AMORE & MORTE SULLA RIVIERA ROMAGNOLA – 05

PERSONAGGI PRINCIPALI

Roberto Santinovi: narratore e protagonista

H e Best: amici di vecchia data di Roberto

Rosi: 25enne milanese

Viola: giovane e bellissima ragazza di cui Roberto si innamora

Vanessa: ex fidanzata di Roberto

Ermanno: gestore della stazione balneare e guardone 

Gina: moglie di Ermanno, gestisce con lui la stazione balneare

Sergio: guardiano notturno della pensione

Nino: violento romeno al soldo della malavita

Anonimo al telefono: amico di Roberto

Mike: barbone che predice il futuro

Una stanza scarsamente illuminata, le pareti bianche, con delle macchie di muffa che colavano dal soffitto. Scaffali e un armadio in legno vecchio, poco più in là. Osservavo tutto dal basso, avevo la sensazione di essere inchiodato al pavimento da sottili lame. Non conoscevo quel posto. Provai a tendere l’orecchio: nessun suono. Da terra saliva un freddo che mi passava nel collo e scendeva lungo la schiena.

Sentii una risata sottile e arcuata come il raschiare delle unghie di un gatto. Da una grata infilata sotto il soffitto, in fondo, sbucava la testa luminescente del demonio. Mi fissava con gli occhi stravolti di un morto, le mani parevano dilatare quella fessura, come se stesse cercando di aprirsi un varco per entrare.

- Vattene – lo supplicavo.

Quello non mi stava certo ad ascoltare. Con la bava alla bocca e il cranio deforme raspava lungo l’inferriata, con dita lunghe quanto code di cavalli divaricava piano piano le sbarre. Dalla bocca decomposta penzolava la lingua, sottile e biforcuta, e pareva srotolarsi senza sosta; era arrivata ora al pavimento e proseguiva inarrestabile il suo tracciato nella mia direzione.

Le mani guantate dell’assassino si sollevarono dal corpo di Viola. Il sangue non faceva altro che colare dal letto, colava dai muri sudici e maledetti, scorreva fin sotto la porta della stanza. L’assassino se ne andò calmo prima che quel fiume lo toccasse, scivolò via nel nero. Nella stanza rimase Viola, le labbra sfiorite in un vermiglio posticcio e finto. I suoi capelli non profumavano più del fiore di cui portava il nome, i suoi occhi avevano perso le blandizie che poco prima possedevano intatte. Io ero lì, immobile, i piedi immersi nel fiume di sangue che colava dal suo stomaco. Avrei voluto passare una mano tra i suoi capelli, ricomporne la pettinatura e scivolare con le dita sul viso. Ma non avevo forze: le mie energie defluivano con il sangue che colava giù ormai per le scale della pensione. Che cosa avrei dato per un ultimo bacio? Ricomparivano davanti a me i giorni della mia inesorabile discesa verso il nulla, un bisogno di morte mi avvolgeva come un inverno dall’enorme mantello. Che senso aveva la vita se inghiottiva anche le promesse più recenti?

Viola spariva come l’ultimo giorno di primavera, i suoi capelli si sarebbero presto sciolti in lacrime scure sul fondo del mare. Quella giovane donna, che per me era una sconosciuta, mi aveva amato in pochi istanti come molte donne della mia vita non avevano saputo fare avendo a disposizione anni. Che cos’era il suo sorriso se non la promessa mantenuta di una vita felice?

Quel sangue stava ormai scorrendo per le vie della città. Tutto si colorava del rosso scuro del cuore di Viola.

Un brivido mi scosse come il crosciare di una campana. Non potevo vedere nulla, stavo tremando e piangendo come un bambino esposto al gelo. Quando finalmente riuscii ad aprire gli occhi, mi ritrovai sul pavimento di uno stanzone, forse di un garage, dato che il pavimento non era in piastrelle. Le lacrime deformavano ogni cosa vedessi. Una parete bianca e piena di muffa, degli scaffali e un armadio.

- Che posto è questo? – dissi ad alta voce.

La luce era scarsa e passava da una grata posta in fondo, a ridosso del soffitto. Fissai la grata e la luce mi fece tornare a tremare. Da quel foro di luce ebbi la sensazione di vedere un’ombra, ma dovetti essermi sbagliato.

