THE RAPID HORROR STRIP 02 – LA GENTILE COPPIA

Vetri zuppi, tergicristalli malandati che spazzando offuscano la vista. Le dita di un bambino che soffiando sul finestrino tenta di scrivere buffe parole, mentre gli scoppi di un motore in panne si confondono a quelli misti a bagliori dei lampi e dei fulmini.

La strada è pericolosamente impraticabile, e l’automobile della famiglia Collins ne è sola corritrice nella notte in tempesta, di ritorno dalla loro allegra vacanza in riva al mare.

Il frastuono delle folgori luminescenti non sembra temuto dal piccolo Louie, che gioca spensierato e incuriosito da tutta quell’acqua che, magicamente agli occhi di un bambino, cade all’improvviso dal cielo, mentre Sue, sorella più grande, digita forsennatamente sul cellulare parole e frasi che andrebbero dette di persona.

Anna, madre di famiglia indaffarata, preme per proseguire negando l’evidenza, in modo da tornare al più presto alle sue faccende. Con un nastro lega i suoi capelli bruni riflettendosi nel piccolo specchietto insito nel portaoggetti, bellezza sopraffina e coraggiosa, dalla lattea pelle chiara troppo stanca e sfiancata dal peso di una casa.

Di tutt’altro avviso è Martin, autoritario pater familias dalla logica ferrea quanto banale: l’auto non può continuare, e lo ribadisce a chiare lettere indicando un asfalto logoro e altamente scivoloso. Dall’alto del suo metro e ottanta si impone nella decisione familiare sfruttando lo scettro del potere stradale, il grande volante del SUV giallo che su una piazzola di sosta trova pausa e ristoro dal suo ardito navigare.

La notte di tempesta si fa intanto sempre più cupa, avanzando come un’ameba per fagocitare ogni forma di luce.

 

Una semplice chiamata al servizio di informazioni basta per rintracciare una pensione molto vicina, ideale per trascorrere il resto della notte e rifocillarsi in vista del giorno seguente, per ripartire di prima lena. I fari dell’auto rischiarano le ombre su una vecchia cascina, casupola installata su un brullo terreno arido, schivo come l’anima più povera e deserta.

L’edificio a prima vista sembra antico, e gli occhietti perspicaci di Louie subito notano l’assenza di un citofono sostituito invece da un picchiotto in bronzo, nello stesso istante in cui Sue si attanaglia con amletici quesiti, del tipo la presenza o meno di rete internet nella zona. Anna non ha ancora finito di sistemarsi i capelli, mentre spera con trepidante forza che la camera e le lenzuola siano pulite.

Due colpetti di Martin al battacchio con immagini serpentiformi e la porta si apre pian piano, come trattenuta da un leggero attrito. La luce è spenta, e dal grigiore emerge un’anziana figura, ricurva sui suoi anni, batuffoli bianchi per capelli e fondi di bottiglia per occhiali, dalle lenti leggermente incrinate. La signora Jerkins, così dice di chiamarsi, accoglie calorosamente la famiglia, con un occhio di riguardo per i due figlioletti, su di cui posa lo sguardo estasiato come la falena attirata dal lumino.

Un lungo corridoio, pareti cadenti smaltate di bianco, parquet rovinato mentre la strada per la sala da pranzo si fa sempre più corta. Un ambiente unico di cucina e salotto si presenta agli occhi della stanca famigliola, musicato dai tizzoni ardenti del camino acceso, calda oasi di tepore in quella notte gelida.

Il signor Jerkins è seduto ad un tavolo già imbandito, il che lascia supporre che la gentile coppia stesse cenando in solitudine. Sommati, i loro anni varcano il secolo, anche se tra i due coniugi il marito pare quello più giovane. Robusto nonostante l’età, dagli occhi chiari e la pelle scura. Li invitano a favorire la cena, e il ghiotto Martin è già seduto prima ancora di accettare a parole. Di quelle occasioni alle quali mai rifiuterebbe, gli inviti a cena sono sempre stati ai piani alti.

Disposte come una processione di ricordi sui banconi della cucina appaiono le fotografie incorniciate di due ragazzi, approssimativamente dell’età di Sue e Louie, ed è proprio la prima, riconosciutasi in una tenue somiglianza in quel volto di fanciulla, a chiedere forse sfacciatamente informazioni.

