GIORNALE DEL PROFESSORE DI SCUOLA MEDIA 02 – MEDIUM COSMICA AD ALBANO

Passano i giorni e l’avventura di Saletta appare sempre più un sogno a occhi aperti, un’avventura dal tepore autunnale. Tuttavia la mente rimane infiammata, più che dalla paura, dal desiderio di rovistare negli strami dell’immaginazione barocca. Così riprendo il mio tran tran quotidiano a scuola. Correggo le verifiche d’ingresso delle varie classi, mi scontro con un alunno molesto, esagerando (e subito pentendomene) nel prenderlo di petto e apparirgli fin dal principio un mostro di regole e severità; fatto curioso questo, in quanto io coi regolamenti ho sempre intrattenuto rapporti blasfemi. Comunque il tempo lavorativo passa senza grossi incidenti. Faccio le prime mense, sorbendomi il caos puro di cento voci animalesche che s’accapigliano stridule e s’inzuppano di cibi stracotti. Nel primo pomeriggio rientro a casa e torna a immergermi nella quiete abituale. Prendo l’abitudine di cercare su internet notizie curiose o strane concernenti Saletta e la provincia. Indizi che possano confermare o smentire quanto penso di aver visto. E’ così che m’imbatto in una notiziola seminascosta tra i necrologi dell’Eusebiano. Il trafiletto parla di un corriere espresso a cui è capitata una curiosa (e brutta) avventura nei pressi di Albano, vicinissimo alla riserva naturale dove abitualmente mi reco a passeggiare. Il racconto dell’uomo ha molti punti di contatto con la mia recente avventura extra-scolastica e voglio vederci chiaro. Decido di contattare l’uomo. Purtroppo l’articolo ne occulta i dati. Vincendo la mia naturale pigrizia e timidezza, contatto un vecchio amico, ora pezzo grosso nel comune di Vercelli, che lavorava come capo redattore nel medesimo giornale. L’amico, nonostante la mia eclisse, si dimostra insolitamente contento di sentirmi e subito si offre di aiutarmi. Nel giro di qualche ora ho i dati completi dell’uomo. Decido con molti ripensamenti cosa dirgli, infine lo chiamo e mi presento. Vincendo la sua iniziale diffidenza lo convinco a incontrarmi la sera del giorno successivo nel piccolo bar del mio paese. L’uomo in realtà è un ragazzo sulla trentina, molto giovanile e atletico, vestito con una felpa sportiva e dei pantaloni larghi da rapper. Ha la barba lunga, gli occhi guizzanti e frenetici e uno strano tic al naso che lo costringe a soffiare fuori l’aria ogni tanto. Si chiama Cristiano. Inaspettatamente leghiamo subito e, dopo aver ascoltato il mio racconto capitato a Saletta, lo vedo ben disposto a dirmi di Albano. Quel che segue è il resoconto fedele dei fatti messi in minima narrativa.