Provai ad alzarmi. Non ci riuscii. I muscoli erano fili di ferro che, se tirati, contorcevano la carne che li avviluppava. Cercai di guardarmi ancora intorno, per cercare di capire qualcosa circa quel posto.

- Come ci sono arrivato? – mi domandavo.

Doveva essere proprio un garage. Dovevo averlo raggiunto in qualche modo, mentre cercavo un rifugio.

Con la mente provavo a scandagliare i momenti successivi al ritrovamento del cadavere di Viola, ma non riuscivo a recuperare nulla. Mi ci aveva portato qualcuno? Era un posto sicuro quello in cui mi trovavo? Questo garage, a patto che fosse un garage, dove si trovava?

Nella testa si srotolava il film della polizia che, dopo aver rinvenuto il cadavere, diramava alle unità locali la mia identità, mi descriveva quale pericoloso fuggitivo e probabile assassino di due giovani donne. Le volanti delle forze dell’ordine avevano di certo bloccato strade e linee ferroviarie nel raggio di trenta chilometri, fatto circolare una mia foto segnaletica e avvertito le stazioni di polizia delle città circostanti.

I giornali avevano di certo sbattuto in prima pagina il mio volto, una fotografia che, già dai lineamenti del volto, mi inchiodava quale serial killer agli occhi dell’opinione pubblica. La cronaca nera non avrebbe fatto altro che parlare dell’assassino della Romagna, malato seviziatore di ragazze con la fissa della lama.

E così, uno di quei quotidiani sarebbe finito nelle mani di Nino. Il romeno aveva di certo carezzato la lama del suo coltello e deviato il suo tragitto alla volta della costa romagnola. Sul suo viso di galeotto si era stirato un sorriso mellifluo come l’andatura di un gatto. Nino era là fuori ad aspettarmi con il suo coltello e io lo attendevo inerme in un posto che non sapevo come avessi fatto a raggiungere, né dove si trovasse. L’ansia mi bloccò il diaframma e impedì all’aria di scendere. Le forze scemavano inesorabilmente. Ero avviluppato in quel garage e Nino era lì, una vespa che presto sarebbe entrata in rotta di collisione con me. Non ero più al sicuro, sperso in un luogo indeterminato del Paese. Ora la sua lama sapeva dove cercarmi e presto sarebbe entrata nella mia pelle. Mi sentivo cadere, sprofondare in una voragine sotto il pavimento del garage. La lastra fredda sotto la mia pelle mi tirava giù, in un vuoto senza speranze.

- Roberto.

Il rumore delle onde mi impediva di sentire.

- Roberto.

Una voce femminile usciva dallo scrosciare.

- Roberto, sono io – la voce di Viola.

Ero sulla riva del mare. Era notte e il mio corpo era sbattuto in mezzo alla sabbia. Viola era lì, di fronte a me, i piedi in acqua e i lunghi capelli neri che affondavano nel mare.

- Roberto, amore mio.

- Viola, amore della mia vita – ma non usciva nessun suono dalla mia bocca – Sei viva? – avrei voluto dirle.

Mi guardò con sguardo comprensivo. Piangeva. Forse poteva sentire quello che pensavo, anche se non parlavo. Mi si avvicinò e mi carezzò il viso. La sua mano possedeva l’affetto dell’abbraccio di mia madre quando ero bambino. Le lacrime le facevano brillare il viso sotto la luce della luna. Piangevo anch’io. Sapevo che lei era morta, morta per sempre. Come avrei potuto fare a convivere con quel dolore? Come sarei stato capace a continuare a vivere?

Nei suoi occhi tremava, però, l’ombra di una forza insperata. Capiva quali fossero i miei lamenti. Con lo sguardo fisso e le labbra strette si mise a parlarmi.

- Trova chi mi ha ucciso – dalla pancia cominciava a colarle il sangue.

Sotto la luna mi fissava come un fantasma, il ventre dilaniato dallo scorrere del sangue che fluiva nel mare.

- Vendicami amore mio! – la rabbia le deformava ora i lineamenti come la scarica di un tuono.

- Vendica la tua Viola, Roberto!

Poi si ritrasse mentre io ancora cercavo di trattenere le sue mani sul mio viso. Senza più guardarmi, con gli occhi bassi, si immerse nel mare e scomparve sotto l’acqua rossa.

(5 – continua)

Daniele Vacchino