IL TIPOGRAFO ROSSINI

Lavoravo nella tipografia del signor Rossini e prima ancora lavoravo in uno store che vendeva accessori per motociclisti. Nello store mi facevo il mazzo, percepivo un buono stipendio e, per la prima volta in dieci anni di sacrifici, ero riuscito a farmi confermare con un (sospirato, agognato) contratto a tempo indeterminato. Praticamente ero arrivato al traguardo! Potevo fare progetti di vita con la mia compagna o semplicemente tirare il fiato e risparmiare qualche soldo. Inoltre mi avevano nominato responsabile del negozio e la qualifica mi fruttava un bonus non indifferente. Poi tutto era precipitato senza preavviso: lo store, anzi la catena, era fallita rovinosamente e ci avevano messi tutti sulla strada. Ero tornato a vivere coi miei, e siccome ero strozzato da un mutuo sull’auto, non potevo permettermi di rimanere senza lavoro. La tipografia del signor Rossini (un vecchio amico di mio padre) mi salvò letteralmente la vita.

Lavoravo in uno stanzone al primo piano del palazzo posto di fronte alla chiesa di S. Pancrazio a PonteTremulo. Le attrezzature erano minime: una pedalina per la stampa dei piccoli formati, un torchio a mano per i formati medi e grandi, una taglierina, la cassettiera coi caratteri tondi, corsivi, un tavolo grande su cui lavorare e un baule pieno di carta. L’attività della tipografia era assorbita dagli opuscoli commissionati dal clero per le feste religiose o dal comune per le sagre estive e primaverili, oppure dai manifesti luttuosi: ogni tanto capitava pure di stampare anche dei libri, quasi sempre di autori locali o sconosciuti.

Il signor Rossini era un buon carattere, severo e preciso, ma corretto. Da quando ho iniziato a travagliare, quello è stato il posto migliore che abbia avuto. Mi alzavo alle 5 e non finivo prima delle 7 di sera, ma ero ben pagato e non avevo di che lagnarmi. Le mie mani rimanevano sempre macchiate di inchiostro e la cosa non mi infastidiva, anzi.

Tutto, insomma, filava per il meglio, fino a quando, un giorno iniziato come tanti, si presentò un nuovo cliente, qualcuno che sarebbe stato meglio non fosse mai venuto: un prete vestito alla maniera degli anglicani, alto e sottile, sulla quarantina, la fronte altissima con pochi capelli e la carnagione giallognola di uno che soffriva di fegato. Nei suoi occhi brillava qualcosa di sinistro e truce.

Il prete era così alto che quasi riempiva la stanza con la sua ombra. Parlò con una voce sottile e cantilenante. Ci consegnò delle pagine sgualcite e sciupate piene di incisioni e disegni. Ci spiegò che erano le pagine di un antico testo religioso considerato perduto. Voleva che ne stampassimo una copia per lui, così da non sciupare ulteriormente i fogli originali.

Il signor Rossini si accordò col religioso e questi raccomandò affinché avessimo la massima cura nel maneggiare il reperto. Infine, prima di uscire, si lasciò andare a una strana preghiera, e cioè che nessuno di noi leggesse, anche solo distrattamente, il contenuto delle pagine.

Rassicurato anche su quello, il religioso ci lasciò e fu come se la luce tornasse nella stanza. Il signor Rossini ironizzò un pochino sul quello strano cliente; inoltre lui era ben introdotto nel mondo religioso di PonteTremulo e quel sacerdote non l’aveva proprio mai visto.

Tornammo al lavoro. Verso sera chiesi al mio padrone se avessi dovuto occuparmi dei fogli del prete, ma lui preferì che sbrigassi una serie di consegne urgenti. Del nuovo lavoro se ne sarebbe occupato lui durante il fine settimana, tanto, con la famiglia non aveva in programma di muoversi.

Arrivati alla sera e finito il mio carico di consegne, salutai il principale e ci demmo appuntamento per il lunedì successivo.

Passai le mie due giornate di riposo con la morosa, facendo lunghi e rilassanti giri in moto.

La mattina di lunedì ritornai alla tipografia. Era l’alba e il signor Rossini, contrariamente alle sue abitudini, non era ancora arrivato. Senza starci troppo a pensare, inizia a sbrigare i miei compiti, rilegando alcuni opuscoli informativi dell’Ente Montano.

