IL ROMANZO

Ora sono libero da qualunque impegno.

Ho sbrigato le pratiche burocratiche, meglio, ho pagato qualcuno per farlo. Con la morte dei miei genitori ho ereditato una discreta fortuna con la quale potrò vivere il resto della mia vita senza l’assillo del lavoro. Alla soglia dei quarant’anni riserverò le ore della giornata alle mie poche passioni, regolando l’esistenza su binari finalmente privi di scossoni e imprevisti. Non sarà difficile: non sono uomo abituato a chissà che. Non amo il lusso o la vita dispendiosa, apparire o frequentare gente. Fin dalla tarda adolescenza ho coltivato l’agio delle buone letture, l’ozio e le camminate all’aria aperta. Dovrò solo dosare i danari depositati in banca, erodere con morigeratezza il Capitale, dopo tutto sarà possibile senza più sottostare all’umiliazione di un impiego (magari all’azienda del gas o alle poste dietro un vetrino insudiciato, esposto per ore interminabili allo sguardo inclemente delle persone in coda per le bollette).

La casa dove vivo è per conto mio.

Ho dei vicini, ma ognuno si fa i fatti propri. Con alcuni scambio a malapena un saluto frettoloso, con altri nemmeno. La casa è una delle tante villette costruite negli anni Ottanta, quando i figli del boom misero su famiglia e investirono i beni dei loro genitori (quelli eroici di cui nelle scuole cantano le virtù e il sacrificio nel ricostruire il paese). La magione è sempre appartenuta alla mia famiglia. Solo per un periodo, io e i miei genitori, ci siamo trasferiti a vivere in un’altra regione, colpa di alcuni impegni (ecco, vedete: gli imprevisti!) di mio padre. In quel lasso di tempo la casa venne occupata dal fratello di mia madre, zio Serafino, un professore in pensione. Di lui in casa s’era sempre parlato pochissimo e pare che i miei non fossero tanto contenti di averlo a pigione. Non che zio Serafino non pagasse regolarmente (figurarsi con un maresciallo come mia madre!), tuttavia egli sembrava portarsi appresso una strana condanna, quella di appartenere a un ramo tarato della famiglia. Pareva infatti ce ne fossero stati degli altri prima di lui, tutta gente strana con idee anormali e poca voglia di concludere qualcosa. Già da quei primi discorsi furtivi di mamma e papà (frasi magari smozzicate mentre si sciacquavano i piatti o prima di coricarsi), pur nella confusione della mia adolescenza, capivo di voler assomigliare segretamente allo zio: egli difatti aveva già lasciato il lavoro per campare con una piccola pensione di invalidità, roba mentale suppongo. La mamma, da pia bigotta, si vergognava di un fratello di quella portata e preferiva averci a che fare il meno possibile, tuttavia la decisione dell’affitto fu dettata dall’esigenza di trovare urgentemente un inquilino pagante. Comunque lo zio non diede mai grattacapi. Negli ultimi anni della sua vita non uscì quasi più e arrivò persino a staccare la targhetta col nome dal campanello. Zio Serafino sparì agli occhi del mondo e si eclissò lentamente anche dal ricordo delle altre persone. Quando morì, per dire, lo ritrovarono dopo quasi una settimana e solo perché, essendo inverno, aveva lasciato delle finestre aperte, forse per chiedere aiuto, forse per cambiare l’aria viziata. Dopo nemmeno un anno dalla sua morte (morte che lasciò mia madre indifferente e mio padre quasi sollevato) tornammo nella casa. I miei rifecero da cima a fondo l’arredamento (nel frattempo eravamo diventati benestanti: gli affari di papà andavano a gonfie vele) e cancellarono ogni traccia dello zio. Di lui rimasero solo due cose: una vecchia foto in bianco e nero e una cassa di legno piena di libri. Della foto posso dire subito: è un ritratto degli anni sessanta in cui si vede lo zio e alcuni compagni (di scuola, di giochi?) abbracciati prima (o dopo) una partitella di calcio ai bordi di una stradaccia polverosa. Sono stretti tra loro col pallone, una