AMORE & MORTE SULLA RIVIERA ROMAGNOLA – 01

PERSONAGGI PRINCIPALI

Roberto Santinovi: narratore e protagonista

H e Best: amici di vecchia data di Roberto

Rosi: 25enne milanese

Viola: giovane e bellissima ragazza di cui Roberto si innamora

Vanessa: ex fidanzata di Roberto

Ermanno: gestore della stazione balneare e guardone

Gina: moglie di Ermanno, gestisce con lui la stazione balneare

Sergio: guardiano notturno della pensione

Nino: violento romeno al soldo della malavita

Anonimo al telefono: amico di Roberto

Mike: barbone che predice il futuro

La prima volta che ho visto il demonio mi trovavo sul litorale romagnolo. A Cattolica, forse a Rimini o Riccione, ad ogni modo, tirava un vento basso e freddo e aveva anche da poco cominciato a piovere. Era sera inoltrata e le persone erano scomparse rapidamente tra i viottoli. Restavo solo io, in faccia al mare ululante, e la sagoma di una vecchia stracciona mi si profilava dinanzi. Stavo ancora pensando ai miei guai, quando la sabbia si alzò acuminata dalla spiaggia e cominciò a sferzarmi la faccia. Quando riuscii a riaprire gli occhi, la sagoma era scomparsa. Avrà svoltato in un vicolo mentre avevo gli occhi chiusi, pensai. Quando superai una fila di sedie lungo il bancone di un bar, e il mio pensiero era ormai finito altrove, me la ritrovai di fronte. Doveva essere sbucata da dietro un albero, o aver costeggiato un terrapieno d’erba, per riuscire a comparirmi di colpo a quel modo. Il suo vestire era sudicio e stropicciato, una tela bluastra ricopriva soltanto a pezzi la carne grinzosa. Alzai un poco lo sguardo, di sbieco, provando ad afferrare al volo i lineamenti del viso, mentre le nostre linee arrivavano al punto di collisione e, nel giro di pochi istanti, ci saremmo dati le spalle. Non riuscii a coglierne in pieno il volto; solo pochi centimetri di pelle erano lasciati liberi da un foulard filamentoso. Quando scomparve dietro di me e il mio campo visivo tornò a essere un’interminabile distesa di mare, case e asfalto, ebbi una curiosità morbosa di voltarmi indietro. Non l’avessi mai fatto. Quando presi a scrutare furtivamente alle mie spalle, la sagoma della vecchia era ancora là, asciutta e stracciata come una carcassa. Il vento pareva non riuscire a toccare la sua figura. Fu un istante: il collo della vecchia prese a girare come quello di una bambola di plastica e, quando arrivò al punto in cui il mento poteva toccare la spalla, proseguì la corsa, fino a far combaciare la linea del naso con la colonna vertebrale. E allora lo vidi: il volto tumefatto di un mostro nero, gli occhi neri senza iride e le narici dilaniate dal sangue. La fronte pareva cadere dentro le orbite e la mandibola grondava come un’altalena dalle gote. Quell’essere mi fissava senza emettere suono dalle fauci costellate di canini violacei. Distolsi lo sguardo, portandomi le mani agli occhi. Dopo essermi fermato e aver cercato un punto qualsiasi dell’orizzonte per provare a verificare la mia lucidità, riportai la vista sulla sagoma: la vecchia camminava sbandando alle carezze multiformi del vento. Di quel volto di demone non vi era più traccia.

So bene che state pensando che sono pazzo e che tutto ciò non è che una lucida visione. Non mi interessa: d’altronde, quanto mi è capitato di vedere al mondo è talmente raccapricciante, che se fossi in voi non guarderei con spirito tanto certo quanto ci circonda. Ad ogni modo, qualunque sia la vostra posizione nei confronti del sovrannaturale, e qualunque sia il vostro sguardo nei miei confronti, ci tengo a raccontarvi questo pezzo della mia storia. Gli incontri col demonio appartengono a un periodo ben definito della mia vita, che sarà forse di qualche interesse andare a ripercorrere.

