AMORE & MORTE SULLA RIVIERA ROMAGNOLA – 02

PERSONAGGI PRINCIPALI

Roberto Santinovi: narratore e protagonista

H e Best: amici di vecchia data di Roberto

Rosi: 25enne milanese

Viola: giovane e bellissima ragazza di cui Roberto si innamora

Vanessa: ex fidanzata di Roberto

Ermanno: gestore della stazione balneare e guardone 

Gina: moglie di Ermanno, gestisce con lui la stazione balneare

Sergio: guardiano notturno della pensione

Nino: violento romeno al soldo della malavita

Anonimo al telefono: amico di Roberto

Mike: barbone che predice il futuro

Mi svegliai con il suono di qualche giostra per bambini che gracchiava lungo il viale alberato. Quando alzai le tapparelle mi accorsi che dovevo aver dormito fin oltre l’ora di pranzo. Scesi dal letto e mi cacciai davanti allo specchio del bagno. L’acqua prese a scorrere copiosa quando aprii i rubinetti. Presto entrò in contatto con il mio viso e le pieghe della notte svanirono voluttuose come scialli di seta gialla. Afferrai l’asciugamano e tamponai il volto. Feci correre lo sguardo sullo specchio, lungo i contorni della mia figura. Mi vedevo invecchiato: sotto gli occhi si erano formate alcune pieghe, che, quando ero stanco, prendevano la forma di creste gibbose. Le guance, più scavate rispetto a quanto fossero un tempo, erano ricoperte dalla barba, che tenevo sempre di qualche giorno.

Compievo questo esercizio ripetutamente nel tempo: lasciavo passare alcuni mesi e poi controllavo lo stato di avanzamento del mio aspetto esteriore. Il lento scivolare a cui il tempo obbligava i miei tessuti si fondeva con il progressivo inabissarsi della mia anima. Era da tempo che avevo perso quell’interesse vitale e salvifico nei confronti delle cose e del mondo, in ultima istanza, della vita. Era accaduto tutto senza preavviso: una mattina come tante, una mattina come quella, dovetti registrare che le cose non erano andate come mi immaginavo potessero procedere. Non solo: dovetti ammettere che non sarebbero mai più andate secondo i piani iniziali. Questo rappresentava un abbattimento definitivo dei piani di lungo periodo: a cosa serviva, in fondo, pianificare, se poi la vita ti costringeva sempre e solo a seguire il copione che per te aveva scritto?

Non era accaduta la stessa cosa anche a Vanessa, la mia ex fidanzata? Quando le era parso di poter superare le ingiustizie subite nell’infanzia, quando si era sentita abbastanza forte da poter dimenticare l’abbandono del padre, una mattina il passato era tornato invadente, cancellando le evoluzioni compiute. Il senso di abbandono, la tristezza, cominciarono a sbranare nuovamente la sua anima, con forza rinnovata.

Mi vestii come a voler scrollarmi di dosso quei pensieri e scesi nell’androne della pensione. Una famiglia stava rientrando dalla spiaggia con i materassini e una immensa orca gonfiabile. La moglie trascinava per il braccio il marito e le due figlie li seguivano a piccoli passi.

- Chiara, Eli, venite – intimava la donna mentre strattonava il marito, che, come il manichino di un negozio, guardava fisso nel vuoto.

Percorsi il viale che portava alla spiaggia senza fretta, fermandomi di fronte alle vetrine dei negozi, ancora chiuse per la pausa del pranzo. Non avevo fretta di arrivare in spiaggia: l’idea di rivedere Rosi nel giorno immediatamente successivo alla nostra uscita mi faceva ricordare i ritmi routinari della mia storia con Vanessa e ne ebbi un’immediata repulsione. Dentro un locale, due ragazzini giocavano a calcetto e ridevano, le maglie da calcio con i numeri sulla schiena e un pacchetto di patatine aperto sul bordo del tavolino.

