LA PECORA

Ho una laurea in economia e sistemi complessi e parlo tre lingue, francese, inglese, spagnolo; ho studiato all’estero, ho svolto stage, ho un curriculum perfetto e lo mando a decine di società, senza ricevere neppure un “no, grazie”. Vivo a Milano e pagare l’affitto è come fare un mutuo. Provo nel settore commerciale, lavoricchio due anni con contratti sempre a progetto, infine trovo un’azienda che sembra voglia valorizzarmi. Mi fanno i complimenti, allora spero in un contratto a tempo determinato, ma loro inventano una scusa dietro l’altra, poi dicono che io scrivo sulla mia pagina di Facebook cose negative su di loro e non mi rinnovano il contratto. Disperata provo con dei supermercati. Mi chiamano ma, durante il colloquio, fatto da uno dieci anni più giovane di me, dicono che sono troppo specializzata per quel posto e che sono troppo vecchia, inoltre temono che potrei rimanere incinta. A quel punto non posso più rimanere a Milano.

E’ quasi estate e la mia famiglia è in vacanza in Lunigiana. Io li raggiungo, ciò nondimeno sono troppo inquieta e incazzata e non voglio che i miei si preoccupino per me. Arriva la telefonata di uno zio, zio Ginetto, un fratello di mio padre. Lui è sindaco di un paese lì vicino e non ci vediamo da quando sono piccolina. Lo zio mi invita a passare una settimana da lui. A Lusino. Io accetto volentieri, preparo lo zaino e prendo il treno.

Lusino, borgo abbarbicato sui crinali, impastato di storiografici ruderi e casupole di pietra e miseria, ovunque stemmi, portali con mezzelune e testine antropomorfe incistate nella roccia e ancora remota campagna, liane, florilegio di parassiti, sottobosco regno notturno di cinghiali e volpi, insomma libertà assoluta. Qui potrò rigenerarmi.

Zio Ginetto è apprensivo e amorevole. Lui e la sua famiglia, i miei cugini, mi ricoprono di attenzioni. I primi giorni passano tranquilli, segnati dall’Angelus e dalle donne che raccolgono l’acqua alla fonte nel bosco con la secchia. Nelle aie delle case i bimbi giocano agli sbirri o fanno soldatini con la valva del papavero e le galline si affannano a razzolare briciole. Nell’umido compatto delle cantine crescono otri di buon vino e salumi appesi a dei ganci. Questa è Lusino. Questa è la vita a Lusino. Qui dimentico chi sono, i miei affanni, il mondo lontano dei traffici e dei curriculum. Il mondo spietato del lavoro. Tanto la mia generazione di giovani non più giovani è segnata. E se ripartissimo da qui. E se tornassimo nelle campagne abbandonate dai nostri nonni?

Poi, anche qui, arriva il male.

Capitano cose brutte.

Potrei partire, tornare dai miei e lasciare soli gli zii, eppure non me la sento. Rimarrò finché tutto non sarà risolto. Ho paura per la sorte degli zii e dei cugini. Ho paura per me. Di cosa parlo? Nel paese è nata una pecora nera, tutta nera da cima a fondo e il contadino che la possiede è felice perché potrà vendere bene la lana affinché la si utilizzi per confezionare abiti da lutto. L’animale però, da subito, dimostra di avere un brutto carattere, è selvatico, ha l’abitudine di mordere le altre pecore, non ha paura dei cani. Intanto muore della gente, e le vecchie confezionano gli abiti dei morti con la lana nera.

Un giorno, l’animale viene abbattuto perché si avventa contro un bimbo e quasi lo uccide. Qualche tempo dopo la morte della bestia, inizia una moria generale a Lusino. Fu dopo la morte del bracciante Nadotti che cominciò l’orrore.