Attorno a quel periodo mi ero allontanato dalla mia città natale, una minuscola e benpensante provincia del nord d’Italia in cui la gente non fa altro che pensare a lavorare e sposarsi con una persona con un buon patrimonio alle spalle. Gli amici del vecchio giro, con i quali spesi i miei primi vent’anni in dissolutezze a carico dei miei genitori, si erano ormai dispersi nelle luccicanti metropoli attorno: tutti a rincorrere la carriera, sbavando dietro al Dio denaro.

La decisione di lasciare la città venne proprio a seguito di una delle rare rimpatriate che feci con i miei vecchi compagnoni. H e Best, così si facevano chiamare, erano scesi per un fine settimana senza fidanzate al seguito. Così, ne approfittammo per darci giù di gomito come ai bei tempi andati e per rimediare qualche fanciulla, a costo di pagarla.

La nottata, indorata da un valzer di Pampero e Sambuca, era scivolata come un sogno narcotizzato fino alle prime ore dell’alba. Fu quando prendemmo la macchina per far ritorno a casa che le cose si misero per il verso sbagliato. H, la camicia sbottonata e un tanfo di alcool e marijuana dalla bocca, pretese di mettersi al volante della sua Audi A1 nuova fiammante. La tacca del contachilometri non scese mai sotto i novanta, sebbene ci trovassimo per le vie cittadine. E quando arrivammo nei pressi di una doppia curva che portava alla piazza del Duomo, il mio vecchio compagno spinse a fondo l’acceleratore, gli occhi molli che fissavano l’asfalto. Best stava parlando di certi suoi progetti di metter su casa, ora che (lo venni a sapere proprio in quell’istante) aveva messo incinta la sua fidanzata. Fu a quel punto che la nostra auto imboccò la curva che immette sulla piazza del duomo. H curvò troppo stretto e l’Audi A1 salì con una gomma sul marciapiede a destra. Sbandammo e, per mantenere la rotta, il nostro pilota ubriaco sterzò. Fu come salire su un trampolino di lancio, spediti ai centocinquanta chilometri orari: inforcammo dritti la zona pedonale sulla nostra sinistra al centro della piazza e, planando sulla ghiaia, fummo catapultati al centro dell’enorme fontana.

Quella notte capii che il tempo di restare nella mia benpensante città natale era terminato. A velocizzare la mia partenza era anche l’avvicinarsi della scadenza di certi impegni debitori che avevo assunto con persone poco raccomandabili. Su questo punto, però, per motivi di eleganza, sorvolerò: non è mai bello tirare in ballo i propri impicci finanziari.

Partii una notte, dopo aver accatastato le mie cose nell’auto, e nel giro di poche ore mi trovavo già in un autogrill ai bordi del mare. Una cameriera paffuta armeggiava con una spatola tra le pieghe del tostapane.

- Desidera?

- Un toast e una birra.

Nella mia testa pensavo quali orari lavorativi dovesse sorbirsi la cicciona. Riflettei che, probabilmente, avrebbe potuto fare i turni, ruotando una settimana di giorno e una di notte. Come faceva, per Dio, a cambiare i suoi ritmi in modo così meccanico?

- A lei, signore.

Lessi tra le curve delle sue occhiaie una rassegnazione che non le apparteneva, come se qualcosa di distante e impersonale si fosse andato a riporre tra i suoi lineamenti. Come faceva quella gente a sopportare quegli orari? Di quali disumani sacrifici doveva grondare la loro esistenza?

Per conto mio, non avrei mai potuto accettare di alzarmi ogni santa mattina alle sette, scivolare come una lumaca fino al posto di lavoro, svolgere meccanicamente tutta una serie di obblighi di cui non me ne importava un beneamato nulla.

Non avrei messo su famiglia, non avrei fatto un mutuo, niente di tutto questo. Avrei semplicemente aspettato che mia zia morisse, per incassare l’eredità. Nessuno dei miei genitori aveva provveduto a fare di me un benestante e, stando così le cose, mi sarei limitato ad attendere, pregando ogni notte, la morte della vecchia rugosa.

Mi restava forse da sperare in un futuro migliore? Se mi guardavo intorno, vedevo che l’Italia se l’erano mangiata già da un pezzo, e a noi non restava che da sgobbare per mantenere i vecchi negli ospedali e sui lettini dei chirurghi. No, grazie: pensateci voi a costruire un futuro migliore.