Seguendo le tappe immaginarie di un rosario di sbadigli che solo il pieno di un giorno estivo avrebbe potuto assicurare, varcai infine le soglie della spiaggia. Non mi fermai al bancone del bar per l’usuale caffè e tirai dritto verso il mare. Un bagno avrebbe allontanato definitivamente quella pigrizia che mi portavo addosso.

Quando giunsi all’altezza della penultima fila di ombrelloni, però, dovetti fermare il passo: nascosto dietro una sdraio, si trovava Ermanno, il gestore della spiaggia. I riccioli, sudati sulla fronte, gli incorniciavano il viso, che aveva un’espressione molto differente da quella che intravidi il primo giorno. Il mento, gonfio e orribile, faceva capolino da sotto alcuni lunghi peli, che dovevano essere il tentativo dell’uomo di nascondere la sproporzione del tratto con la barba di cui disponeva. Lo sguardo era fisso e pareva quello di un uomo che stesse urlando la propria rabbia. Tutti i suoi muscoli parevano protesi verso il punto che stava fissando: poco più in là, distesa su un lettino, si trovava una giovane ragazza con i capelli biondi, che si era addormentata su un fianco e pareva, per così dire, porgere il sedere alla visione del guardone.

Lasciai la spiaggia solo dopo il tramonto. Avevo trascorso il pomeriggio camminando sulla sabbia densa come marmo fuso, gli occhi che scomparivano tra i granuli, cercando di intravedere quale mondo si nascondesse là sotto, di molluschi e crostacei. Rosi non aveva fatto capolino, né dal mare e né dal bagnasciuga. Tanto meglio, pensai. E mi diressi alla mensa, non mangiavo dalla sera precedente.

Arrivai nuovamente per ultimo alla sala del cibo. Il brusio delle famigliole saliva fino al soffitto e pareva vi rimbalzasse, frenetico. Mi sedetti senza salutare i commensali. Il tricheco mi mostrò i suoi denti di porcellana, gli occhi gli balenavano dietro gli occhiali quadrati.

- Buonasera – lo liquidai girandomi di spalle per cercare il cibo presente sulla mensa.

Non lo vidi, ma sono certo che il vecchio tricheco avesse sollevato le labbra, lasciando sobbalzare le gengive ampie e rosse, in quel luna park degli orrori che era la sua bocca.

Dopo aver mangiato un piatto di linguine allo scoglio, mi allungai sulla sedia, guardandomi intorno. La coppia male assortita, il capetto e la donna delle pulizie venuti dal sud, era nella stessa posizione del giorno scorso. Il marito-capo turno, piccolo e compatto, posava gli occhi sulla moglie-donna delle pulizie, che se ne stava mogia e composta nella sedia.

- Non curatevi di me. Non guardatemi – pareva supplicare la donna con i suoi occhi bassi.

Ma lui, il capetto terrone di qualche fabbrica di rubinetti del nord, abituato a comandare in vece dei grandi potenti del mondo, la obbligava a comparire, a presenziare, la scandagliava con il suo sguardo indagatore. Non voleva darsi da fare? E lui la richiamava. Non partecipava al lavoro collettivo? E lui la scherniva di fronte a tutti. Non intendeva sorridere di fronte alle meraviglie del mondo occidentale? E lui le faceva un richiamo scritto. Lei, invece, pareva supplicare un Dio minore di non obbligarla a continuare questa mascherata. A cosa serviva, bisbigliava lei, reiterare questo inutile gioco delle parti, in cui l’unica cosa che conta, in fondo, è saper alzare la voce, saper adoperare la violenza, per primeggiare all’interno del consorzio umano? Lei, sensibile creatura, non poteva scendere nell’arena, sarebbe stata spazzata via dalla brutalità dei contendenti. E, quindi, quale chance le restava, se tutto non era altro che un banale scontro di forze? Quale coppia poteva apparire più malamente assortita?