La sera dopo che la sua salma (anch’essa vestita con la lana nera della pecora, lana di cui l’animale, nonostante la sua dipartita, aveva lasciato una così gran mole da vestirci tutto il paese) fu calata con delle funi nella nuda terra del camposanto, e la lapide fu fatta scivolare al suo posto, la vedova riferì di aver vissuto (o sognato?) un fatto stranissimo: riferì di aver visto qualcosa che si muoveva ai piedi del letto dopo la mezzanotte, ma sul subito non riusciva a distinguere bene. Infine vide che era il morto, Nadotti, pallido, con l’abito nero. L’uomo continuò a andare avanti indietro ai piedi del letto come un lupo affamato. La povera moglie non riuscì neppure a muovere un dito, tant’era spaventata. Nelle tenebre, distingueva appena il pallore del morto e i suoi occhi rossi di brace. Poi quello balzò agile sul letto e i suoi occhi rossi si avvicinarono al viso della moglie, tanto che questa sentì un improvviso dolore acuto, come se dei grossi aghi le penetrassero nel petto. Allora si svegliò con un grido. La cosa strana fu che nei giorni seguenti, la donna cominciò a deperire e, nel volgere di una settimana, morì. La medesima faccenda, fin nei particolari, capitò ad altri del borgo: ognuno vedeva un parente morto di recente che veniva a trovarli camminando ai piedi del letto per poi balzarci sopra. Tutti provavano la terribile sensazione degli aghi nel petto. Passava altro tempo e anche loro, i visitati, deperivano fino alla morte. I pochi rimasti, ormai in preda alla follia, si rivolsero alla saggezza di mio zio, Ginetto Calcaprina, uomo posato e gentile, che sempre aveva vissuto per il bene comune del borgo. Lui subito sottopose la faccenda al medico, ma la gente continuava a ricevere le visite di mezzanotte e poi morire.

Non ricordo chi, ma a qualcuno venne la vaghezza di notare che tutti i morti che si diceva tornassero dall’oltretomba per visitare i vivi, erano stati a loro tempo seppelliti con abiti di lana nera confezionati dal manto della pecora rabbiosa. In preda a un’isteria collettiva, si decise di andare nel bosco e scavare nel punto in cui ci si ricordava fosse stata seppellita la bestia e infatti trovammo la terra impregnata come di una colla nera e vischiosa ricolma di vermi osceni. Subito lo zio decise di far venire una vecchia fattucchiera da Faltignana. La donna non ebbe dubbi: la pecora nera era una delle incarnazioni del demonio e i morti vestiti con la sua lana erano diventati degli indemoniati. La striona radunò i pochi rimasti nella piccola chiesa del paese. Fece accendere molti ceri a S. Biagio e alla Madonna, poi, con dei rametti di scopa bagnati nell’acquasantiera, segnò la fronte di tutti noi per tre volte con segni di croce, dopo di che ordinò di bruciare tutte le foglie usate per la segnatura e recitò in dialetto una formula. Infine soffiò sulle candele. Dopo la seguimmo fino al camposanto. Qui la vecchia ordinò che si scoprissero le sepolture di tutti quelli che erano stati vestiti dalla pecora. Ogni uomo ancora prestante, persino alcuni bimbi, e noi donne, ci prestammo alle vanghe e c’ammazzammo di fatica per disseppellire i corpi. Allora il becchino di Lusino lavorò per schiodare le bare e tutti si sorpresero di non sentire una puzza terribile. Alla fine scoperchiò un bel po’ di cadaveri in buone condizioni, senza la più lieve traccia di putrefazione; tutti erano freschi, con barbe, capelli, unghie cresciute e un colorito avorio. Non senza meraviglie notammo che le labbra dei morti erano vermiglie e alcuni avevano come sangue fresco che, secondo l’opinione generale, era stato succhiato dalle persone deperite. Tutti i presenti, senza indugiare oltre, piantarono dei chiodi nella fronte dei propri morti e questi sanguinarono dagli occhi e dal naso, allagando le bare. Poi il macellaio tagliò loro la testa e rigirò i corpi supini con le gambe legate da cordoni di canapa. La vecchia strega gettò dentro le fosse denti di rosa e tutti ci facemmo il segno della croce.

Fu così che l’epidemia a Lusino finì. Prima di partire, mio zio mi pregò di scrivere questo breve resoconto da affiggere alla Madonna del Gaggio, perché la malattia è andata in fondo al mare e noi facciamo voto a Lei, affinché, col suo nome, ci rimandi la salute e il lavoro.

Davide Rosso