Alla cassa, un omino con gli occhi lucidi come biglie riponeva le confezioni di sigarette sugli scaffali.

- Pago toast e birra.

- Sono cinque euro. Signore, vuole anche un gratta e vinci? Il nostro pacchetto Felice&vincente fa la promozione a sette euro tutto quanto.

Come faceva quel tizio a ripetere a tutte le persone che passavano quella tiritera? Avrei voluto rispondergli di grattarselo lui, il gratta e vinci. Mi limitai a sorridergli. Odiavo sia lui che la cicciona: senza la loro rassegnata collaborazione i pochi padroni del mondo non avrebbero potuto vivere tanto comodamente.

Fermai la macchina in una via senza luci. Mi trovavo in una città della costa adriatica. Poteva essere Cattolica, Riccione, Misano, non ricordo. Un’aria calda soffiava dalla spiaggia dentro le vie del centro. Era estate e i locali avevano da poco chiuso i battenti. In lontananza, qualche inserviente spazzava il marciapiede.

Trovai alloggio in una piccola pensione appartata e, dopo aver sistemato malamente le mie cose in camera, mi misi sul balcone a fumare una sigaretta. Com’erano lontani i tempi in cui programmavo ogni cosa, in cui tutto ciò che facevo doveva seguire il tracciato di una logica. Se ripensavo al giorno della mia laurea, come mi apparivano meschine le speranze di partecipare al consorzio civile!

Non parlavo mai a nessuno della mia visione del mondo. A cosa sarebbe servito? Le persone attorno a me erano talmente prese dalla loro brulicante corsa attraverso le tappe prestabilite: elementari medie superiori università lavoro matrimonio figli carriera amante pensione nipoti morte.

Guardai da dietro il muro la strada di fronte: per un attimo mi era parso che un’ombra mi fissasse dal buio di una via. Niente di tutto ciò. Mi distesi allora su una sdraio.

Meglio attendere così, tornai a pensare, come facevo io, in disparte e in silenzio, aspettare solo che l’ennesima sigaretta scomparisse divorata dalla sua stessa fiamma. L’acqua del mare potevo annusarla, e quasi vederla, dietro la luce rossa della sigaretta, oltre i muri delle case, era come una carezza di cui, solo al tatto, puoi disegnarne i confini, era calda e compatta, come una macchia scura, circolare, come fa tutta quella gente a non capire che è inutile correre, tanto poi si muore, tanto poi si muore, tanto poi si muore…

L’acqua del lago era scura e circolare e la notte, senza volto, lasciava solo esili luci, come lucciole, a colorare una piccola città sulla riva. Le acque, ferme e compatte, non emettevano sciabordii, solo una luce scura e diffratta si alzava dallo specchio del lago verso l’alto. Tra i boschi che cintavano i paesini sulle rive c’era una minuscola casa, nascosta dalle traiettorie della luce. Non potevo vederla, ma sentivo che c’era. E sentivo che c’erano tre donne sedute attorno a un tavolo, le mani congiunte a formare un cerchio, le carte capovolte su un tavolo. Le donne, eleganti e compassate, portavano collane di perle e lunghi orecchini d’argento. Una di loro cominciò a parlare, gli occhi chiusi e il mento rivolto verso il cielo.

- Venere che dormi sotto il lago, Venere nera che piangi lacrime d’avorio, parlaci nei nostri sogni con preghiere cantilenanti. Nei nostri vespri abbiamo fatto dono al tuo ricordo, con lame di coltello sacrificato sangue vergine. Venere nera che stai sotto le acque del lago, guardaci. Scura e circolare come la notte, Venere nera, scura e circolare come il volto del lago…

Mi risvegliai di scatto, con il vento che aveva formato con il sudore una coperta ghiacciata sulla mia pelle.

Sotto il balcone, il guardiano notturno della pensione, un ragazzone paffuto con dei baffi a manubrio e un tatuaggio di donna sul collo, mi sorrise di sghembo.

- Con questo fresco si dorme una meraviglia – attaccò bottone – peccato dover lavorare!

Gli sorrisi e mi infilai in camera.