Terminai nel frattempo anche il dolce, una mousse alla crema di vaniglia, intanto che osservavo di sottecchi quegli attori di avanspettacolo che erano i miei commensali. Mi alzai e mi rifugiai nella mia camera.

Era già un’ora che giravo in macchina, alla ricerca di qualche posto che potesse stuzzicare la mia voglia di vita notturna, quando prese a suonare il cellulare.

- Pronto.

- Roberto, sono io.

Era il mio solito amico ansioso. Quello che mi telefonava per aggiornarmi circa i tentativi di recupero del credito da parte dei malavitosi della mia città natale.

- Dimmi.

- Sono passati ancora.

- E?

- Brutte notizie Roberto: quelli ti hanno messo uno alle calcagna.

- Ah – la sua affermazione mi pareva una gran sparata.

- Non prenderla sotto gamba. Nino è uno tosto.

- E chi sarebbe?

- Un romeno che gira con il coltello, un pazzo sadico che usano per i lavori sporchi.

- Ma io di soldi non ne ho.

- Non gliene importa.

- Ascolta, tu digli che nel giro di poco torno e risolvo tutto.

- Se ne fregano.

- Senti, lo sai benissimo che fino a quando non muore la vecchia zia io non ho un centesimo!

- Non devi dirlo a me.

Chiusi lì la conversazione. Che si fottessero quei quattro malavitosi con il loro romeno! Non volli ammetterlo a me stesso in quel momento, ma la telefonata mi aveva lasciato una inquietudine. Niente di ingestibile, ma era come addormentarsi in una camera buia in cui si ha la certezza che sia entrata una vespa. La possibilità che Nino ed io, due sparute particelle nell’universo di molteplici corpi sparsi per la penisola, entrassimo in collisione era davvero scarsa. Restava però un’inquietudine vaga, legata all’incertezza del caso.

Gettai il cellulare sul sedile del passeggero e voltai sulla statale che correva nell’entroterra. Quando giunsi all’altezza di un gruppo di case che costeggiavano la strada, fermai l’automobile in prossimità di un bar con una piccola insegna tutta rosa illuminata. Il locale consisteva di due stanze arredate secondo i gusti degli anni Ottanta. Il bancone, anch’esso trentennale, era in alluminio e le macchine del caffè sbuffavano al fianco. Una donna ricurva e piena di nei si affacciò dall’altra parte del bancone.

- Buonasera – gracchiò.

Le risposi con un cenno del capo.

- Un caffè e un Jack.

La gobba si mise a trafficare tra le bottiglie e io ne approfittai per dare un’occhiata intorno. Era il bar del paese, anzi della frazione. Una decina di tavoli e la luce che dava sulla strada: la sosta ideale per i camion, che, dalla costa, risalivano verso imprecisate destinazioni nell’entroterra. La sala laterale era il postribolo di vecchi giocatori di scopa; umidi bevitori di vino si accalcavano, infatti, attorno a un tavolo sudicio.

- Liberatene prima di questo due! – bofonchiava uno.

- Ma se c’ho sempre la mano piena!

- Ma vaaa!

Sul lato opposto, un gruppo di ragazzi confabulava con il mento rasente al tavolo. Uno di loro, il capetto, spiegava di un certo piano per raggiungere la discoteca tal dei tali, gli altri ascoltavano in silenzio, gli occhi adunchi.

- Ecco il suo caffè e il suo drink – la gobba aveva preparato il tutto sul bancone.

Uscii dalla bettola solo dopo aver consumato il settimo Jack. Quando ripresi il volante della vettura, mi pareva che un groviglio inestricabile di luci fosse caduto sul vetro della mia auto. Come se le stelle fossero planate sulla superficie trasparente della mia auto. Tirai giù i finestrini: l’aria fresca avrebbe allontanato i miasmi dell’alcool, almeno per un po’.

