SU ROBERT JOHNSON E IL SUO PATTO CON IL DIAVOLO

Il crocicchio era sempre lì nello stesso punto, in fondo alla strada sulla sinistra. C’ero passato davanti moltissime volte, con la chitarra a tracolla, spesso sbronzo, raramente lucido. La notte era afosa, piena di zanzare che, attirate dalla puzza di alcol che emanavo, mi punzecchiavano continuamente. La foschia scendeva nella campagna intorno a me e da lontano mi sembrava di vedere un uomo con una lanterna accesa in mano, che mi chiamava. Pensavo si trattasse di un’allucinazione, visto la condizione in cui mi trovavo. Ero sceso al bar vicino al fiume per tenere un piccolo concerto, dovevo aprire la serata del mio amico Malcolm, un pianista jazz molto dotato e anche molto ben disposto ad aiutare gli altri a raggiungere il loro posto al sole. Ecco, scesi al bar piuttosto velocemente, bevvi qualche birra per calmarmi e poi iniziai a strimpellare un blues. Gli avventori del locale, già vistosamente alticci, non apprezzarono la mia musica, così la mia piccola apertura si concluse prima del tempo. Mi andò anche bene, visto che non mi tirarono addosso i bicchierini da whiskey. Scesi dal palco, inciampando nello sgabello, e mi avvicinai al bancone. George, un omone grande e grosso, ben piantato, senza collo e con gli occhi sempre iniettati di sangue, mi servì un’altra birra. Non ricordo poi cosa successe, parlai ancora con qualcuno, ascoltai il concerto del mio amico Malcolm e poi me ne andai, barcollando, con la chitarra a tracolla. Qualche chilometro nella direzione di casa il famoso crocicchio, accanto a un platano secolare. L’uomo che stava lì non era un’allucinazione, me ne resi conto avvicinandomi.

- Salve Robert, la stavo aspettando.

Questo tizio attendeva proprio me.

Devo aver bofonchiato qualcosa, non ricordo bene cosa. Fissavo questo strano essere: aveva un viso aguzzo, ricoperto da una strana peluria marrone, gli occhi fiammeggianti. Portava nelle dita diversi anelli, tutti molto grandi e, questo lo ricordo bene, non indossava scarpe, anzi sembrava che avesse degli zoccoli da caprone al posto dei piedi. Inoltre dal soprabito spuntava una coda, che sembrava quella di una salamandra. Dovevo essere davvero molto ubriaco. Riprese a parlarmi.
- Ha fatto faville anche stasera, signor Johnson?

Feci un cenno con la testa e l’uomo sorrise.

- Io sono venuto da molto lontano per sottoporre alla sua pronta attenzione un contratto. Non faccia il modesto, so bene che vorrebbe essere il più grande chitarrista di sempre, ricordato negli annali e vorrebbe influenzare tutti i musicisti che verranno dopo di lei. Ho ragione?

Non sapevo come facesse a sapere queste cose di me, ma era tutto vero. Lui sorrise nuovamente.
- Firmi questo pezzo di carta, non si lasci pregare, e diventerà quello che lei sogna di diventare.
Estrasse da sotto la giacca una pergamena e una penna. Me li porse.

- E se io firmo qual è il prezzo? Tutto ha un prezzo a questo mondo – chiesi.

- Non si preoccupi, a suo tempo mi farò di nuovo vivo – rispose, invitandomi a prendere visione del contratto. Non ci pensai poi molto, non avevo niente da perdere. Firmai e il mio segno sulla pergamena bruciò. L’uomo iniziò a belare e il suo verso si propagò per tutta la campagna circostante. Poi sparì, lasciandomi con un palmo di naso.

Il giorno successivo mi svegliai con la sensazione che quanto era accaduto fosse solo un sogno. Un sogno strano, che mi aveva lasciato uno strano presentimento, come se la mia vita fosse definitivamente cambiata. Mi alzai, guardai il mio orologio, erano da poco passate le tre e un quarto. Avevo dormito come un sasso. Uscii dalla mia baracca e andai a lavarmi nel fiume melmoso, spaventandomi molto quando vidi uno strano segno, una stella a cinque punte, nella parte interna dell’avambraccio. Cosa diavolo era? Come me l’ero fatto? La gola mi si stava seccando, avevo bisogno di un whiskey. Tornai nella baracca, mi rivestii e misi a tracolla la mia chitarra sbrindellata, come d’abitudine.

Al bar di George c’era un insolito disordine: l’omone se ne stava sul portico dell’entrata bestemmiando contro qualcuno. Mi avvicinai e lo salutai in modo defilato; avevo paura che mi tirasse uno schiaffone, mi avrebbe di certo ucciso con quelle mani che si ritrovava. Mi guardò, sputò in terra e poi mi disse, senza lasciarmi modo di ribattere:
- Preparati Johnson, stasera apri tu il concerto di Malcolm. Tanto non può andare peggio di altre volte!
Così mi ritrovai, alle nove di sera, già pesantemente ubriaco, a suonare la mia Stop Breakin’ Down Blues, che veniva benissimo: il mio pubblico non mi tirava addosso niente, sembrava anche incantato nell’ascoltarmi e le mie dita si muovevano sulle corde come non avevano fatto mai. Malcolm ascoltava da dietro le quinte stupito.