La riviera romagnola splendeva nel mattino, carica di bagliori come una donna di monili. La costa, ampia e frenetica, accoglieva le carezze del mare sul volto pallido della spiaggia, silenziose processioni costeggiavano l’acqua.

Mi avvicinai al bancone del bar di un locale sul mare, che faceva anche servizio spiaggia. Una coppia sulla cinquantina stava confabulando tra le bottiglie di liquori.

- Devi finirla e basta – diceva la donna, sulla cinquantina e con chiazze di efelidi sulla schiena.

- Faccio quel che voglio, chiaro? – l’uomo, della stessa età, era un tizio riccio e sudato, il mento gonfio gli spuntava sotto un ciuffo di peli.

- Un caffè ristretto – interruppi bruscamente il loro conciliabolo.

L’uomo scodinzolò dietro una tenda, passandosi la linguaccia rossa sulle labbra. La donna si trascinò alla macchina del caffè e mi servì senza alzare lo sguardo. Quando anche lei scomparve dietro la tenda, mi accorsi che una ragazza stava seduta al bancone a fianco a me.

- Passano le estati a quel modo.

- Mi scusi?

- Sì, intendo dire quei due, i gestori del bar, non fanno altro che litigare.

Avrà avuto venticinque anni. Di piccola corporatura e con gli occhi verdi su un viso lineare, il naso piccolo e arrossato. Mi fissava da dietro gli zigomi alti, sotto una fronte stretta. Le sorrisi cortesemente, ma con deferenza.

- Deve venire da molti anni in questa spiaggia.

- Diversi – la voce era stridula e sibilante, le consonanti parevano uscire come se venissero schiacciate tra i denti.

- Mi chiamo Roberto.

- Rosi.

Ci stringemmo la mano e subito ebbi l’impressione che il suo iniziale slancio, una donna che rivolge la parola a uno sconosciuto, si fosse spento.

- Sono appena arrivato e non conosco nessuno – provai a mitigare la sua improvvisa freddezza.

- Ecco, allora deve evitare di avere a che fare con quei due – mi disse in un mezzo sorriso.

- E perché mai?

- L’ha visto lui? – si avvicinò un poco, mise la mano alla bocca – Spia le ragazze dentro le cabine.

La guardai accennando un sorriso, poi però mi accorsi che l’argomento era della massima serietà per lei, quindi ripiegai su una smorfia di disgusto.

Tornai a bere il mio caffè. Immaginai quel cinquantenne laido che si asciuga il sudore che gli cola dai ricci sulla canottiera sporca.

- Una volta ha spiato anche me.

- Sì?

- Sì – fece con l’aria compunta – ero nella cabina in fondo, quella al confine con la spiaggia libera – indicò un punto dietro le mie spalle – non c’è illuminazione lì dentro e così l’unica luce è quella che passa attraverso i listelli di legno – fece una pausa, guardando che nessuno venisse fuori dalla tenda – ho visto un’ombra che si era accucciata e poi degli occhi che sbirciavano.

- L’hai riconosciuto? – le diedi bruscamente del tu, dato che lei pareva darmi via via sempre più confidenza.

- Sì. Anzi no. Ecco, diciamo che era lui. La figura era la sua…

- Quindi non l’hai visto in faccia.

- No, quello no. Ma tutti qui sanno che lui sbircia.

- Ah.

- Secondo te – anche lei mi diede del tu – perché la moglie lo rimprovera sempre?

- Già.

- Si chiama Ermanno. E’ un uomo che fa paura.

Quando feci ritorno alla mia camera era già sera inoltrata. Il letto era rifatto e il pavimento spazzato. Spalancai la porta e mi affacciai dal balcone. Un gruppo stava eseguendo le canzoni dei cantautori italiani degli anni Sessanta. Un piccolo palco e le famiglie sedute sotto. Chiusi immediatamente la porta e tirai giù le persiane. Feci scattare l’abat jour per potermi muovere nell’oscurità appena creatasi. Presi a rovistare nella valigia e ne tirai fuori una candela e un cofanetto d’avorio. Accesi la candela e la misi in piedi per terra. Poi spensi l’abat jour e aprii il cofanetto d’avorio. Vi tirai fuori una piccola statuina di una madonna nera. Congiungendo le mani, come facevo sempre, presi a recitare la mia solita preghiera.

