IL PULLMAN DELLE ANIME

Hans non vedeva nulla: inizialmente le sue palpebre intorpidite e i suoi occhi pesanti erano serrati, come se fossero pieni di sabbia e solamente dopo qualche breve istante si rese conto che erano aperti, vigili ma inefficienti. Neanche le sue orecchie rispondevano al loro dovere: sembravano essere riempite con dell’ovatta. Questa sensazione durò per qualche istante, attimi estremamente lunghi, finché, piano piano, qualche piccolo rumore cominciò ad essere percepito. Hans aguzzava l’udito, concentrandosi su quella nenia che sembrava essere cantilenata intorno a lui, poi iniziò a vedere dei bagliori dorati, che mano a mano diventarono più nitidi, finché il ragazzo non si rese conto di essere nell’angolo dietro la tenda del salotto di sua madre. L’atmosfera era calda, come sempre, ma non altrettanto accogliente: Hans percepiva intorno a sé tristezza e costernazione e sentiva che qualcuno piangeva, chi in silenzio chi singhiozzando apertamente.

Perché si trovava nascosto dietro la tenda di sua madre? Ricordava quando lei l’aveva acquistata e quando suo padre l’aveva montata; gli era stato imposto di non toccarla mai e l’esserci nascosto dietro non sembrava per niente un atteggiamento da tenersi. Pensava a cosa gli avrebbe detto sua madre se l’avesse trovato lì: probabilmente l’avrebbe mandato in camera sua fino all’ora di cena e gli avrebbe tolto tutti i fumetti. Ma chi aveva voglia di rischiare di imbattersi in una delle punizioni della mamma? Hans scostò la tenda e, quando vide il catafalco aperto in mezzo alla sala, circondato di rose gialle, da persone sedute a piangere e a recitare il Rosario, si spaventò. Che fosse morto il nonno? Non se lo ricordava. Controllò ancora una volta la sala in cui si trovava ma era proprio il salotto di sua madre. Nessuno sembrava badare a lui, neanche lei, seduta dall’altro lato del salone con gli occhi fissi sul pavimento e lo sguardo perso. Hans provò a chiamarla, le si avvicinò ma niente, la donna non si voltava. Come preso da una curiosità irrefrenabile, Hans si avvicinò alla bara aperta; in mezzo al raso bianco, il piccolo corpicino di un bambino di nove anni se ne stava disteso con gli occhi sbarrati. Hans urlò, quel bambino era lui.

In preda a mille emozioni, Hans prese a correre per il salone e si lanciò dalla finestra, passandoci attraverso; nello stesso istante, le porte sbatterono e il rumore sordo risvegliò dallo stato catalettico sua madre, che si alzò dalla sedia e andò a controllare che fosse tutto in ordine. Il piccolo fantasma di Hans piangeva, per quanto fosse possibile, e vagava per il centro storico vuoto e buio e umido. Osservava le case, le facciate, le strade, consapevole che quelle cose non avrebbero più fatto parte della sua vita, che era ormai finita. Si domandava cosa facesse lui in giro così, si ricordava che al catechismo gli avevano spiegato che quando si muore per l’anima ci sono due destinazioni, o il paradiso o l’inferno. Il piccolo Hans rabbrividì. Si ritrovò accanto alla pensilina dove suo fratello maggiore aspettava il pullman per andare a scuola. Si sedette pensando a tutto e a niente e le sue riflessioni non erano di certo spensierate come quelle dei bambini della sua età. Ad un tratto un rumore assordante attirò la sua attenzione: si voltò e vide arrivare verso di lui un autobus troppo verde, che si fermò proprio davanti a lui. L’ingresso si aprì e un essere dalla barba lunghissima e grigia invitò Hans a salire sul pullman.

- Avanti! – sibilò l’essere, facendo vibrare l’unico dente che aveva ancora in bocca. Hans era titubante. Non che potesse capitargli niente di peggio della morte, ma era vivo in lui il ricordo dell’ammonimento della madre: non si sale in auto con gli sconosciuti. Pedro, l’autista, alzò gli occhi al cielo, tirò il freno a mano, scese dall’autobus e con forza prese il bambino, catapultandolo su uno dei sedili. Poi riprese il suo posto, tolse il freno a mano, ingranò la prima e ricominciò la sua corsa. Hans era spaventato. Si voltò cercando di capire se era da solo o se con lui c’erano altri viaggiatori. Eccoli lì, gli altri: una donna che fumava usando uno strano bocchino, con grandi occhiali scuri che nascondevano a malapena le occhiaie che marcavano il suo volto, le unghie lunghe e laccate delle dita nodose, i capelli grigiastri raccolti sulla nuca; un’altra ragazza, con un abitino rosso a fiori bianchi e le calze dello stesso colore tirate fino al ginocchio, le scarpe di vernice lucidissime e uno sguardo agitato, anche se parzialmente nascosto dalla frangetta. Un uomo seduto accanto ad un finestrino osservava la strada; la camicia di jeans era slavata in più punti, perché aveva tentato di smacchiare le tracce di sangue delle sue vittime.

- Hans, sai dove ti porta questo mezzo? – chiese l’autista. Il bambino rabbrividì. Come faceva a sapere il suo nome?

- No – rispose con un fil di voce. Sebbene fosse morto questa non sembrava essere cambiata.

- Finché tu e gli altri tuoi compagni di viaggio non avete detto perché siete qui, io non posso farvi scendere. Quando vi farò scendere sarà per lasciarvi davanti alle Cancellate, dove vi diranno cosa fare- spiegò Pedro. Sputò fuori dal finestrino, la strada che percorreva sembrava infinita.

