreso.

Ciò che era stato dissepolto del Drago si allungava per almeno una dozzina di ruote, e il suolo ne celava ancora gran parte nel proprio umido abbraccio.

Si voltò verso i propri apprendisti, quattro ragazzini poco più vecchi di Ortica, e consegnò loro i bastoni con i vessilli di campo: bianche bandiere, lunghe e affusolate, che avrebbero delimitato l’area dell’evocazione.

«Un carro da qui, in ogni direzione» disse, senza degnarli di uno sguardo.

Un brusio si levò dalla folla: si trattava di una superficie enorme, per una magia di quel tipo. Gli apprendisti lo fissarono incerti, ma il Mostrastorie li scacciò con un gesto perentorio e questi corsero via, come fossero stati schiaffeggiati.

«Idromele» chiese, continuando a fissare la fossa. Nonostante si trattasse di un uomo autoritario, anche se non vecchio e ancora nel vigore degli anni, pareva spaventato dal compito che lo attendeva e al tempo stesso esaltato dalla sfida.

Scostando un lembo del mantello di sette colori che lo avvolgeva, allungò la mano e una donna gli porse svelta una coppa. La trangugiò in un sorso, lasciandosi sfuggire un sospiro e un rutto. Poi scrutò le stelle, soddisfatto che il cielo fosse terso.

Si volse verso il pubblico che occupava la piana e le rovine del Vallo, denti spezzati e smussati che tagliavano ormai solo l’ampio terreno di semina, come le gengive spogliate di un vecchio; la sua voce si levò limpida, raggiungendoli tutti senza fatica.

«Al tramonto della luna daremo inizio alla rievocazione.»

Un boato di giubilo si sparse ovunque, facendo rabbrividire d’emozione Fiancolegno, Ventreteso e Ortica.

 

Si erano accordati per otto monete, un maialino da latte e quattro forme di formaggio.

Un prezzo molto alto, ma poiché tutti i presenti avrebbero contribuito, nemmeno troppo oneroso per lo spettacolo cui avrebbero assistito.

Il Mostrastorie percorse la passerella di legno, approntata in fretta e furia per l’occasione, che conduceva fino al cranio dissotterrato di Malvolo, l’ultimo dei Grandi Draghi. Tutt’intorno, fuochi in recinti di pietra illuminavano la piana come un firmamento di stelle appena schiantate al suolo. Il crepitare delle fiamme contro il legno era l’unico rumore della notte. Quello, e centinaia di respiri trattenuti, in fremente attesa.

Il Mostrastorie s’inginocchiò, allungando il palmo della mano fino a sfiorare le antiche ossa sporche di terriccio, senza ancora toccarle.

«Cento anni fa il Vallo proteggeva Evo dalle terre d’Inverno» scandì. Ai quattro angoli della piana erano stati eretti i Vessilli di Campo, custoditi dai suoi apprendisti. «Due grandi eserciti si scontrarono qui, divisi solo dall’antico bastione di cui oggi non resistono che ruderi. Da una parte i difensori, sotto le insegne della Signora di Evo, agli ordini dell’Orlætane Tusk; dall’altra, i confinati oltre il Vallo, tra i rigori dell’Inverno: reietti e vestigia di ciò che restava dell’antica magia. Dopo anni d’incessante attrito lungo il confine, in questo luogo le due schiere vennero infine a Battaglia.»

Fiancolegno sbirciò il cielo. La mano di suo figlio stringeva la propria, Ventreteso pareva meno curvo del solito. Le parole che avevano appena udito scaldavano il sangue, facendolo tremare: un sentimento comune a tutti quelli radunati attorno ai falò.

Ciò che restava del disco della Luna tramontò dietro ai Picchi.

Il Mostrastorie spinse il palmo contro l’osso ancora rovente di Malvolo. Anche sepolto, il Drago parve ringhiare.

Il suolo scricchiolò, ammutolendo ogni voce e rumore nella notte.

Un brontolio lontano, crescente, giunse da lontano, araldo di un vento caldo e luminoso.

Fiancolegno strinse il figlio a sé, schermandosi gli occhi con la mano. Ventreteso nominò invano i Quattro Dei.

La luce si sparse ovunque, come una cappa di miele, accecandoli. Tremando attraverso le loro ossa.

Da dove si trovava, Fiancolegno udì il Mostrastorie emettere un gemito che presto si trasformò in un grido che ne consumava il respiro. Quando riuscì finalmente a riaprire gli occhi, arsi di lacrime, i fantasmi costellavano la pianura, il Vallo era intatto e corni da guerra riempivano l’aria del loro minaccioso, terrificante mugghiare.