Da quella sera la mia vita cambiò completamente. Non ero più il Robert Johnson pessimo musicista, ma ero il più acclamato suonatore di tutta lo stato del Mississippi, con molti soldi in tasca, molte donne a disposizione e molte bottiglie di birra da svuotare. Non importava quanto ubriaco salissi sul palco, ogni concerto si concludeva con un’ovazione del pubblico e ogni serata terminava con una donna al mio fianco, una donna a cui non importava se ricordavo come si chiamasse o meno. Passarono così un paio d’anni: incisi dischi, vendetti molto, mi divertii altrettanto. Talvolta sognavo l’uomo della lanterna, con il suo solito sorriso sul viso, che faceva penzolare davanti ai miei occhi il suo orologio da taschino, sussurrandomi che l’ora del pagamento era vicina. Mi svegliavo sudato, il braccio con la stella particolarmente dolorante, pieno di paure che solo l’alcol riusciva a domare. Non mi domandai mai chi fosse quello strano essere che aveva fatto la mia fortuna, anche se nel mio profondo lo sapevo eccome. Ricordavo quando Gesù, nel deserto, veniva continuamente tentato da Satana e come lui, altrettanto continuamente, rifiutava ogni tipo di avances. Mi ci volle pochissimo a capire che quello che il Diavolo voleva era la mia vita, o la mia anima, se ne esisteva una, alla fine della mia permanenza terrena. Chissà perché pensavo che sarei vissuto in eterno, i successi che stavo ottenendo facevano allontanare da me il pensiero del termine, di quando tutti saremo stesi e rigidi e coperti di terra.

Ma la morte mi raggiunse ben prima che io potessi diventare un uomo fatto e finito. Morii la notte del 16 agosto 1938, dopo giorni di agonia. Era successo questo: ci eravamo recati a Greenwood, io e altri due musicisti, ingaggiati da un tizio che aveva una bettola poco fuori dalla città. Mi piaceva quel posto, specialmente mi piaceva la moglie del gestore del locale, una mulatta dalle lunghe gambe affusolate e dai seni prosperosi. Eravamo già stati insieme diverse volte e spesso avevamo rischiato di essere scoperti dal marito che, a dire di lei, era un uomo molto vendicativo. Mi stupivo che continuasse a chiamarmi per suonare, pensavo che qualche voce di quello che gli combinavamo sotto al naso gli fosse arrivata, ma tant’era e io non mi tiravo di certo indietro. Era una serata bollente. Suonavamo, il locale era rovente e non solo per la calda notte, io e la mia amante ci lanciavamo segnali espliciti su quello che avremmo voluto fare a concerto finito. Avevo la gola secca: mi passarono una bottiglia aperta e io stavo per berne un sorso, quando uno dei miei amici me lo impedì, dicendo che non era prudente. Non ascoltai il suo consiglio la seconda volta, bevvi da un’altra bottiglia aperta di whiskey, piuttosto seccato, e continuai la mia performance, finché, a un tratto, il pubblico cominciò a trasformarsi in un gruppo indistinto, composto da teste di rane e di salamandre. Le pareti del locale divennero rosse, sembravano squagliarsi per il calore della stanza che si faceva sempre più intenso, iniziai a urlare con gli occhi rivoltati all’indietro… mi portarono via, mi misero a letto e me ne andai da quel giaciglio due giorni dopo, pronto per essere seppellito.

Dicono che non ripresi più conoscenza; mi avevano avvelenato, anzi, doveva essere stato il marito cornuto, perché le bottiglie arrivavano dal suo bancone. Come dice quello, chi la fa l’aspetti, ma io, da gran cialtrone, non me l’ero aspettata. Giacevo sudante e gemente in un letto, con accanto qualche amico che si fregava il mio denaro, mentre mi venivano a trovare gli spiriti dei miei avi. Rividi mia madre e mio padre, che piangevano la mia sorte nonostante i loro occhi fossero cavati, mia sorella e mio fratello, morti da bambini a causa della difterite. Vedevo me stesso, con una catena legata al collo che terminava con una palla di ferro rovente, che mi bruciava il collo. Vicino a me l’uomo caprino.

- Signor Johnson, è ora – diceva, con quel suo sorriso mellifluo.

- Cosa vuoi – biascicavo, sperando di prendere ancora tempo e poter tornare alla mia vita terrena.
- Lo sa bene cosa voglio, signor Johnson, l’ha firmato tanto tempo fa – la pergamena era riapparsa magicamente nelle sue mani. Non avevo scampo, era finita.

- Prenditela, la mia anima! – urlai, poi più niente. Vidi mentre mi buttavano con una cerimonia alquanto semplice nella terra nera e umida, senza troppe lacrime versate. Così finiva la vita del grande suonatore del Mississippi, morto a soli ventisette anni perché non sapeva tenere il suo pisello nei pantaloni.

La mia anima è dentro una scatola nera. Il Diavolo la conserva in una speciale teca, in mezzo a tante altre, fra cui quella di Faust.

Roberta Lilliu