Verso le sette, cominciai a impensierirmi, ed ero sul punto di telefonare all’abitazione privata del padrone, col rischio di svegliare la sua dolcissima signora e uno (o tutti) dei suoi sette figlioli, quando il signor Rossini fece il suo ingresso nello stanzone. Sul subito credetti fosse rimasto vittima di un gravissimo incidente, o magari fosse finito sotto le ruote del tram o che fosse stato preso a randellate dai malandrini, in quanto il suo aspetto era veramente pauroso: sudaticcio, con gli occhi febbricitanti e gli abiti stropicciati, in certi punti infangati indecorosamente per uno come lui che si piccava alquanto sul decoro e la decenza. Non feci tempo a riprendermi che il mio padrone mi afferrò saldamente per un gomito, costringendomi a interrompere le mie faccende, e mi obbligò a sedere e rimanere ad ascoltarlo, in balia di un discorso senza senso, delirante al punto da farmi temere per la sua salute mentale.

Disse che durante il fine settimana, tra un pranzo domenicale e la cura dei nipotini, s’era messo all’opera sopra ai fogli del prete. Nello sfogliare quei fragili fili di parole, era rimasto attratto dai numerosi disegni, eseguiti con una perizia artistica fuori dal comune. Le pagine erano scritte in latino, lingua che Rossini conosceva benissimo, avendo studiato in un collegio religioso a Parania.

I fogli venivano (o sembravano venire) da un antico grimorio scritto intorno al ’700 d.C. da un poeta yemenita, tale Abdul Alhazred. Il titolo originale arabo era “Al Azif”, parola usata per indicare il rumore notturno degli insetti, o forse dei demoni, o così mi riferì. Nel 950 d.C. il testo fu tradotto in greco da Teodoro Fileta di Costantinopoli, il quale diede un nuovo titolo: “Necronomicon”. Successivamente il volume sparì dalla circolazione per riaffiorare nel 1228 nelle mani di Olaus Wormius che ne fece una traduzione latina. Il libro venne anche stampato nel XV e XVII secolo in Spagna, tuttavia, Papa Gregorio IX mise il grimorio all’indice e sia l’originale arabo che quello greco si obliarono. Solo la copia latina continuò a circolare di contrabbando, pare a quotazioni altissime. Tra il 1500 e il 1550 ne fu stampata una copia in Italia, tradotta nella lingua di Dante da Giulio Camillo Delminio, letterato ed esoterista rinascimentale. Una traduzione inglese fu tentata da John Dee e mai stampata.

Il signor Rossini mi riversò addosso tutte queste informazioni e continuò dicendo che, nell’apprendere la rarità del testo che aveva tra le mani, s’era infiammato di una strana curiosità bibliografica, quasi una malattia che l’aveva spinto a cercare ulteriori informazioni sull’opera.

Così, nel pomeriggio di domenica, complice un sacrestano indebitato con lui per un vecchio gioco di carte, s’era fatto aprire la biblioteca privata della diocesi vescovile. Sul Necronomicon trovò vari articoli di cronaca ritagliati da vari giornali di lingua inglese e selezionati in una cartellina riguardante la storia dei libri più pericolosi messi all’indice dalla Chiesa di Roma. Lesse che attorno al libro erano fioriti una strana serie di episodi allarmanti.

In America, nel Rhode Island, uno scultore di nome Henry Anthony Wilcox era impazzito dopo aver lavorato a una scultura che sembrava raffigurare uno strano dio antropomorfo di cui parlava il libro.

A Parigi, nel 1926, un pittore visionario, Ardois Bonnot, aveva esposto un dipinto, “Paesaggio Blasfemo”, ispirato agli strani mondi narrati dal Necronomicon.

Nel 1908, sempre in America, in Louisiana, s’erano verificati vari incidenti tra la polizia e dei primitivi che vivevano nelle paludi e adoravano una statuetta identica a quella che poi Wilcox aveva scolpito.