Venni interrotto dalla suoneria del cellulare.

- Pronto.

- Roberto, sono io – una voce di uomo.

- Ciao. Finalmente.

- Senti, qui le cose non vanno.

- Dimmi tutto.

- Sono venuti a cercarti, Roberto.

- Chi è venuto?

- Sai benissimo chi. Dicono che se non torni ti vengono a cercare.

Riattaccai. Mai mantenere rapporti troppo stretti con persone ansiose. Non dovevo temere proprio nulla. Ero nascosto in un luogo così banale, che nessuno sarebbe venuto a cercarmi qui. Tanto meno quei quattro idioti che erano, in fondo, i miei creditori.

- Signor Santinovi – provenne da dietro la porta – il pranzo è tra mezz’ora.

Era la voce della cameriera. Avevo dormito tutta la mattina.

Scesi nella sala da pranzo che i tavoli erano già tutti occupati dalla clientela della pensione. C’erano le famiglie pasciute e composte venute dal nord, con i loro soldini messi da parte in un anno di sacrifici. Venivano alla pensione romagnola per prendere il sole sulle ampie spiagge e camminare la mattina su quelle enormi autostrade di sabbia. C’erano le coppie ormai anziane, con i figli già sposati in crociera sul Nilo, o in vacanza in Messico, attirate dai pasti regolari e genuini delle pensioni a basso costo della riviera. Alcune avevano con sé addirittura i nipotini (“I genitori pensano solo a lavorare”), e via di gelati, lecca-lecca, granite, piadine, ma poi anche, per smaltire, giostre, partite a bocce, pallavolo in spiaggia, videogiochi.

- Che bel quadretto – pensai.

Sedetti senza rivolgere un saluto. Di fronte a me, solo il bianco tavolo vuoto. Purtroppo, un tricheco sprofondato nella sedia mi mostrava i suoi denti di porcellana dietro a due occhiali quadrati.

- Si dorme bene in riviera.

Le gengive gli sobbalzavano orribilmente su quel luna park che era la sua bocca, sghemba e gigantesca.

- Già.

- Lei è il primo pasto che fa qui in pensione. Vedrà – si baciava le dita lisce – un piacere proprio!

Contro il muro in fondo, una coppia male assortita sorseggiava il vino della casa. Lei, uno spolverino di donna dai capelli sottili legati dietro; lui, un ometto pelato e tarchiato, lo sguardo duro e interrogatore. Non parlava, la donna, teneva lo sguardo basso; doveva fare un lavoro umile, che l’avesse abituata a obbedire in silenzio e a sporcarsi le mani, che, ruvide e spigolose, teneva un poco nascoste tra le pieghe della tovaglia. Lui, invece, doveva essere il capetto di qualche turno in qualche fabbrica di rubinetti del nord. Erano venuti su dal sud, avrei potuto giurarci, negli anni Settanta. Forse insieme, forse si erano conosciuti a seguito della migrazione. Avevano di certo dei figli, altrimenti sarebbe stato assurdo puntare al risparmio per le vacanze, venendo in una pensione a due stelle. Forse festeggiavano le nozze d’oro. Gli anelli suggerivano che erano trascorsi diversi anni (e diversi pasti) da quando si erano scambiati il reciproco giuramento. Quale inutile vita dovevano condurre quei due! Immaginavo la loro casa: un trilocale con le mensole e la carta da parati in qualche sobborgo di qualche metropoli del nord. I sanitari ingialliti, il letto in legno segnato dall’attività dei tarli.

- Come le pare, signore?

Non mi ero nemmeno accorto di aver infilato in bocca una coppia di gnocchi. Il tricheco mi guardava pieno di fiducia.

Quando discesi alla spiaggia era già pomeriggio inoltrato. Mi diressi al bancone del bar per vedere se, con la scusa del caffè, vi avrei trovato ancora Rosi, ma non ebbi fortuna. La moglie di Ermanno, così mi pare si chiamasse il guardone, stava parlando con un cliente abbronzato. Asciugandosi la fronte stretta e secca con un fazzoletto, dimenava le braccia.

- Le chiamo subito il ragazzo.