Prima lavoravo in un panificio industriale e il mio compito era quello di togliere dal rullo a nastro le teglie roventi. Centinaia e centinaia di panini che rotolavano ovunque e appena ti sfioravano venivi ustionato. Non avevi nemmeno il tempo di tirare un fiato che il nastro continuava a sputare fuori le teglie e quelli intorno a te imprecavano perché eri sempre troppo lento. I miei colleghi erano quasi tutti stranieri, immigrati che avrebbero lavorato a qualunque condizione, come me. Ne avevamo bisogno e i proprietari (una grossa catena tedesca) lo sapevano benissimo. Lavoravamo spesso per due o tre settimane senza un giorno di riposo, fino a 12 o 13 ore al giorno, in regime di reperibilità totale. Niente feste, niente cassa integrazione, niente di niente. Sempre di corsa. Trattati come degli zero. Nessuno ci restava a lungo. Ogni giorno qualcuno mollava e veniva sostituito da qualche altro precario. Ho visto gente svenire per il caldo, per un collasso. Negli ultimi tempi stavo sempre male anch’io. Avevo perso la sensibilità delle braccia, mi faceva male a stringere le dita. Così ho mollato. Mi sbatto per qualche mese e il collocamento mi trova un altro lavoro. Corriere espresso per due mesi presso una grossa azienda. Penso di essere in paradiso. Mi piace guidare e il lavoro sembra semplice. Ma è sempre così visto da fuori. Dentro ci scopri le magagne, ci scopri l’inferno. Il corriere espresso è un lavoro generato dai gironi di Internet e obbedisce ai comandi di un mondo non dissimile dai rulli del panificio industriale. Un mondo sempre più veloce, bulimico, frenetico. Quindi faccio il fattorino per una società di servizi, divento l’uomo dei pacchi. Ho la mia bella divisa bianca e blu, sembro un arbitro di calcio. Il primo giorno scopro tutto. Svegli prima dell’alba. Devo essere ai magazzini dell’azienda per le cinque, davanti a un altro nastro trasportatore. Siamo una cinquantina di autisti. Migliaia di pacchi ci sfilano davanti e ogni scatola ha un suo codice di riconoscimento. Ognuno tira via i pacchi con un determinato codice. Li cerchiamo, li solleviamo dal nastro e li posiamo a terra, alle nostre spalle. Dopo un’ora la prima fase è finita. Adesso dobbiamo prendere i pacchi una seconda volta, sollevarli (e alcuni sono semplicemente enormi, contenenti magari degli elettrodomestici per cui ci vorrebbe un muletto mancante) e stiparli dentro il camioncino assegnato. Dobbiamo stare attenti a come riponiamo i colli, cercando di rispettare l’ordine di consegna che ci viene consegnato quotidianamente. Dopo oltre due ore di lavoro fisico pesantissimo può iniziare la parte che tutti conosciamo e che, a parole, è facile. Si tratta di consegnare tutti i pacchi (150 in media) percorrendo oltre 200 chilometri, senza il tempo di fermarsi a mangiare o riposarsi. Senza contare gli innumerevoli giri a vuoto per rintracciare un indirizzo inesistente o incompleto. Per consegnare tutto ci vogliono oltre dieci ore, che sommate alle quasi tre del mattino ci portano oltre qualunque soglia sindacale, umana, sociale. In breve, da un inferno a un altro per poco più di mille euro al mese. Mille euro che potrebbero assottigliarsi causa qualche punizione aziendale. Perché quando consegniamo un pacco, prima lo passiamo con la pistola a scanner che registra l’ora esatta della consegna e controlla così la nostra solerzia. Se dimentichiamo qualcosa incorriamo in multe salate. Per aver dimenticato di far firmare il cliente. Per essere in ritardo nelle consegne. Per non aver trovato il destinatario. Ognuno di noi, per reggere il carico di lavoro ricorre agli stupefacenti, alle pillole, all’alcool, col rischio di essere fermati da qualche pattuglia. Se si danneggia il mezzo, le riparazioni sono di tasca nostra. L’azienda invece è sempre tutelata, protetta. Un pomeriggio incredibilmente leggero (solo 90 pacchi da consegnare!) mi trovo in largo anticipo. Devo recapitare un pacco ad Albano, così decido di fermarmi a un alimentari lungo la strada, comprarmi pane e salame e andarmene una ventina di minuti al parco lì vicino per rilassarmi e rifocillarmi. Protetto dal fresco del bosco, immerso nella dolcezza dell’ombra vegetale, nessuno dei capi potrà vedermi, spiarmi, multarmi. Per arrivare al parco devo attraversare il paese di Albano, girare a destra nella piazzetta centrale e percorrere una stradina in parte asfaltata. Lungo questa stradina c’è una vecchia casa diroccata sulla quale sono sempre girate delle storie strane. Da ragazzo, ricordo che in un paio di occasioni c’ero entrato abusivamente con degli amici appassionati di paranormale. Col cric della macchina avevamo allargato le sbarre della cancellata. Passo davanti alla vecchia villa e intravedo le sbarre ancora forzate. Un impulso fortissimo e inspiegabile a fermarmi, forse il bisogno di passare fugacemente le dita su quei pezzi di ferro corrosi e riacciuffare la leggerezza perduta. Magari una foto col cellulare al mausoleo in putrefazione architettonica. Cose così. Dunque mi fermo, scendo e osservo l’edificio semi sommerso dall’edera. Le pesanti finestre di legno rancido gonfiate dagli elementi e sul punto di sciogliersi. Il giardino selvaggio, invaso da rovi ed erbacce. A quel punto la smania di rincorrere i ricordi si sostituisce a qualcosa d’altro, un’esigenza misteriosa a varcare il cancello e perdermi in quell’universo baraggivo. Detto fatto, scopro che il mio corpo ha ancora l’agilità e la sottigliezza del diciannovenne e passo attraverso le sbarre divaricate. Mi inoltro nelle erbacce. Sul retro dell’abitazione ricordo una porta finestra divelta dalla quale era possibile accedere all’interno. Si, c’è ancora.