In sostanza, il Necronomicon era un testo di teofania antropologica che invitava all’adorazione di strane divinità pagane, esseri immondi e deformi chiamati “Grandi Antichi” morti milioni di anni prima che nascesse la civiltà umana, ma che, secondo il dettato del libro, sarebbero resuscitati quando certe stelle sarebbero tornate nella giusta posizione lungo il ciclo dell’eternità.

Allora il mondo sarebbe sprofondato in un olocausto di estasi e licenza.

Rossini scoprì un’ulteriore serie di articoli che testimoniavano la fede che numerosi individui avevano nutrito in quella nuova fede. In varie parti del mondo era nato, tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, una setta, denominata “Saggezza Stellare”, collegata alla misteriosa sparizione di varie persone, specialmente bambini. Della setta facevano parte insospettabili come professori universitari, politici, industriali e perfino religiosi. Si parlava di sacrifici umani per accelerare l’avvento delle blasfeme divinità.

Nel rievocare quelle scoperte, gli occhi del mio padrone brillavano magnetici, abitati da una febbre di delirio che sembrava pronta a bruciargli definitivamente il cervello. Mi ci volle parecchio per calmarlo e ricondurlo a uno stato di apatico abbandono. Comunque il mio padrone continuò a borbottare il suo racconto. Afferrai solo altri dettagli, per esempio che, per tutta la notte, era stato travolto da incubi mostruosi, visioni nitidissime che gli avevano infuocato la mente. Aveva sognato di trovarsi fuori dallo spazio e dal tempo conosciuto, solo in una solitudine che nessuna lingua riuscirebbe nemmeno a descrivere lontanamente, perduto in una vastità di metropoli ciclopiche fatte di obelischi altissimi e mura, colonne ricoperte da geroglifici intraducibili. Prima di svegliarsi, ebbe la visione di un’immenso insondabile abisso notturno in cui vorticavano mondi neri accompagnati da un monotono lamento di flauti.

Poi il mio padrone smise di borbottare e, piangendo come un bimbo, privo di pudore o vergogna per mostrarsi in quelle condizioni, mi pregò di distruggere i fogli maledetti che ci aveva consegnato il prete. Infatti, da sotto le falde del cappotto, fece uscire le carte e le scaraventò in aria, facendole ricadere sparpagliate sul pavimento dello stanzone.

Subito dopo, arrivarono i figli del padrone. Seguirono lunghi momenti penosi a cui avrei voluto mancare: vedere il signor Rossini così prostrato, ormai inabile a qualunque ragionamento sensato, stropicciato e in lacrime, coi figli disperati che gridavano al padre una spiegazione, oppure cercavano di rabbonirlo, trattenendo a loro volta, amare lacrime di dolore, mi lasciò un seno profondo di amarezza. Quando riuscirono a convincere il padre a tornare a casa, Tommaso, uno dei maggiori, mi si avvicinò, raccomandando di non dire nulla sulla salute del genitore. Inoltre mi pregò di occuparmi momentaneamente della tipografia e continuare a sbrigare gli obblighi della giornata, sicuro che così avrebbe voluto suo padre.

Naturalmente mi affrettai a rassicurarlo. Dovevo molto al padrone e anche loro potevano contare sulla mia discrezione. Tommaso mi abbracciò commosso e se ne andò.

Rimasto solo nello stanzone della tipografia, impiegai un lungo tempo prima di riprendermi. Ero preoccupato per la salute del principale e, in una certa maniera, per il mio futuro lavorativo. Non volevo perdere quel lavoro, non volevo che la tipografia chiudesse, ma se il signor Rossini non si fosse ripreso, difficilmente i figli, già occupati in altro, avrebbero rilevato quella attività.

Cercai di distrarmi. Per prima cosa raccolsi i fogli maledetti, colpevoli del grave stato di demenza del principale. Avrei voluto strapparli, così come mi era stato implorato, tuttavia decisi di nasconderli in un baule e dimenticarli finché non fosse venuto il legittimo proprietario a reclamarli. A quel punto lo avrei pregato di riprenderli, di portarseli via e chiedere a qualcun altro.

Fu così che, per il resto della giornata, me ne dimenticai.