 

Il cavallo dell’uomo s’impenna contro il profilo della collina.

Non si tratta di un tarchiato Monocorno, ma di uno stallone da guerra, nero e possente, zoccoli enormi che scalciano l’aria con furia selvaggia. Come se quell’esibizione di forza non bastasse, è il mantello scarlatto dell’uomo ad attrarre ogni sguardo su di sé: candidi ermellini intrisi di sangue che annunciano il sacrificio della Battaglia.

Banshee seminude, sotto il cielo grigio, spandono il loro canto di morte ovunque, facendo accapponare la pelle ai difensori del Vallo arroccati lungo il cammino di ronda. Da una parte all’altra del campo il sordo muggito dei corni è sempre più forte. I lugubri lamenti dei corvi sono troppo striduli per essere uditi, ma ognuno sulla piana lo sa: al termine della carneficina, quelli saranno gli unici versi che si udranno per giorni.

L’uomo, che tutti conoscono come Tormen Pugno-di-Ghiaccio, getta a terra il proprio mantello, tra la neve candida che cade tagliente sulle terre d’Inverno.

Rosso sul bianco.

La Battaglia ha inizio.

«Nel sangue! Nel sangue!»

Il grido attraversa la piana spinto dal fragore di migliaia di voci in tumulto lanciate all’assalto.

Quattro Giganti capeggiano il primo attacco agitando asce bipenni grandi come un uomo, ma sono vecchi e un facile bersaglio per frecce e arpioni. Quando il primo cade, non è che a metà della distanza che li separa dalle mura. Gli uomini sui bastioni erompono in grida di trionfo, anche se il rumore della creatura pare quello di un’intera foresta che cade nel fango. Solo uno dei Giganti riesce a raggiungere il Vallo, nel punto in cui le mura gli arrivano all’ombelico. Il corpo emaciato è cremisi del sangue di centinaia di ferite; un arpione sporge dal fianco, un altro è conficcato appena sotto la spalla, in profondità nella carne. Prima che il terzo dardo lo centri all’occhio sinistro, spezzandone la vita e la corsa per sempre, si getta con le ultime forze contro il bastione, aprendo una breccia dove i guerrieri alle sue spalle si gettano urlando, agitando spade e asce affamate.

 

«Ho udito canzoni, su di lui» sussurrò Ventreteso all’orecchio di suo nipote e Ortica. Un tremito nella voce, mentre gli occhi di tutti erano rapiti dall’evocazione del Mostrastorie. Dai fantasmi materializzati tra loro. «Il Bardo cantava che prima dello scontro avesse giurato sui Quattro che qualunque fosse stato l’esito della Battaglia, le sue ossa avrebbero riposato per sempre nel caldo tepore dell’Autunno…»

 

Il Vallo è una linea che separa l’Inverno dalle miti Stagioni.

La neve è gonfia di sangue e di corpi, stendardi spezzati, fumo, cavalli morenti e feriti agonizzanti. In prossimità delle mura le avanguardie dei due eserciti sono giunte a contatto e la Battaglia infuria. Quello delle spade non è un canto, come affermano i poeti, ma il folle delirare d’idioti privi di grazia. Il cuoio cede, l’osso si spezza; il metallo sbrana la carne. I respiri consumano, le grida assordano. Il silenzio è fatto di un rumore indistinguibile, come il fragore troppo intenso di un temporale stipato all’inverosimile di folgori. Persino il dolore è privo di senso: solo la rabbia ruggisce più forte del frastuono; quella e il lamento di chi comprende, nell’ultimo istante, che tutto è finito con la propria vita sacrificata nel fango.

Quando le macchine d’assedio fanno cadere un altro tratto di mura, torme di cavalleria si lanciano al galoppo nella mischia. Monocorni catafratti, stalloni da guerra, mastini, cavalieri di Viverne e lupi si precipitano gli uni contro gli altri; c’è una belva affamata cui sacrificare la propria carne: il suo nome è Guerra. E nessuno può dire che sia priva d’amore, perché corteggia la Morte a ogni occasione.

Per quanto sia stanco il braccio, profonda la ferita, ancora si alza la spada. E ancora calano spada, artiglio, zanna. Uno sporco, feroce lavoro d’armi.

Agli occhi dei difensori al comando dell’Orlætane Tusk, coloro che lottano sotto le insegne di Tormen Pugno-di-Ghiaccio paiono mostri affamati di distruzione e saccheggio.