La gentile coppia si stringe in un triste abbraccio, narrando l’altrettanto triste storia dei loro due figli morti in un incidente non meglio precisato ormai tanti anni prima. E’ Anna, dal piedistallo della sua educazione alle buone maniere, a fermare prontamente la figlia dall’indugiare nella richiesta di ulteriori dettagli, mentre l’anziana donna serve al loro tavolo i fumanti piatti di un benvenuto ristoro. Il gusto è inebriante, un caldo vortice di sapori, forse spezie esotiche e tropicali, che lasciano nella bocca degli affamati Collins uno strano pungente retrogusto.

Ma le pance sono piene ora, ed è orario che le stanche membra vadano a riposarsi nelle anguste camere della casa, prontamente disposte ad accogliere la famiglia dalle numerose apostrofi della signora Jerkins, che ne loda le numerose qualità come l’assenza di umidità o la morbidezza dei materassi. E sono infatti comodi i vari letti, tanto da far addormentare subito i genitori e persino i mai troppo vivaci figli, che raggiungono Morfeo dopo un breve bisticcio su chi dovesse dormire dove.

 

La pioggia ha smesso la sua caduta incessante e la notte si protrae relativamente tranquilla, almeno fino a quando Martin non è svegliato da un insolito attacco di mal di pancia. Diretto verso il bagno pensa convinto che la causa sia da imputare alle strane spezie che ha mangiato, mentre con i rumori del suo addome sveglia anche sua moglie Anna che lo intima a controllare i ragazzi. La vista è un po’ appannata, forse storditura, e il corridoio pare ondulare e deformarsi come in un tunnel degli specchi. Ma non è l’unica stranezza, ben più grande è quando, aperta la porta, non trova i ragazzi nei loro letti. Profondamente stanco e intorpidito, comunica comunque in ritrovata agilità e fretta la notizia alla moglie, che nel frattempo pare ugualmente frastornata ed allo stomaco dolente.

I due coniugi si ripropongono di andare a cercarli, dividendosi e alzando il passo sul malconcio parquet che li accompagna scricchiolando. Anna percorre l’ala ovest della casa, ma nel passo la vista si fa sempre più corta. La camminata è affannosa, il fiato ansimante dai dolori in rapida crescita. Un armadio in uno sgabuzzino, all’apparenza come quello a casa in cui Louie adora nascondersi attendendo che qualcuno noti la sua assenza per richiamare attenzione. Ma non è un bimbo tenero ad accoglierla quando apre le ante, bensì rigido di tanti aculei che con una molla scattano trafiggendola come la più classica delle vergini di ferro.

La vista è sempre più nebbiosa anche per Martin, che percorre invece l’ala est nella forsennata ricerca dei suoi figli. Uno scalino, confuso nella nebbia, e cade rotolando su se stesso, inciampando ai piedi di un’altra scala. Proprio rialzando il capo, nota in fondo a questa una porta scura, non in legno come le altre della casa, ma in pietra bizzarra quasi proveniente da un’altra era. Aggrappandosi faticosamente sul muro percorre piano quelle scale, mentre deve stringere i denti per i lancinanti dolori. Dalla soglia di quel pesante portone in pietra provengono sibili e folate di un vento lugubre e freddo, che trasporta in lontananza abbozzi di un lamento.

La forza sta svanendo, e Martin riesce soltanto a sospingere la porta tanto quanto basta per il suo passaggio, ma ne perde tutta la restante quando scorge su un tavolo insanguinato i corpi sezionati dei suoi due ragazzi, come capi di bestiame sottoposti lì al taglio del macello.

Poco tempo, giusto quello di immergere in lacrime le mani in quel filiale sangue disperandosi, che il veleno ha completato la sua opera, frattanto che dal fondo oscuro del sotterraneo emergono traballanti dei corpi ricuciti, immonde aberrazioni senza vita, mano nella mano a chi nel tempo, pazientemente, li ha assemblati con tetro artigianato di sartoria, la gentile coppia della cui sgraziata risata riecheggia in ogni angolo di quella pensione sulla strada.

Gianluca Gelsomini