IL FREDDO

E’ un luminoso mezzogiorno d’inverno quando riapro gli occhi nel mio sacco a pelo. Il gelo è fortissimo e l’aria mi batte il viso come un bastone nodoso. Ho le gote arrossate, la barba dura come spilli e gli occhi che brillano. Sopra di me, il sole si specchia nelle vetrine scarlatte dei negozi. E’ ora di alzarmi, far scricchiolare le mie povere giunture, spazzolare i pantaloni logori e sbattere i piedi dentro le scarpe sudice. Sono steso davanti all’ingresso di un negozio di abiti del centro. La serranda è ancora abbassata, ma mi conviene sloggiare prima che arrivi il proprietario coi suoi aiutanti. Poco lontano da me, una giovane coppia di barboni viene cacciata da una rivendita di pane. E’ tutto così naturale! Non sono certo l’unico ad aver passato un’altra notte all’addiaccio. Ad essere sopravvissuto alla morsa del gelo. Lungo i marciapiedi del corso scorgo altri disadattati alzarsi dai giacigli improvvisati e darsi lunghe scrollate, battersi le gambe e le braccia per mettere in circolo il sangue. In tempi di crisi è tutto così naturale. Noi siamo gli spettri di questa crisi e che il Signore ci protegga! Raccolgo il mio borsone e lo zaino e provo a camminare. Solitamente ho delle fitte fortissime che mi salgono dalle ginocchia. Oggi, invece, non avverto nulla. Comunque sono consapevole che se non troverò un riparo per la notte, se non riuscirò a procurarmi un lavoro qualsiasi, nel giro di una settimana sarò morto. Cammino e tremo per il freddo. Vorrei bere dell’alcol e scaldarmi le mani. Al centro d’accoglienza trovo la solita coda. Una ragazza sui vent’anni, bella e gentile, ci accoglie con un sorriso angelico pieno di comprensione. I suoi denti sembrano emanare una strana luce. Una volta dentro possiamo riscaldarci e aggirarci lungo i corridoi stretti della costruzione. Dei volontari ci danno delle lenzuola fresche di bucato e altri maglioni pesanti. Poi entriamo nella sala mensa e cerchiamo un posto libero. L’odore del caffelatte e del pane non copre l’afrore intenso dei nostri corpi. Vado a sedermi in un tavolo dove riconosco alcuni visi famigliari. Ce ne stiamo infagottati nei nostri stracci a sorseggiare il caffelatte caldo e a riscaldarci. Ogni tanto qualcuno rutta o scoreggia. Tra i miei compari di sventura c’è Nadja, una donna che per venticinque anni ha fatto la disegnatrice tecnica, poi è stata buttata fuori, razionalizzata e ridotta a questa vita da poveracci. Un altro è Mario, un fanfarone intento a immerge una fetta di pane nella tazza e a strofinarsi il grugno. Anni fa era proprietario di una piccola azienda informatica. Dopo che la sua azienda è finita in tribunale per captazione fraudolenta di sovvenzioni pubblica, Mario si è fatto un anno di carcere. Quando è uscito è rimasto senza casa, famiglia, amici. Solo in mezzo a una strada, precipitato in basso nella scala sociale. Li guardo finire il caffè e rollarsi delle cartine ingiallite. Nel frattempo, arrivano altri due senzatetto. Due amici. Loris è un ragazzo sui 28 anni, biondo e mingherlino. Lavorava come operatore telefonico e, a suo dire, era il migliore. Vendeva polizze assicurative a chiunque e al termine di ogni giornata riceveva sempre il plauso generale del team. I suoi supervisori gli ripetevano in continuazione che aveva il fuoco dentro e per questo faceva qualunque cosa gli venisse chiesta. Vendeva qualunque polizza e raccontavo balle colossali ai poveri vecchietti che abbindolava. A un certo punto qualcosa si spense nel suo cervello. Forse fu il ritmo vertiginoso delle telefonate, forse lo stress, comunque arrivò al punto di sentire una voce dentro la testa che gli parlava in continuazione e recitava il testo da esporre ai clienti. Da lì al tracollo fu un lampo: iniziò a bere e ad assumere psicofarmaci di ogni tipo. Accanto a Loris, avvolto in una giacca sbrindellata raccattata in un banco di vestiti usati, c’è Rolf. Anche lui ha sulle spalle una storia di fallimenti e tragedie. Da immigrato, era riuscito a trovarsi un buon posto come camionista. Tutto filava per il meglio quando, una sera, al ritorno da un lungo viaggio all’estero, trovò la sua casa in fiamme. Dentro c’era sua moglie e le sue due figlie. Morte. La polizia disse che si era trattato di un’esplosione di gas. Dopo la tragedia, Rolf provò ad andare avanti col lavoro. Arrivò a dormire dentro al suo camion, perché non gli rimaneva altro. Iniziò a lavorare a ritmi inumani, arrivando a guidare fino a 48 ore di fila senza mia fermarsi. Le compresse e la caffeina fecero il resto e lo trascinarono nel baratro, lo portarono qui. Rolf addenta un pezzo di dolce secco che gli si sbriciola tra le dita tozze e callose. Nadja e Mario fumano e si schiariscono la gola con dei tremendi colpi di tosse. Ognuno di noi preferisce restarsene al calduccio il più a lungo possibile prima di tornare là fuori ad affrontare il freddo glaciale. Tanto non abbiamo più nessuno che ci aspetta. Nessun contatto con l’esterno, nessun lavoro, nemmeno una ragazza o un ragazzo. Rolf si pulisce gli occhi lucidi con un fazzoletto lercio e maneggia un cellulare pieno di graffi. Lo ha conservato come ricordo della sua vita precedente. Dentro ha ancora alcuni messaggi della sua famiglia. Dei preziosissimi SMS. Loris invece prende a leggere un free press locale. Ci aggiorna sulle previsioni meteo e sulla lunga lista di morti congelati in strada. Nadja alza le spalle e sorride lontana. Mario bestemmia e si gratta il naso come se la cosa non lo riguardasse più. Anche Loris, nel leggere i nomi degli ultimi morti, ha un tono allegro e disinteressato.