Verso l’ora di chiusura, sentii dei passi che salivano le scale. Avevo appena finito di cambiarmi e speravo si trattasse di uno dei figli del padrone, latore di buone notizie sulla salute dell’uomo. Invece un’ombra gigantesca assorbì la luce della stanza. Il prete senza nome era sulla soglia e mi fissava col suo sguardo cattivo e lupesco. Le labbra sottili si muovevano appena, come se pregustassero qualcosa. Senza indugi mi domandò del libro e io impiegai parecchio per rispondergli. Non riuscivo a nascondere un ingiustificato tremolio della voce.

Dissi che il libro non era pronto e che non lo sarebbe mai stato. Chissà perché, ma decisi di mentirgli. Nel rivedere quella figura provai un forte senso di rabbia: dopotutto era stato lui a portarci le pagine che avevano così impressionato il padrone. Se lui s’era ammalato era solo colpa del prete. Se avessi perso quel lavoro, sarebbe stato solo e esclusivamente colpa del religioso.

Gli dissi che, a causa, di una spiacevole disattenzione, le pagine che ci aveva affidato, erano andate perdute e che doveva farsene una ragione. Poi, incapace di fermare l’onda dilagante dell’ira, ironizzai sul fatto che non avrebbe nemmeno dovuto rimostrarsi sulla perdita di quel testo, in quanto un uomo di chiesa non avrebbe nemmeno dovuto entrarne in possesso. Lui mi ascoltò paziente, poi scrollò appena il capo, quasi divertito, infine sollevò una mano e con un lungo dito ossuto, quasi spolpato dalla carne, indicò il baule alle mie spalle.

Quel che accadde dopo fu veloce e osceno e tremo al solo pensiero di dover ripercorrere quegli attimi allucinanti.

Io indietreggiai verso la parete e lui avanzò, torreggiando nella stanza. Al suo passaggio, l’aria dietro di lui si riempiva di un intricata rete di ombre. Mi accorsi che i suoi passi avevano un che di goffo e producevano un suono viscoso. Un lezzo disgustoso di terra putrefatta si liberò da lui. Nel vederlo avvicinarsi notai delle chiazze giallognole appena sopra il collo. In un disperato tentativo di fuga, mi gettai alla destra del prete e provai a guadagnare l’uscita.  Intanto un urlo strozzato mi scappava dalla gola. Il prete allungò un braccio per afferrarmi, ma non ci riuscì. Sfortunatamente lo urtai con una mano, col risultato di impigliarmi in uno dei bottoni dell’abito e squarciarlo sul davanti.

Ciò che vidi sotto al mantello nero avrebbe annullato di colpo la ragione dell’uomo più razionale e logico del mondo. Ancora adesso, nello scrivere queste memorie, ho fatica a contenere il tremore della mano e i miei nervi sono accavallati dalla paura. Più volte devo interrompermi per voltarmi indietro e scrutare col debole bagliore della lanterna i bordi appena ombreggiati della stanza. Devo fare appello a quel briciolo di vita rimasta per descrivere l’ultima visione. Non posso appellarmi ad altro. Non al conforto della religione, non al conforto della scienza. Ora so che tutto quello che ci impartiscono fin dalla più tenera età è una farsa, un modo per tenerci buoni, operosi e distratti. E’ meglio non sapere, continuare a vivere nell’oblio della stupidità, piuttosto che sbirciare oltre il velo squarciato della finzione.

Ecco quel che vidi oltre quel velo.

Dalla vita in giù il sacerdote era una parvenza umana, un incubo sfrenato ricoperto da una folta pelliccia nera da cui partivano come dei tentacoli flessibili grigiastri dotati di ventose rosse, o vesciche purulenti, e così erano gli arti inferiori, appendici increspate di vene e artigli imparagonabili con altri animali del Creato. Prima di svenire, vidi il volto del prete stravolgersi in un urlo disumano e scagliarsi sul baule.

Quando mi risvegliai ero in un letto dell’Ospedale Maggiore, attorniato da infermiere e dottori che cercavano di calmare le mie grida strazianti e, per quanto mi affannassi a strillare, loro non ebbero altro giudizio che infilarmi in una camicia di forza. Nella lotta che seguì scorsi solo che, in un letto lì accanto, giaceva una lontana parvenza umana infagottata sotto le coperte e privata della ragione.

Era la cara figura del tipografo Rossini!

Davide Rosso