GIORNALE DEL PROFESSORE DI SCUOLA MEDIA 04 – STRELLA MISTERO COSMICO

Sotto il groviglio secco degli olmi centenari di Viale Garibaldi, alle bancarelle della prima domenica del mese, incontro il vecchio prof. di latino A. F. Entrambi indaffarati tra la calca di libri del signor Enio, in lotta per accaparrarci la serie completa delle avventure uraniane di Doc Savage con copertine di Karel Thole.

Mentre spulciamo i volumi impolverati, discorriamo su certi fatti recentemente accaduti a Strella, paese non lontano da Albano. A. F. parla col suo vocione profondo da baritono e sembra sorridere sotto i baffi bianchi. Su Notizia Oggi ha letto di strane forme luminescenti nei cieli notturni, del comportamento bizzarro e aggressivo degli animali nell’aia e di un ronzio persistente proveniente dal bosco vicino. Io annuisco in silenzio e cerco di capire se lui presti fede all’intervista di due contadini di Strella che asseriscono di aver visto due bambini verdi che si tenevano per mano e facevano capolino tra le fronde del parco.

La storia è curiosa e, visti i recenti sviluppi, da approfondire. Tuttavia mi guardo bene dal mettere al corrente il professore su quanto ho raccolto finora: nonostante il suo interesse sembri sincero, preferisco lasciarlo alla lettura dei Doc Savage e vedermela da solo. Dopo avermi edotto sugli avvistamenti UFO in Plinio (Storia naturale), Tito Livio (Libro dei prodigi), Plutarco e Svetonio, A. F. si congeda con le borse di cimeli.

Io corro alla macchina e filo verso Strella per condurre un primo sopralluogo. Viaggio su una lunga strada bianca che s’attorce come una serpe sopra gli stagni ampi delle risaie. Supero crocicchi rusticani e oasi di pace. L’aia mietuta per l’autunno e le sagome annerite delle rade cascine dalle mura rotte. Il giorno si riversa sul mondo e una luce fragile s’accorda dentro il paesaggio.

Arrivo a Strella, paese di calce e abbandono, schiuso sul limitare del bosco che porta ad Albano. Lascio la macchina nella piazzetta disadorna e mi muovo a piedi in cerca di anime vive. Per quel poco che so qui non dovrebbe più viverci nessuno, eccetto alcuni contadini al lavoro sulle esequie di canali, bambagia, riso e vento appassito. Infatti, appena fuori dai cumuli di case, l’irriguo verde dei campi mi abbraccia con la sua pace minerale. Intravedo due ombre armate di falci e badili. Hanno facce antiche e mani brune piene di calli e stanchezza. Nelle loro rughe, ammassi di stagioni. I contadini vestono camicioni quadrettati di lana. I loro occhi sono gialli d’ittero, famelici. Offro sigarette e i cristalli di quarzo delle loro guance si sciolgono appena. Vagamente accenno ai bambini verdi e un labirinto di cortecce rugose serrano nuovamente gli occhi malati. I contadini sputano via il mio tabacco e mi fanno capire che devo andarmene alla svelta. Non insisto e riprendo a passeggiare. Le due mummie mi seguono cogli occhi e limano le falci.
Altre ombre contadine s’affacciano sull’aia e dalle strade morte del paese. Ombre di vecchi dalla palude. Vecchie dagli occhi di biscia. Taglio per una stradina sterrata e mi butto nella fitta rete di sentieri del parco/bosco. Il parco/bosco si estende per circa 900 ettari lungo il fiume Sesia. Il terreno fluviale ricopre gli ultimi lembi di foresta planiziale. Dentro le radure ghiaiose, s’aprono stagni, garzaie e brughiera. Alle mie spalle sento vociare e rumori di scarponi sull’immenso mare di ciottoli accatastati come dune di deserto. Lungo le sponde del fiume il paesaggio è quasi lunare. La progressiva colonizzazione vegetale mi protegge dai miei inseguitori. Nascosto dietro a grappoli di querce e prugnoli, vedo le casacche degli abitanti frugare le felci coi bastoni. Molti hanno coltelli e roncole.

La sagoma di un giovinetto s’avvicina più degli altri. Cerca un posto appartato per i suoi bisogni. Penso corporali, invece, il ragazzetto si strappa via la faccia con un movimento semplicissimo delle dita, mostrando sotto gli zigomi un lebbrosario di germogli prismatici e sostanze semiliquide in putrefazione che ricoprono il teschio. E’ un lampo, infine il giovane stacca alcuni granelli di polvere dalla pelle, si rimette la maschera e corre dietro agli altri. Col fiato sospeso, attendo dal mio giaciglio che si stanchino di cercarmi. Perché ormai è chiaro che mi stanno cercando e che mi sono spinto troppo oltre nelle ricerche. Se potessi tornare sui miei passi e recarmi al cimitero, sicuramente troverei i volti spinosi degli abitanti raffigurati sulle lapidi, in quanto ciò che ho visto può avere una sola spiegazione.

