QUANDO IN TV C’ERA IL GIALLO: FENOMENOLOGIA DELLE DETECTION STORY TELEVISIVE (E LETTERARIE) DEGLI ANNI SESSANTA E SETTANTA

Il teleromanzo fa la sua comparsa già nei Sessanta, divenendo in breve un genere di grande successo; i primi eroi ad imporsi attraverso una serialità intelligente sono Sheridan (detective bogartiano nell’abbigliamento ma italianissimo nelle penne, ossia quelle di Ciambricco-Casacci-Rossi), il Nero Wolfe di Buazzelli e il Maigret di Cervi.

Tuttavia è verso la fine del decennio che la RAI investe su sceneggiati originali, privati dalla figura ingombrante di un protagonista ritornante. Il primo è il MELISSA di Daniele D’Anza, interpretato nel 1966 da Rossano Brazzi, Massimo Serato, Franco Volpi e pezzi da 90 come Aroldo Tieri e Turi Ferro. La sceneggiatura è ricavata da uno script originale di Francis Durbridge, autore di mystery da cui la Rai ricaverà gran parte dei suoi sceneggiati storici. Durbridge non ha l’elegante astrazione di una Christie o la pedanteria logica di un Conan Doyle; i suoi intrecci sono complessi (e confusi) e richiamano la sconclusionatezza programmatica delle trame di Chandler. Ma l’autore inglese è privo del genio loquace dell’americano; Durbridge è uno scrittore mediocre e ripetitivo che serve solamente ai registi e sceneggiatori italiani (D’Anza e Biagio Proietti in primis) per costruire dei prodotti culturali di largo consumo, ben girati, scritti e interpretati da Dio. Le ambientazioni sono quasi sempre straniere (esotismo imperante del periodo che ritroviamo anche nei fumetti o nei romanzi dei Settanta italiani, salvo rarissime eccezioni autoriali e penso a Piero Chiara o F&L), spesso inglesi, concentrate sulla middle class londinese, all’apparenza popolata da persone per bene, ricchi borghesi e lavoratori integerrimi; sotto però covano le ceneri del rancore, dell’avidità umana e della stravaganza erotica di certe figure femminili, vere dark ladies ricopiate dalla mano stilizzata di Hammett.

MELISSA non fa eccezione, e scrive le regole per gli sceneggiati futuri. Un delitto d’apertura, un colpevole servito su un piatto d’argento e tanti dettagli, indizi a infittire il puro intreccio della scrittura. Gli attori (e la regia, oltre che le bellissime scenografie in studio) supportano benissimo il tutto e sciorinano battute lunghissime, diluite nelle ore complessive dello sceneggiato. Il tempo della scrittura, è bene ricordarlo, in questi lavori teleromanzati è differente rispetto a quello del cinema; nel teleromanzo (specialmente in questi) il ritmo, pur essendo ben congegnato e avvincente, è lento e ricco di elementi superflui, volutamente inseriti per costruire un’atmosfera, un universo narrativo convincente e ben tratteggiato.

Il successo enorme di MELISSA porta la RAI al suo quasi remake, CORALBA, sempre con D’Anza alla regia e Brazzi nel ruolo del sospettato n.1. Le differenze stanno nel colore e nel commissario Lang, il cui volto è quello di un immenso Glauco Mauri, attore capace di disegnare un commissario privo di stereotipi, abitato da umanissimi dubbi riguardo l’eticità profonda della propria professione di detective. Per il resto il plot si dipana in una Amburgo da crime novel.

Nel 1970, Leonardo Cortese, autore di molti Sheridan, porta sul piccolo schermo UN CERTO HARRY BRENT, sempre un Durbridge infarcito di delitti, spy story, complotti e segreti in un piccolo sobborgo londinese. Tra gli interpreti figura uno dei volti più noti del periodo, ossia Alberto Lupo. Con lui un magnifico Roberto Herlitzka e una conturbante Valeria Fabrizi. Il ritmo è più sostenuto rispetto al teatro da camera di MELISSA, le scene sono più veloci, i dialoghi serrati e i morti ammazzati aumentano.

Ovviamente il tutto ha un successo pazzesco e già l’anno successivo Alberto Lupo viene richiamato da Silverio Blasi per COME UN URAGANO, altro Durbridge cucito sulle facce di Delia Boccardo, Corrado Pani, Renato De Carmine e di una conturbante Adriana Asti. COME UN URAGANO sembra inoltre guardare, oltre che alla tradizione consolidata dello sceneggiato italiano, anche alla moda dei thrilling, popolando le scene con una magione abbandonata, delitti a catena e le musiche illimitate (e riciclate) di Bruno Nicolai.

Nel 1973 sarà la volta di LUNGO IL FIUME E SULL’ACQUA, forse lo sceneggiato di maggior successo del decennio, arricchito da una canzone/sigla di rara bellezza e placida malinconia (Vincent di Don McLean). LUNGO IL FIUME ha tutti i vizi e i difetti della scrittura di Durbridge, tuttavia l’adattamento di Biagio Proietti fluidifica, beneficiando le interpretazioni in stato di grazia di Sergio Fantoni (qui al suo apice) e del trio inarrivabile costituito da Giampiero Albertini, Renato De Carmine e Daniele Formica, che, con le loro indagini condotte dal tinello di casa tra pane imburrato e caffè, apportano un lato umanissimo e malinconico sconosciuto nei precedenti lavori televisivi. Inoltre alla regia c’è Alberto Negrin, regista abilissimo a incorniciare i personaggi dentro una regia fumettosa e sempre in movimento, in forte contrasto stilistico con i più teatrali D’Anza e Bolchi; anche Negrin colorerà molte situazioni di LUNGO IL FIUME coi toni del thilling, in special modo la scena del ritrovamento del cadavere di Nicoletta Macchiavelli nella diga, scena peraltro ripresa dallo stesso regista nel suo magnifico ENIGMA ROSSO, di poco successivo.