- La ringrazio signora Gina.

- Vieni – la signora Gina, questo dunque il nome della moglie del guardone, parlava ora a un ragazzo in canottiera rossa sbucato fuori dagli sdraio – fila undici, quarto ombrellone.

Attese paziente, le mani ai fianchi, che l’aiuto bagnino facesse il suo lavoro. Intanto, dal mare stava salendo la calura del pomeriggio e la donna parve accorgersene: fece mulinare il fazzoletto di stoffa come un ventaglio, poi sbuffò aria dalla bocca per cacciare indietro i capelli, che ricci e rossastri le ricaddero sul collo ricco di efelidi. Infine scomparve dietro la tenda del retro del bar. Di Ermanno non vi era traccia: se ne stava forse in giro a rovistare le ragazze nelle cabine della spiaggia?

Senza passare dal mio lettino proseguii fino al mare.  Lasciai cadere l’asciugamano e le ciabatte e mi immersi rapidamente in acqua. Un cospicuo numero di ragazzini giocava a palla con l’acqua che gli arrivava alle ginocchia. Una coppietta, poco più in là, si baciava su un materassino giallo.

- Ciao!

Avvertii nitidamente la voce di Rosi dietro di me.

- Ehi.

- Stavo uscendo dal mare, quando ti ho visto.

I suoi occhi verdi erano intonati con il mare e il seno, piccolo e turgido, sbucava da sotto la linea dell’acqua.

- Una gran bella giornata – non sapevo bene che dirle. Mi annoiavo. Ma quel sorriso che portava stampato in volto mi suggeriva di insistere nella conversazione.

- Già. Sono in spiaggia da questa mattina. Tu invece sei appena arrivato?

- Sì, non amo molto il sole.

- Fai vita notturna?

- A dire il vero no. Tu?

- Qualche volta.

La discussione non decollava. Forse attendeva di prendere una direzione. Decisi di incoraggiarla.

- Ti va stasera di andarci a fare un giro?

Le guance si alzarono impercettibilmente. Le andava.

- Non voglio venire da te, però. Lì la notte ci lavora Sergio. Lo conosco dalle prime estati, è una vita che ci prova con me. Pensa che un’estate prese a mandarmi le rose tutti i lunedì. E senza mai avere il coraggio di chiedermi di uscire apertamente. Una cosa morbosa…

Così Rosi mi rispose quando la invitai, verso fine serata, ad appartarci nella mia stanza. La pensione non le andava perché la notte era di turno come guardia Sergio, il ragazzone paffuto con i baffi a manubrio e il tatuaggio di donna sul collo che importunava la quiete delle mie notti.

Mi propose così di andarci a sistemare in un posto che conosceva lei, nel fitto della campagna, lontano da sguardi indiscreti. Forse, dietro la scusa di non incontrare Sergio, Rosi conservava qualche piccolo segreto: una storia recente consumata nella località di mare, una famiglia benpensante da tenere all’oscuro dei propri affari amorosi, un fidanzato che l’avrebbe raggiunta di lì a poco in vacanza, chissà.

Non pensai più a nulla di tutto questo, quando, dopo aver spento il motore su una stradina sterrata che poteva essere un posto qualsiasi del mondo, tanto non sapevo dire quale, Rosi si tolse la cintura e mi passò la mano sul petto. I contorni degli occhi erano colorati con la matita nera e le guance leggermente incipriate. Un sorriso da volpe, pensai, che piano si avvicinava al mio viso. Quando sentii le sue labbra che sfioravano le mie, intravidi con la coda dell’occhio la sua sagoma, esile ma formosa, che si protendeva verso di me. Subito le passai le braccia attorno al corpo e in men che non si dica mi ritrovai a possederla sul sedile.

Mi rivestii lentamente ma cercando di evitare ogni contatto fisico con Rosi: odiavo facessero le fusa dopo aver scopato. Specie se si trattava di una storiella occasionale. Era come togliere forza a quell’atto che, quando non è coronato dall’amore, è una espressione di passione brutale. Lei stette al suo posto: si rivestiva come fa una ragazza abituata alle scappatelle. Io, intanto, mi ero acceso una sigaretta e tra le volute del fumo vedevo le sue cosce scomparire nei blue jeans.