Come ci si può strappare la faccia e ricostruirla in pochi secondi?

Credo che Strella sia una fabbrica di corpi non umani, forse morti riportati alla vita e invasi da grumi d’energia cosmica. D’accordo è una follia, ma è così, inutile cedere alle pressioni del terrore, della superstizione o del subconscio isterico. In questa periferia della piana, le rovine dei paesi sono colonizzate non dai computer o dai codici binari, bensì da un ecosistema di invasori mimetizzati nelle paludi.

Dal nascondiglio sento il viziarsi del bosco, la putrefazione liquida che intacca e spegne il monile del sole. L’ora illanguidisce nella cenere e la voce della sera sorprende gli ultimi sciami di calabroni sopravvissuti alla bruma. Sul bosco, la mannaia trasparente della luna gocciola debole dentro la fibra delle ossa. Allora mi scrollo di dosso l’umido e vago dell’oscurità crepuscolare. Il brivido dei rami mi sfiora, guidandomi sopra l’erba torbida. Il buio sghembo cede a un diorama fiorito. Oltre dei biancospini intravedo una radura e un albero torto dai fulmini al centro.

Buona parte dei paesani è qui.

Radunati in cerchio a serrare la filigrana morta della corteccia. Accucciati sulle radici, i due bambini verdi che si tengono per mano. Creature precipitate qui da un vortice spaziale, da una caverna aperta nel ghiaccio o da un mondo fianco fianco al nostro e tuttavia lontanissimo. I bambini verdi appaiono ai contadini durante la mietitura del riso. E li attirano nel bosco. Li trasformano in involucri. Apparenze. Manichini. Trappole. Bimbi verdi che si tengono per mano. Hanno occhi gialli, famelici, avidi. Occhi accesi da una nube maravigliosamente splendente che reca traccia di un mondo differente, dove la vegetazione è un equinozio necropoli di giungla. Come obbedendo a un ordine invisibile i paesani raccolgono una serie di ciocchi e li sistemano in modo da preparare una pira ai piedi dell’albero. Infine innalzano un palo centrale che sovrasta la catasta a forma di cono. E’ quasi tutto pronto per un falò notturno. Un falò di purificazione e rigenerazione per distruggere le influenze negative, le malattie, le fatture, la corruzione. Dall’intensità delle scintille nascerà un nuovo ciclo, una nuova forma di vita.

Manca solo il fantoccio da immolare tra le braci.

Delle mani diafane mi trascinano via dal biancospino. Vengo portato al centro della radura, legato al palo e cosparso di benzina insieme ai ceppi. La morte contadina mi ha condotto fin qui per mano. E adesso che debbo morire mi accorgo di non aver paura. Dobbiamo morire, moriremo, siamo già morti: questo pensiero mi attraversa come una cometa, spingendomi a cedere le armi, dimettere le forze opponenti della ragione.

I bambini verdi sono apparsi ai contadini di Strella durante la mietitura del riso. E li hanno attirati nei boschi, insegnando loro i riti di una nuova tradizione da opporre allo spazio totale del consumo che li aveva trasformati in involucri. Apparenze. Manichini. I paesani si levano le maschere, si sfilano la pelle: sono divenuti dei mostri umanoidi dai torsi conici color verde e tentacoli guizzanti al posto della testa. Qualcuno accende il primo ramo resinoso che funge da torcia, si avvicina alla catasta e appicca il fuoco da più parti, mentre altri badano con delle pertiche a che le fiamme non si spandano.

Il cielo è una tazza di stelle spente. Fuoco mistico. In un punto molto lontano dello spazio si stanno radunando dei puntini luminosi. Io avvampo, divento panoplia scintillante di carne e tronco.

Un ultimo sguardo ai bambini verdi che si tengono per mano. Tra gli spazi vuoti delle loro dita intrecciate riesco a vedere nitidamente un embrione di forze molecolari entro cui mescolarmi: essere cosa tra le cose, fiore tra i fiori, pianta tra le piante, animale, insetto, polvere, atomo nel palmo della giostra cosmica.

(4 – fine)

Davide Rosso (fotografie di Cristiano Chiesa)