E lo sono davvero: troppe generazioni di stenti e privazioni li hanno spinti a costeggiare gli scoscesi crepacci della disperazione. Che tu sia uomo, bestia o mostro, quando sei schiacciato all’angolo non fa alcuna differenza: l’unica possibile via di salvezza passa attraverso la gola del tuo avversario.

Per questi altri, invece, i difensori sulle mura non sono che aguzzini a guardia di una prigione fatta di neve, ghiaccio e stenti, che congela i loro figli nel sonno, invecchia in fretta le donne e presto consuma ogni cosa per cui valga la pena vivere.

Solo i corvi che solcano il cielo impazienti conoscono la verità: non vi è alcuna differenza tra gli uni e gli altri; la carne è carne, il sangue è sangue.

Buon cibo per l’acciaio e il rostro duro dei becchi.

 

«Cosa?»

Fiancolegno si era chinato verso Ortica. Suo figlio aveva mormorato qualcosa che non aveva colto, sulle prime.

«Così tanti morti…»

A Fiancolegno parve ancora più giovane e per un istante si pentì di avergli permesso di assistere all’evocazione. Ma poi pensò che era meglio che guardasse e riflettesse, piuttosto che fuggisse alla verità delle cose.

«Siamo fatui come nubi, figliolo» mormorò. «Feroci come temporali.»

Poi si chinò e raccolse una manciata di terra. Era grassa e profumata, fertile. Sfregò la terra tra le dita e la lasciò cadere di nuovo.

«Ci mietiamo l’un l’altro senza altra ragione che l’ammiccante bagliore dell’acciaio. Non c’è senso in questo. Guarda e scegli che uomo vorrai essere da grande»

 

È quasi il tramonto.

Lo scudo dei superstiti è Disperazione; la loro spada: Sfinimento.

Rabbia il vessillo di tutti. Garrisce insanguinato sotto il cielo di metallo che soffoca la piana.

Quando i guerrieri di Tormen paiono avere la meglio, l’Orlætane libera i Maghi da Guerra.

È un mondo stanco, questo; gli incantesimo vibrano deboli da una parte e dall’altra del Vallo. I folli tuttavia non conoscono nulla, nemmeno la realtà delle cose, per questo sono gli unici rimasti in grado di incanalare la vera magia.

I Maghi vengono spinti in avanti, costretti da lunghe pertiche di legno cui sono avvinti. Quando i cancelli si spalancano, i corni ruggiscono e gli uomini che li accompagnano li spogliano della maschera di cuoio che fino a un istante prima li rendeva ciechi: falchi in attesa di spalancare le ali e gettarsi sulla preda. Le mani adunche si tendono in avanti, la pazzia trabocca dai loro occhi persi e la magia li percorre, dalla terra attraverso il corpo, fino a divampare dalle dita protese.

Folgore e fuoco incendiano l’Inverno, la terra trema, uomini e mostri ardono e cadono gridando.

Forme irriconoscibili, bocconi arrostiti per gli Dei della Guerra.

Il tramonto che arrossa la piana non può vincere la sfida col sangue che intride ogni cosa.

Poi, d’improvviso, un’ombra si allunga sul Vallo e fuoco erutta anche dal cielo.

Gli stessi Maghi ardono. Bruciano e ridono, mentre muoiono: almeno per loro la follia è consolazione. La morte: la scoperta che vi sono magie persino più selvagge della loro, al mondo.

Un Drago che cavalca il proprio furore è una di queste.

Le grida di trionfo si spengono nelle gole dei difensori del Vallo.

 

Anche nella piana, il fantasma di Malvolo era talmente vivido che il suo infuriare strappava grida ed esclamazioni, così come gli spettri dei combattenti, che lottavano tra gli astanti persi solo nel loro furore.

Agli occhi di Ortica, quello era uno spettacolo maestoso e terribile.

Ubriacante vino di Dei, più che di uomini.

 

Fuochi incendiano la pianura, dove l’alito di Malvolo ha ruggito la sua furia.

Ogni volta che l’antico Drago è calato dal cielo, ha seminato terrore e morte tra le fila dei nemici. E se anche in modo diverso dal legno, la carne brucia altrettanto, senza rimorso.

Ciò che resta del Vallo sono rovine fumanti; i sopravvissuti di entrambe le parti lottano ormai in campo aperto, corpo a corpo.

Persino Malvolo è allo stremo, le grandi ali pesanti per le frecce e gli arpioni lo trascinano verso il suolo.

Cade, come una stella, l’ultimo dei grandi Draghi. Fiammeggia, nella fine, cantando in una lingua che nessuno più ricorderà, dopo questo giorno.