Feci il percorso al rovescio e mi ritrovai nuovamente sulla statale che costeggia il mare. Qui infilai una serie di paesi e città come le tappe di un viaggio senza ricordo, notturno e alterato dalla sbronza. Quando la strada confluì all’interno di una grossa vallata in cui gli spazi erano via via più dilatati e le case si diradavano, rallentai la corsa. Sotto i lampioni erano in posa le belle di notte: tante statuette, tanti fugaci sogni di piacere che evaporano via. Sorridevano, le abbaglianti meretrici, i loro volti erano maschere nella notte calda e rarefatta. Ecco che una macchina si fermava, un omino domandava il costo a una ragazza. Sull’altro lato della strada, una moldava scendeva da un’auto color caffè. Ancora, una nera saliva su un’automobile guidata da un tizio in camicia scura. Pareva che gli italiani tutti fossero lì, a praticare lo sport nazionale. Mi immaginavo le loro imbronciate mogliettine a casa, davanti alla tv. “Esco a prendere le sigarette”, “Guardo se Mario ha bisogno di una mano al bar”, “Passo un attimo a controllare che la zia stia bene”, quali altre scuse avranno potuto usare quei consumati marinai? E la fabbrica della prostituzione era lì, ad attenderli tutti, con le braccia aperte e le casse pronte a tintinnare. Dietro le luci, nei vicoli corti e stretti come lingue di serpenti, stavano i guardiani del malaffare: i protettori controllavano di nascosto che il meccanismo procedesse a dovere. Anch’essi erano solo sostituibili soldati al soldo dei pochi padroni del mondo.

- Quanto prendi? – feci a una biondina slava in minigonna.

- Cinquanta scopata.

I sette Jack mi impedivano di vedere i lineamenti del suo viso.

- Sali.

Riuscii a gettarmi nel letto nonostante l’intera stanza fosse un’enorme giostra. Non m’importava. Dentro di me esisteva una esigenza così irrinunciabile di trascinarmi in basso che non avrei certo lesinato nell’abbruttirmi! I sette Jack, generosi, stracolmi, mi ballavano davanti come ballerine malinconiche, alzando le gambe lunghe come onde, scintillanti fremevano e si disperdevano, iridescenti. Provare a fermare un punto sul soffitto, trovare un perno attorno a cui fermare il resto delle cose che ruotavano, era impossibile. Così come provare a ricercare nella memoria quale fosse stato il momento della vita in cui le cose erano iniziate a scivolare. Avevo sempre pensato che fosse tutto una questione di denaro: mi sarebbe bastato ereditare i soldi della zia rugosa e la mia vita sarebbe di colpo tornata in piedi. Ora sapevo che non era così. Era come se un vuoto incolmabile si fosse creato attorno a me. Non cercavo la vicinanza delle persone, né ne sentivo il bisogno. Eppure in qualche punto dentro di me sapevo che quella sarebbe stata la soluzione. Ma qualcosa di scuro mi allontanava da loro. Vanessa… Vanessa… Con lei ero riuscito ad amare, ad aprirmi, a sperimentare la fiducia nei confronti del prossimo. Era stato molto tempo addietro, nei primi anni del nostro rapporto, quando ancora ero innamorato di lei, quando ancora non era emerso il suo male. Poi quel sentimento se ne era andato, una discesa progressiva e lineare così come progressiva e lineare era stata la discesa di Vanessa nella disperazione totale, e l’unica cosa che mi era rimasta era una sconfortante solitudine. I Jack non smisero di ballare per tutto il tempo in cui, narcotizzato, passavo in rassegna le fasi salienti del mio declino umano. Quel senso di colpa per averla abbandonata… Nemmeno le luci delle giostre sapevano alternarsi e poi balenare via come quel manipolo di ballerine ubriache. Vanessa, chissà se mi perdonerai mai! A me non restava che lasciarmi sprofondare in quel mare buio e sobbalzante, scendere come risucchiato nel nero lattiginoso e bruciante, mestamente scivolare fino al definitivo sparire nel concavo di un unico, oblungo suono.

(2 – continua)

Daniele Vacchino