- Me ne passi una?

Le allungai una sigaretta dopo averla estratta dal pacchetto. Fumava come una attricetta di cabaret, le due dita in aria e il mento sollevato. Dal suo collo era evaporato il sudore, che, poco prima, indorava la pelle abbronzata. Chissà cosa faceva nella vita. Avrei voluto chiederglielo, ma questo avrebbe aperto l’opportunità anche a lei di pormi le medesime domande. Non avevo nessuna voglia di sostenere un interrogatorio sulla mia vita, quindi scartai l’ipotesi. Dal mare, lontano, veniva un odore di salsedine che era penetrato dai finestrini socchiusi e si era andato a spalmare nell’abitacolo dell’automobile.

Feci ritorno alla mia camera che era già notte alta. I chioschi delle piadine avevano chiuso i battenti e per il lungomare non restava che qualche giovane ubriaco. Bevvi un sorso da una bottiglia di acqua e cominciai a levarmi i vestiti. Uscii sul balcone a torso nudo e mi accesi una sigaretta. Una enorme stanchezza mi salì da sotto le piante dei piedi. Per strada, l’alta sagoma di Sergio ondeggiava nella via. Prima che egli potesse incrociare il mio sguardo, mi voltai e rientrai in stanza. Mi sentivo un poco spiato dal guardiano. Non pareva certo essere un tipo pericoloso, ma la sua espressione era di una stupidità bestiale e la sua presenza non mi rendeva di certo più sicuro. Cosa mi aveva detto Rosi riguardo a lui? Che lo conosceva perché… Ero distratto quando parlava e non riuscivo a ricordarlo, in quel momento.

Dopo essermi assicurato da dietro il muro che lo sguardo del guardiano notturno non indugiasse sul balcone della mia camera, tirai giù le tapparelle e cercai di creare il buio totale nell’ambiente. Dalla scatola d’avorio tirai fuori la statuetta della madonna nera. Cominciai a pregare avvolto nell’oscurità totale. I pensieri cominciarono a correre sospinti dal ritmo delle parole. Come sopra le note di una canzone, nella mia testa si componevano svariate forme, che poi defluivano scomposte come spezzate in geyser di luce. La mia fidanzata… Sì, la donna che avevo lasciato poco prima di partire… Mentre ero in macchina con Rosi mi era come apparsa. Una visione, ne ero certo, ma mi era sembrata pur sempre così reale. Un solo istante, come se si trovasse nascosta dietro un cespuglio vicino alla mia auto, illuminata di colpo da uno strano gioco di luci, forse un’auto che passava su una strada lontana e proiettava i suoi fari in quella direzione. Ad ogni modo, la vidi, nitida e inequivocabile, come una fugace apparizione. Vanessa. In fondo, l’avevo abbandonata così di colpo: i miei sensi di colpa nei suoi confronti dovevano pur emergere in qualche modo. Ma, d’altronde, non la amavo più da diverso tempo e la mia fuga non era stata altro che un buon motivo per porre fine alla nostra storia. Vanessa, chissà dove si trovava in quel preciso istante. Il suo volto di metallo, quell’espressione tagliata, spigolosa, fissa, che mi guardava da dietro il cespuglio, rimproverandomi. Poi era scomparsa. Era stato un solo istante. Poi buio, come buie dovevano essere le sue giornate… Erano anni che cercavo il coraggio di lasciarla. Ma la sua malattia, quella terribile depressione… Non passava notte che non sognasse il padre. Povera Vanessa: abbandonata senza un preavviso, senza un motivo… Stando insieme a me, pareva che quell’esperienza deludente fosse passata. Poi, un giorno, ancora senza un motivo apparente, l’amarezza tornò, a presentare il conto. E il nostro rapporto si sbriciolò sotto i colpi inesorabili del male oscuro. Vanessa, chissà se potrai capirmi, chissà se potrai perdonarmi, pensavo ingenuamente. Le ultime parole della serie di preghiere scivolarono inghiottite nel buio e anche il ricordo di quella visione finì con lo sparire dalla mia mente. Riaccesi l’abat jour e mi buttai nel letto.

(1 – continua)

Daniele Vacchino