Oltre un lungo corridoio con porte su entrambi i lati. Ovunque regna la penombra, escrementi di topi, larve secche di insetti e il silenzio. Mi inoltro nel corridoio, lanciando occhiate alle varie stanze. Vedo vecchi mobili del primo Novecento, alcuni rovinati, altri ben conservati, molta mobilia è accatastata al centro delle stanze, coperta da pesanti lenzuoli. Ogni tanto noto delle cassapanche, degli armadi con dentro dei vecchi abiti appesi a grucce marcite. In una stanza scorgo una culla per neonati, delle bambole agghindate dalle ragnatele. L’odore acre di grasso rancido, l’aria talmente secca che ho difficoltà a respirare. Un rumore mi fa sobbalzare. E’ come se qualcuno battesse contro i muri. Il suono viene da una delle ultime stanze. Guardingo, ora sono un pochino spaventato, mi avvio verso la fine del corridoio (dove le ombre sono più marcate) ed entro nella camera dalla quale escono i colpi sordi.

La stanza è simile alle altre, anche qui mobilia parzialmente accatastata e coperta da lenzuoli. Sul fondo c’è una persiana socchiusa che sbatte. Ecco cos’era il rumore. Tiro un sospiro di sollievo e sorrido come per scacciare chissà cosa. Mi avvicino alla persiana per aprirla e bloccarla. Da lì posso vedere un pezzettino del cancello di ingresso, e controllo che non sia arrivato nessuno. Il furgone è ancora al suo posto con gli ultimi pacchi e il pranzo ad aspettarmi. Decido di uscire quando urto contro qualcosa. Cadono degli oggetti: spazzole, vecchie bomboniere e un voluminoso album. L’album nel cadere si apre e finisce riverso con la costa scura voltata verso l’alto. Lo raccolgo e lo spolvero. E’ un album fotografico. Dentro ci sono centinaia di fotografie in bianco e nero. Vecchie foto da primi del Novecento. Roba da mercatino delle pulci. Non faccio in tempo a sfogliarlo che una figura appare sulla soglia, facendomi quasi morire dallo spavento. E’ una ragazza molto giovane e magra dalle guance truccate di rosa. Ha i capelli raccolti come non si usa più e indossa un abito lungo, quasi una vestaglia marroncina dalle maniche a sbuffo. Lei mi osserva per nulla spaventata, con un’espressione severa. Io mi scuso per l’intrusione e spiego tutto. Mi sono fermato, incuriosito dal luogo, ritenendolo disabitato. Lei scuote appena la testa e parla con una voce che sembra venire dagli angoli remoti dell’infanzia. La casa non è più disabitata. Appartiene alla sua famiglia da generazioni. Conti. Ora lei ha deciso di ristrutturare l’abitato e viverci coi parenti rimasti. A breve inizieranno i lavori di restauro. Io mi scuso ancora per l’intrusione e temo che la ragazza possa lamentarsi con la mia azienda. Per me sarebbe la fine. Lei pare leggermi nel pensiero e la sua espressione si distende. Delle stelle brillano nei suoi occhi. Dice che non importa, che non ho fatto nulla di male e s’avvicina carezzandomi la mano, come a suggellare qualcosa d’erotico. Con un sospiro d’ombra mi offre di fermarmi ancora. Per un the insieme. Dovrei rifiutare, ricordarmi del furgone, dei pacchi, dell’azienda. Invece mi limito ad annuire, come se il corpo fosse controllato da un invisibile burattino che mi impedisce di muovermi e ragionare. La sagoma di lei sparisce oltre la soglia. Faccio in tempo a rincorrerla e intravedo appena il riflesso di altri corpi nell’ombra acquattati sul fondo del corridoio. La ragazza mi rassicura. Sono i suoi parenti, anziani, alcuni infermi. Le chiedo il suo nome. La curva delle sue labbra si schiude in una covata d’aurora. Sussurra. Oriana. Oriana. Io torno nella polvere della stanza e attendo il suo ritorno. Ormai del mondo esterno non mi importa più nulla. Inganno quei lunghi secondi con l’album di foto. Avi di lei. Lastre che impressionano corpi ormai sepolti dal dondolio del tempo. Uomini e donne in abiti signorili. Impiego un po’ a capire di cosa trattano le fotografie. Uomini e donne dell’Ottocento, del Novecento. Borghesi impettiti, dalle facce rotonde e levigate come tamburi militari, le barbe severe e rocciose. Le dame coi cappellini, i veli, le stole, i corredi e gli occhi di calendole. In posa. Mezzibusti spettrali tra gli spettri. Alle loro spalle buffe figurine ritagliate. Ectoplasmi d’emulsione. Manine. Braccine. Visini d’infanti. Di vecchi. Bave di garza che fuoriescono dalle bocche delle medium. Sono ritratti di fantasmi, fotografie spiritiche. Una dopo l’altra le foto sembrano raccontare una storia. Riconosco alcuni arredi, sono state scattate nella casa. Una serie presenta i momenti di una seduta. I personaggi raccolti attorno a un tavolino traballante, che hanno difficoltà a tener inchiodato a terra, poi gli sforzi della medium, le sue convulsioni fino a lasciarsi possedere da un’energia carnivora che le frulla le membra. Bava di garza che fuoriesce dalla bocca, gelatina da sotto la gonna, dalla vulva. E poi un brillare diverso. Un globo di luce bianca che invade la stanza. Una luce che non sembra provenire dall’oltretomba. Allora mi accorgo che la faccia della medium, la faccia della bambina che evoca gli invasori è quella di lei. Oriana. Alle sue spalle, oltre tendaggi neri, apparecchiature luminose allineate lungo il gabinetto spiritico come sonde ipnotiche, sonde interstellari.