- Non avere paura, ragazzino. Non te l’aveva mai spiegato nessuno che è così che finisce la vita di ogni mortale che sta sulla terra? Io sono anni che viaggio sui pullman per espiare il mio tremendo peccato – disse la donna dagli occhiali pesanti. Picchiettò le unghie laccate sul vetro della finestra e sospirò. – Mi chiamo Arnette e sono qui perché una sera, mentre ero in preda ai fumi dell’alcol, ho ucciso il mio figliolo, Gregory. Era speciale, il mio Greg. Non sapeva né leggere né scrivere, era bloccato in un letto da quando una brutta malattia da bambino gli aveva tolto ogni forza. Non poteva parlarmi, non era capace di mangiare da solo, non poteva andare in bagno per conto suo. I medici mi avevano detto che avrebbe smesso anche di respirare e che la sua morte sarebbe stata lenta e molto dolorosa. Lo osservavo dalla mia poltrona, quella sera. C’eravamo solo io e lui. Lui dormiva, sembrava così tranquillo, il mio ragazzone. Il liquido trasparenti nel bicchiere bruciava in bocca e in gola, sembrava l’unica cosa buona nella mia vita. E’ stata la vodka a suggerirmi di fare quello che ho fatto, a velocizzare i tempi della dipartita del mio Greg. Un po’ storta, mi sono alzata dalla poltrona, ho preso un cuscino e gliel’ho premuto sul volto, finché il mio bambino non se n’è andato, sorridendomi. Realizzai in quel momento cosa avevo fatto e l’unica risposta che mi venne in mente fu di scendere in cantina con una corda e appendermi al tubo.

Hans ascoltava in silenzio, lui ancora non ricordava cosa gli fosse capitato. Le domandò se era successo tanto tempo prima e la donna annuì, poi continuò:

- Non so che anno sia adesso, il mio tempo si è bloccato in quella serata di vodka e di tristezza. Era il 1963.

Ci fu di nuovo silenzio. Il pullman correva a più non posso per strade che Hans non riusciva a riconoscere e l’assordante stridore dei freni gli ricordava che i suoi sensi erano ancora vivi, benché fosse un fantasma. Si voltò verso la ragazza dalla frangia lunga. Era più semplice guardare un altro spirito che guardare quello che rimaneva di se stesso.

- Io mi chiamo Odette e sono qui dal 1975, avevo quattordici anni quando mi sono buttata nel pozzo del cortile dei miei nonni. Ricordo il tonfo, l’annaspare per qualche istante, il gelo che ti prende le ossa e la vita che se ne va passandoti per la bocca. Ero una ragazzina molto triste, sapete? Tuo figlio era un triste ma non lo sapeva, io ero consapevole di quello che mi era successo e mi aveva portato a quella scelta. Era tutta colpa di mio cugino, che mi aveva rovinato quell’estate. L’aveva fatto più di una volta e quando l’ho raccontato alla nonna, lei non ha creduto a quello che dicevo. Era come sempre colpa mia. Mi diceva che ero una prostituta, un’ingrata perché Roger, mio cugino, mi voleva bene e aveva sempre fatto di tutto per proteggermi, dopo che i miei genitori mi avevano abbandonato. Non ho retto: sentivo dentro di me il rumore di qualcosa che si era spezzato, così, una sera, mentre i miei parenti se ne stavano nella veranda sulla facciata dalla parte della strada, sono andata al pozzo, mi sono tolta le scarpe e mi sono buttata. Mi hanno ripescato due giorni dopo, piangendo, disperati per la mia triste sorte, senza sapere che era tutta colpa loro. -  Odette si stringeva le mani, il suo dolore era ancora vivo come se quello che le era successo fosse capitato il giorno prima. Era davvero così, si domandava Hans: dopo anni continui a ricordare bene il momento peggiore della tua vita?

-  Miserevoli vittime, ecco chi siete voi – sibilò dai sedili posteriori l’unico viaggiatore. Il fantasma dell’uomo se ne stava seduto senza prestare troppa attenzione a quanto veniva raccontato sull’autobus, limitandosi qualche volta a borbottare improperi. – Anche il ragazzino che ho sgozzato si lagnava come state facendo voi, piangeva e mi mandava fuori di matto. Sarà stato turbato dopo che ha visto fare la stessa fine i genitori…

Il pullman inchiodò. Hans guardò dal finestrino, erano giunti ad un crocicchio. Partivano due strade identiche e, alla base del lampione che illuminava il bivio, si trovava una scrivania ed uno scheletro scriveva con una penna d’oca su una lunghissima pergamena. Accanto al calamaio un bilancino. Pedro si mise a gridare ai passeggeri di scendere dal mezzo: tutti tranne Francis, il pazzo che aveva sgozzato le sue vittime.

- Tu hai bisogno di espiare ancora – gli disse, bloccandolo con la mano. Francis andò in escandescenza, sbraitando e calciando qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. L’entrata del pullman si chiuse dietro di lui e ripartì. Arnette, Hans ed Odette stavano davanti alla scrivania dello scheletro. Il ragazzino si sentiva stanco e debole, così si sedette sul ciglio della strada, su un grosso masso. Vedeva le sue compagne di viaggio che venivano indirizzate nell’una o nell’altra via: entrambe si voltarono a guardarlo con occhi tristi, per salutarlo. Fu in quel momento che Hans ricordò cosa gli era capitato. Si era sentito male a scuola, un colpo di tosse e delle strane macchie di sangue sul grembiule. La corsa in ospedale, la febbre che lo tramortiva e la mamma, che gli teneva la mano stretta mentre il papà parlava con i dottori. Poi il buio. Era quello il momento in cui era morto. Lo scheletro lo chiamò. Dove lo avrebbe indirizzato?

Roberta Lilliu