MARIKEN… DI ANONIMO FIAMMINGO (O DELLA LIBERTA’ NEL NARRARE)

Nel numero di Nocturno del marzo scorso vi è un Dossier dedicato al cinema delle Streghe. All’interno ho trovato la menzione a un libro che non conoscevo, La veritiera e meravigliosa storia di Mariken di Nimega, scritto da Anonimo intorno al 1500. Incuriosito me ne sono procurato una vecchia copia della Lindau che presenta una copertina analoga a quella del capolavoro bissoliano Il paese stregato.

Leggo dalla lunga e bella nota di Fulvio Ferrari che l’opera è uno dei capolavori della letteratura fiamminga e riguarda il tema del patto diabolico, gettando le basi per i capolavori di Goethe e di Marlowe. Inoltre Mariken è stata composta (da una mano, da più mani?) in un periodo storico interessato ai riti diabolici e alle sue consorterie (siamo in epoca di Riforme e Controriforme, dove si consumano le ultime guerre di Religione in Europa). Il pensiero religioso alla base del testo è meno invasivo e intollerante di tanti teologi: l’idea di fondo è che, per quanto ci si sia macchiati di peccati tremendi, in presenza di vero pentimento, Dio può essere misericordioso.

Bene.

Ve ne parlo perché Mariken è davvero un capolavoro scritto sul finire dei secoli bui e ve ne consiglio la lettura.

Ma ciò che mi ha colpito enormemente è la forma in cui ci è pervenuto.

Mariken si presenta come un ibrido, come un testo liberissimo che alterna prosa e poesia a monologhi e dialoghi teatrali, tanto da rendere difficile il lavoro dei filologi, incapaci di ricostruire la forma originale del testo (ammesso che ve ne fosse una).

E’ un problema comune a molti lavori giunti fino a noi dall’antichità.

Pensiamo all’Iliade o all’Odissea e alla questione omerica.

Oppure a certi capolavori della latinità come il Satyricon, le opere di Livio Andronico, il metateatro plautino [1].

Mariken è dunque un romanzo, ossia il genere letterario per eccellenza dall’Ottocento in poi, forma abusata e consumata, imprigionata dentro strutture semiotiche severamente applicate dagli story analist della nostra post-modernità. Mi riferisco agli studi condotti in più di un secolo da Vladimir Propp sulle fiabe russe, o da Campbell e Vogler sul racconto popolare americano, fino al matematico schema classificatorio di McKee, vero super manuale per scuole di scrittura creativa e studi hollywoodiani. La narratologia contemporanea fissa degli archetipi di base e delle situazioni che ricorrono da storia a storia, costruendo così una sorta di canovaccio ripetibile all’infinito su cui modellare (e standardizzare) i nostri gusti di consumatori.

Non che all’antichità tutto questo fosse precluso.

Certo vi sono delle differenze macroscopiche tra il romanzo antico e quello standard moderno.

Il genere del romanzo, per gli antichi, era secondario rispetto ad altri generi come l’epica, la commedia, la poesia lirica o l’oratoria.

Il romanzo nasce in epoca ellenistica e utilizza la prosa non per parlare di scienza o filosofia bensì di invenzioni fantastiche il cui fine è l’intrattenimento di consumo.

Le trame dei pochi romanzi pervenutici dal mondo greco utilizzano schemi di base ripetitivi, caratterizzandosi come storie d’amore, quasi degli Harmony del II d.C. (penso alle Storie efesiache di Senofonte Efesio). Successivamente il romanzo antico si colorerà d’avventura, rimanendo estraneo alla dimensione sociale. Ovidio inoculerà l’erotismo nelle sue prose. Antonio Diogene ne Meraviglie al di là di Tule userà il viaggio meraviglioso alla Salgari. Luciano perviene quasi al fantastico utopistico con Storia Vera. Oppure avremo la biografia romanzata (genere tuttora attualissimo) come nella Ciropedia.