Avete visto, è morto anche il Max – dice.

Chi? – chiede Rolf soprappensiero.

Quello che faceva il bancario ed era indebitato come un mulo con la banca.

Ah sì, mi ricordo. Era venuto qui un paio di volte. Ci aveva spiegato come funzionava. Praticamente facevano dirigenti solo quelli che avevano acceso grossi mutui con la banca, così poi li legavano mani e piedi a loro e li costringevano a lavorare sempre di più per estinguere un debito impossibile.

Furbi, è come un serpente che si morde la coda, come uno stomaco senza fondo! – sorride Loris.

Io li ascolto e cerco con la coda dell’occhio uno degli angeli con la brocca di caffè. Ne vorrei ancora. Ho bisogno di liquido caldo per prepararmi a quello che ci aspetta. Sento che il caldo del centro mi annebbia il cervello. Ho ancora una voglia enorme di dormire. Vorrei lasciarmi cullare dal tepore e dalle loro parole, dalle loro voci famigliari e scivolare nel sonno senza la paura di non svegliarmi più. Lasciarmi andare, lontano da stress, ritmi pesanti e le pressioni della mia esistenza precedente. Per anni avevo lavorato quasi 80 ore settimanali, il doppio di quanto prescritto dalla legge. La legge, già. Con un tetto di 40 ore previste dallo statuto dei lavoratori e un massimo di 10 per straordinari, già. Peccato che nessuno sappia che la giornata lavorativa di 12 ore esiste ancora e che, gira e rigira, dall’alba del capitalismo non ci siamo mai allontanati. Chissà se lo sanno i politici o tutti quelli che si riempiono la bocca parlando di lavoro, già. Chissà come si sentirebbero a pelare patate o lavare i piatti per 12 ore di fila, o come la prenderebbero se gli straordinari non gli venissero mai pagati o ricompensati con le ferie? Già. Comunque quegli orari criminali sono finiti. Ora faccio volentieri a meno di tutto questo. Ora voglio solo approfittare della mensa per scacciare il freddo che è penetrato nel mio sacco a pelo, che mi ha gelato gli alluci e si è impossessato di me, della mia anima. Intanto sento che Loris ha ripreso a elencare i nomi dei congelati. Dietro le palpebre socchiuse li vedo concentrarsi su una fotografia sul giornale. Parlano di qualcuno, di un loro amico.

Hai visto com’è venuto bene in foto?

Beato lui. Quand’è toccato a me sembravo un carcerato.

Ma tu sei un carcerato, cervello balzano!

Glielo dicevo che prima o poi, a dormire sempre nel sacco.

E cos’altro poteva fare, poveraccio? Cos’altro potevamo fare?

Rapinare una banca, no?

Seeh!

Si infilava dentro al suo sacco a pelo con tutti i vestiti indosso e sperava bastasse.

Poteva venire dietro il discount come ho fatto io. Avevo costruito una casetta coi cartoni e dovevi vedere com’era bella.

E a cosa è servita?

Stai zitto mammoletta!

Mezza sega cerebroleso!

Piantatela stupidi!

Comunque è venuto proprio bene in foto, pare sputato.

Già, hanno messo quella di quando lavorava nel ristorante. Vi ricordate quando ce ne parlava? A pelare patate per 12 ore filate! Poveraccio!

Silenzio.

Mi accorgo che mi guardano.

Che la foto sul giornale è la mia con la divisa da sguattero.

Allibito mi ridesto e strappo il foglio dalle mani di Loris. Alzo la voce e bestemmio, prendendomela con tutti loro per quello stupido scherzo. Eppure nessuno di loro ride. Mi osservano in modo inquietante, triste.

Non te ne sei nemmeno accorto, vero? – chiede Nadja.

Di cosa urlo?

Alcune ragazze della mensa fanno per avvicinarsi comprensive, ma Rolf le allontana con un gesto della mano, come a dire che la situazione è sotto controllo. Con dolcezza e premura, il mio gruppo di amici mi prende per le braccia e mi trascina in strada. Fuori l’aria è argentea e scintillante. E il freddo è aumentato. Mi lascio trascinare verso il centro. A un certo punto, vicino al negozio di abiti, notiamo un semicerchio di persone ferme a guardare qualcosa. C’è persino la croce rossa e dei tizi in camice bianco. A quel punto preferisco fermarmi. Rolf mi passa una sigaretta e me la accende. Rimaniamo immobili a guardare mentre sollevano il mio corpo rigido dentro il sacco a pelo e lo mettono dentro l’ambulanza. La vettura riparte senza fretta e la gente si disperde allegra. Improvvisamente sento delle lacrime salirmi agli occhi, ma neppure quelle sono calde. Mi giro verso i miei amici. Vorrei domandare loro cosa mi aspetta, o cosa ci aspetta, però non lo faccio.

E’ un luminoso mezzogiorno d’inverno quando chiudiamo gli occhi nei nostri sacchi.

Davide Rosso