Quando il suo corpo esplode al suolo, vi scava un cratere talmente profondo che ne viene quasi interamente sepolto. Coloro che combattono nelle vicinanze sono scagliati lontano dall’onda d’urto.

Chi è ancora in piedi, si lancia verso l’ultimo assalto, dietro ai propri condottieri.

Nell’ora fatale, la spada dell’Orlætane fende la carne di Tormen Pugno-di-Ghiaccio fino al cuore. L’ascia del guerriero d’Inverno cala nel medesimo istante in un arco mortale e obliquo, dalla spalla al ventre del Cavaliere del Vallo. Sangue rosso sfrigola sull’acciaio incandescente delle due armature.

Quando i due cuori cessano di battere all’unisono… tutto si compie.

Migliaia di cadaveri senza nome coprono la pianura: uomini, cavalcature e mostri non si distinguono gli uni dagli altri. Come il sangue dei caduti, anche la vecchia magia si dilegua dissetando la terra: le Stagioni non sono più un luogo, ma un tempo, ora.

Soffia un vento aspro, carico di profumi in quello che era l’Inverno. L’Autunno rosso è spruzzato da bianche folate di neve.

Col tempo, i motivi per cui questa Battaglia è stata combattuta, si perdono oltre la Nona Onda, là dove sbiadiscono le cose dimenticate, le magie perdute, gli eroi caduti.

E tutti i morti senza nome spezzati invano.

 

I fantasmi indugiarono per qualche istante, trattenuti dall’ultima magia del Mostrastorie.

Ortica cercò di riempirsi gli occhi di ognuno di loro: giovani, uomini, vecchi guerrieri, mostri e creature che da tempo non calcavano più la terra. Nella morte, parevano sperduti e sorpresi di tutto il loro precedente furore. Rivestiti d’innocenza.

Poi l’uomo, stremato, staccò il palmo dal teschio di Malvolo e anche i fantasmi sfumarono insieme alla luce caliginosa dell’evocazione.

Un sospiro enorme attraversò la pianura.

Nel cuore di Ortica un miscuglio di sensazioni diverse e contrastanti.

E una scoperta.

 

Mentre il Mostrastorie se ne stava andando, diretto alla locanda del villaggio per riposare, Fiancolegno lo chiamò e lo raggiunse.

L’altro pareva esausto e poco propenso a perdersi in chiacchiere e Fiancolegno sapeva che non era buona cosa esasperare un Mostrastorie. Le parole potevano essere molto taglienti sulle labbra di chi sapeva usarle.

«Mio figlio…» disse, prima di perdere il coraggio.

L’altro si strinse nel proprio mantello di sette colori, impaziente.

Ventreteso si schiarì la gola, per spronare il nipote a parlare.

«Mostrastorie, mio figlio avrebbe espresso il desiderio di diventare vostro apprendista.» Fiancolegno arrossì. «Non siamo che contadini, gente pacifica… forse è solo l’emozione per quanto ci avete mostrato stanotte… ma è un buon figlio e mi ha pregato di porvi la richiesta.»

Il Mostrastorie strinse gli occhi, poi chinò lo sguardo su Ortica.

Occhi severi, ma acuti. Vividi.

«Vuoi cantare gli eroi, ragazzo? Le gesta di chi fila leggende? O è la canzone dell’acciaio che ti fa tremare il cuore?»

Ortica esitò, poi scosse il capo.

Il Mostrastorie parve sorpreso.

«Cosa, allora?»

Ortica avvampò, stringendo più forte la mano del padre, in cerca di coraggio. E verità.

«Coloro che non hanno un nome» disse.

Il Mostrastorie si accigliò. Il suo silenzio fermo indusse Ortica a continuare.

«I caduti senza nome, i dimenticati… Mio nonno, Ventreteso, dice che al termine della battaglia li disseppellirono, tritarono le ossa e le usarono per concimare il raccolto. Che i campi ne erano imbiancati… Mio padre miete sulla piana ogni anno un buon raccolto. Frumento, per farne pane. Vorrei cantare i nomi di tutti coloro che sono stati dimenticati. Perché qualcuno ricordi che hanno vissuto.»

Il Mostrastorie sorrise.

Allungò una mano e scompigliò i capelli di Ortica, con affetto, senza dileggio. Poi alzò lo sguardo verso Fiancolegno.

«Fra due anni portami tuo figlio. Se ancora lo vorrà, ne farò uno dei miei apprendisti.»

Ortica sorrise.

«Ha il cuore giusto» proseguì l’uomo, stringendosi nel proprio mantello. Guardando lontano, oltre le mute rovine del Vallo.

«Potremmo farne davvero un buon Mostrastorie.»