Tutto questo nel mondo greco.

Per i romani il romanzo è il Satyricon o le Metamorfosi di Apuleio, forse il più compiuto e omogeneo, debitore di fabulae milesiae caratterizzate dalla mescolanza di realismo ed erotismo spintissimo (come un porno fumetto di Barbieri – pensiamo ai momenti zoofili alla base delle avventure di Lucio tramutato in asino e condotto dalla matrona innamorata del fallo gigante della bestia).

Detto questo, la nozione che noi abbiamo del romanzo si forma dal ‘600 in avanti e quindi è post-classica.

I romanzi di cui ho accennato sopra, pur rispettando degli schemi di base (ricordiamoci che il manuale semiotico di composizione letteraria dell’antichità è l’immensa Poetica di Aristotele, lettura, oggi, immediata e semplicissima, tuttavia necessaria più di qualunque scuola Holden!), si presentano come lacerti incompleti, strutturati su vuoti o mancanze e comunque scritti (o riscritti, tradotti, conservati, copiati e adattati a mano dai Benedettini nei monasteri medievali) con uno stile incalzante, immediato ed essenziale. La sapienza antica è priva di fronzoli, leggere per credere le avventure porno gaudenti dei porno omosessuali di Petronio, oppure, su altro genere, la fulminante, necessaria urgenza dei Dialoghi di Seneca.

L’anonimo fiammingo, da par suo, già in epoca quasi moderna, ci consegna un classico letterario, lontano dai parametri del romance psicologico e realistico (o verosimile) di oggi.

Mariken è un plot minimale, un viaggio, certo, tuttavia presentato sotto una forma mutante che oscilla tra i generi della prosa, della poesia e del teatro. Chi scrive (o coloro che scrivono) non si preoccupano della tenuta stilistica dell’insieme e questo è un primo grande punto.

Il secondo è dato dallo stile adottato che, come nei classici latini, salta o riduce a brevissimi passaggi tanti momenti inutili (o noiosi per il narratore) e si concentra su altri. Le parti in prosa hanno il compito di tagliare la vicenda, compiere delle bellissime ellissi in cui possiamo immaginare ciò che ci è stato risparmiato, colmandolo con la nostra immaginazione.

E questo è un punto capitale.

Oggi, tutto deve essere spiegato, mostrato e descritto nei minimi particolari affinché il lettore/zombi non si sforzi troppo e non si affatichi. La verosimiglianza (e di conseguenza uno standard di generi e codici da rispettare, pena l’esclusione dal consorzio editoriale) è un gioco fortemente limitante per il narratore odierno.

L’anonimo fiammingo invece non si preoccupa se i suoi personaggi sono verosimili. Li tratteggia con un pennino leggero e fulmineo, per poi presentarceli attraverso le loro voci, compresse nei ruoli che ricoprono (Mariken la vergine, lo zio santo, il diavolo tentatore, la zia matrigna e carogna, i puttanieri delle varie taverne, il Papa nel finale). Ciò che fa funzionare il tutto è la magia del racconto, quasi una favola nera sospesa nel tempo, ricca di idee, invenzioni fulminanti e poetiche che pescano nel divino come nelle ubriacature da taverna.

La storia di Mariken è costruita per omissione.

Ed è questa libertà (classica) che manca oggi, questo poter spaziare nelle forme e nei generi, appropriandosi di una struttura libera dai condizionamenti dell’editoria moderna, ormai industria del libro per comici, ex calciatori o inquisiti.

La prosa di oggi è solo prosa giornalistica.

I classici, contrariamente a quanto se ne pensi, sono testi costruiti per accumulazione, ben più sperimentali e lascivi.

In una parola, liberi.

Davide Rosso


[1] Presente anche nel Mariken, con l’ingresso in scena degli attori itineranti, la cui rappresentazione indurrà la giovane a pentirsi e ripudiare il Diavolo a cui si è votata.