A questo punto occorre fare una breve pausa e volgere lo sguardo altrove, verso la narrativa. Il passaggio dai Sessanta e Settanta, in Italia, ha visto molte novità editoriali interessanti. L’apertura verso una nuova società di massa, respirabile anche per un misero figlio di operaio, ha portato a nuove forme narrative di rottura che hanno saputo conciliare l’alto e il basso, aprirsi verso nuovi orizzonti di ricerca. Penso al Gruppo ’63, alle collane editoriali per un target giovane volute da Feltrinelli, alla prosa di Arbasino, agli esperimenti civili di Balestrini o agli studi culturali di Eco. Anche il giallo finisce per diventare, da fenomeno di consumo senza alcuna importanza culturale, un oggetto critico capace di mettere in gioco una lettura critica della società italiana percorsa da occasioni economiche prima sconosciute, ma anche da tentazioni corruttive nuove. Il tessuto sociale si popola di figure ambigue e corrotte prodotte proprio dalla tumultuosa trasformazione economica del dopo guerra; film come 6 DONNE PER L’ASSASSINO di quel genio di Bava già captano le possibilità metafisiche del giallo, mettendo in scena una middle class moderna e metropolitana incapace di dirigere moralmente e professionalmente la ricchezza del Boom per costruire una società giusta; le iene di Bava calpestano tutto e si ammazzano per pochi spiccioli pur di partecipare alla grande abbuffata del consumismo.

Ed è su queste intuizioni che molti autori iniziano a guardare con interesse al giallo. Penso soprattutto a uno scrittore provinciale come Piero Chiara e al suo I GIOVEDì DELLA SIGNORA GIULIA, dapprima apparso, in una sua prima versione a puntate, nel 1962 su un quotidiano, poi raccolto e rivisto per l’edizione in volume della Mondadori nel 1970, a ridosso della messa in onda dello sceneggiato omonimo (altro capolavoro inarrivabile) diretto da Paolo Nuzzi e da Massimo Scaglione. Il romanzo di Chiara coglie perfettamente i sedimenti tematici di Bava e ne recupera tutta la carica di humor nero corrosivo. La provincia di Chiara è popolata da uomini doppi, menzogneri, psicopatici mascherati da probi padri di famiglia. L’avvocato Esengrini è un robot senza cuore ma con moltissima intelligenza e la prova attoriale di Claudio Gora renderà piena giustizia alla prosa chiariana. I GIOVEDì (sceneggiato e romanzo) sono uno dei punti più alto del giallo italiano degli anni Settanta, una sorta di Lady in the Lake di Chandler virato in piccolo, asciugato da ogni distrazione pulp e ristretto in uno schema poliziesco che è gia un legal thriller alla Grisham giocato questa volta sulla valorizzazione del paesaggio italiano.

Sull’esempio colto di Chiara si lanceranno due intellettuali di peso come Carlo Fruttero e Franco Lucentini, coi loro romanzi fortunatissimi e brillanti (di cui cinema e televisione si ricorderanno), vera summa/sintesi delle prove precedenti, degli sceneggiati e della scrittura “nuova” del Gruppo ’63. F&L riempiranno i loro romanzi coi tratti caratterizzanti dei Settanta e Ottanta, descrivendo i mutamenti antropologici ed economici del Bel Paese, intessendo i loro plot con dialoghi frizzanti e sperimentali che ricorderanno da vicino il chiacchiericcio semiotico di Arbasino o di certo Sanguineti. Lo stesso Eco, al giallo, dedicherà quel capolavoro del NOME DELLA ROSA.

Intanto gli sceneggiati proseguiranno, con o senza Durbridge: HO INCONTRATO UN’OMBRA, il PHILO VANCE col volto di Albertazzi (autore di un raffinatissimo gotico teleromanzato come JEKYLL), DOV’E’ ANNA?, DIMENTICARE LISA, TRAFFICO DI ARMI SUL GOLFO.

In anni più recenti, prima di morire, Piero Chiara tornerà al giallo, col suo bellissimo libro SALUTI NOTTURNI DAL PASSO DELLA CISA, quasi un remake della signora Giulia; ancora una volta lo scrittore di Luino disegnerà un affresco provinciale contaminato da un delitto/mistero insolubile (come già in Gadda) commentato dal vocio della gente o dai freddi codici legali di un processo indiziario che non arriverà a nulla.

Anche il solo Fruttero, dopo la morte di Lucentini, licenzierà un ultimo romanzo, a mio avviso il suo più bello, ossia DONNE INFORMATE SUI FATTI, giallo vercellese (a me carissimo, essendo appunto vercellese) su una puttana rumena ammazzata. La detection è affidata a una ridda di voci femminili e isteriche che si limitano a commentare dentro le loro teste l’accaduto, prospettando, come nella prosa chiariana, tutte le verità possibili, sciogliendo l’intreccio in un universo semiotico/caotico leggerissimo e leggibilissimo.

Segnalerei anche il giallo di uno scrittore di valore come Giuseppe Ferrandino, ROSMUNDA L’INGLESE, o il recentissimo IL TUTTOMIO di Camilleri, libro scorrevolissimo che inscena un fataccio di cronaca (i Casati Stampa) riletto, nelle ultime formidabili pagine, come un gotico (porno) della mente.

Sugli sceneggiati, negli anni recenti, invece, non è pervenuto (e non perverrà) niente. Le belle menti della nazione sono morte. A noi rimane solo l’ignoranza, l’inciviltà e… Renzie.

Davide Rosso