Chiudo l’album e provo a muovermi.

Una folata gelida.

Le mie palpebre ostinatamente aperte.

Non resta altro che abbandonarmi al panico.

Corro nei corridoi.

Corro e mi volto all’indietro.

Verso le ombre allineate sul fondo.

Corro e vedo Oriana che sorride.

La sua faccia non è quasi più umana, i lineamenti sembrano una maschera di fango e sudore che si scolla rapidamente.

Con lei ombre umanoidi rivestite da tute rigide dai riflessi metallici e guanti scintillanti. Al posto degli occhi hanno grossi oblò.

Nel giardino un tepore nebbioso ha cancellato la luce.

Inspiegabilmente s’è fatta notte.

Corro verso il cancello.

Verso le sbarre divaricate.

Sopra di me il ronzio metallico di un insetto.

Intravedo degli oggetti discoidali apparire e sparire tra le stelle.

Mi infilo tra le sbarre e lancio un’ultima occhiata alla casa.

Oriana secerne grumi liquidi di pelle canforata, come se si sciogliesse nel giardino. Al suo fianco le altre figure fluttuanti, di luce verdastra. Hanno le braccia e le gambe sproporzionate, lunge e appuntite come spilli. Potrebbero ancora raggiungermi. Potrebbero afferrarmi nel risalire sul furgoncino. Sopra di me, oltre le stelle, Marte e Antares brillano di vivida luce rossa.”

Nell’ultima parte, lo ammetto, ho abbondato con la paratassi, la punteggiatura neumatica e l’ipotiposi, ma solo per restituire un ritmo ansiogeno al racconto di Cristiano, peraltro rilasciato con calma e precisione. Nel tempo intercorso tra l’episodio e il verbale resomi, il ragazzo ha potuto metabolizzare l’accaduto e convincersi di aver sognato sotto l’effetto della stanchezza e degli alcolici. Anch’io ho optato per una allucinazione. Possibile? Non credo alle coincidenze, tuttavia preferisco rassicurare Cristiano e ringraziarlo per il tempo concessomi. Inutile instillargli dubbi. Ha bisogno di serenità per tenersi il lavoro e la salute.

Tuttavia non posso fare a meno di chiedermi se nella nostra bella provincia stia accadendo qualcosa. Se ci sia un piano segreto nascosto sotto la superficie delle cose. Se altre sonde interstellari aspettino di essere raccontate. Annoto quanto avete letto e vado a coricarmi. Domani mattina ho la prima ora a Scuola. Evito di scrutare in alto, verso il cielo scuro.

(2 – continua)

Davide Rosso (fotografie di Cristiano Chiesa)