roba fatta di stracci. Nella foto lui sorride all’obiettivo e sembra sereno, forse ancora convinto che ci sia un posto per lui nel mondo futuro, magari con la speranza di diventare un uomo come tanti, uno con un buon lavoro, una bella moglie, dei figli e una incrollabile fede nel cammino luminoso del genere umano. Forse in quella foto degli anni sessanta lo zio non aveva ancora manifestato i primi sintomi della sua pazzia e per questo i miei decisero di conservare almeno quel reperto iconografico. Della cassa di libri invece non me ne occupai. Ero già un lettore onnivoro e manifestavo i primi sintomi della malattia (simile a quella dello zio e quindi ancor più penosa agli occhi dei miei poveri genitori) che mi avrebbe portato a lasciare l’università e reso inabile al lavoro, pur tuttavia non provavo interesse per gli oggetti di un morto, tanto da averne quasi timore, come se in essi fosse contenuto il germe di qualcosa che avrebbe potuto arrecarmi danno. Personalmente avrei buttato la cassa coi libri, poi, non ricordo come, si decise di dimenticarla in soffitta. Lì rimase fino a quando l’ho ripescata e pulita. Adesso ho quasi la medesima età che aveva lo zio quando venne ad abitare qui. Ho la medesima franchigia. Anch’io ho tolto il cognome della mia famiglia dal campanello sulla strada. Ho fatto staccare il telefono, non adopro cellulari o altre diavolerie moderne. Tanto nessuno mi deve cercare: per le cose spicce pago apposta un commercialista che mi relaziona una volta ogni sei mesi. Per il resto esco pochissimo. In paese ci vado per gli acquisti settimanali indispensabili: pane, salame, pasta. Non ho più amici da frequentare o donne da corteggiare. La mia biblioteca, negli anni, s’è arricchita d’ogni genere di letture da averne per il resto dell’esistenza. La mattina mi sveglio relativamente presto, faccio una colazione frugale con pane secco, marmellata e caffélatte. Il resto della mattinata lo passo a pulire e riordinare la casa, a combattere contro la polvere, stendere i panni puliti, eccetera. Un pranzo robusto verso le 12, poi una passeggiata digestiva (ho lo stomaco debole per via di alcuni problemi alla cistifellea) per le stradine di campagna che si diramano dietro la casa. Il pomeriggio trascorre in letture, la visione di qualche film (horror, i miei preferiti) e, sempre più raramente, qualche prova di scrittura, qualche composizione che finisce sempre nel cestino. La scrittura, fin verso i trent’anni, è stata una mia grande speranza. Confidavo potesse esularmi dal lavoro e regalarmi un’esistenza effimera di successi. Avrei potuto stare al centro del mondo senza esserci fisicamente. Faccio un esempio becero: sarebbe bastato pubblicare una mia foto su qualche settimanale di successo per avere le relazioni sessuali che non avevo mai avuto. Cose così, stupide, lo riconosco, ma non avevo ancora imparato a scavare sotto la pacifica naturalezza dell’ambizione per scoprirne l’assurda imbecillità. Tuttavia mi piaceva scrivere, mi divertiva, anche se dovevo comporre di nascosto, sfuggendo alle occhiate accusatrici di mia madre o a quelle di compatimento di mio padre. Per loro la scrittura, oltre al cattivo esempio offerto da zio Serafino, mi aveva portato sull’orlo del baratro, incapace di crescere e sviluppare una vita piena e matura. In fondo avevano ragione: tutte le mie prove narrative s’erano risolte in penosi balbettii incapaci di evocare la pur minima bellezza. Mi perdevo dentro raccontini del terrore pieni di vampire disinibite o alieni cannibali piovuti dallo spazio profondo. Sul principio provai a inviare i miei parti a qualche editore, in seguito capii che i silenzi degli interessati non lasciavano presagire nulla di buono. Continuai a scrivere (e a leggere moltissimo) e lo feci solo per il mio piacere personale, infine l’eredità famigliare (di cui mi sfuggivano le dimensioni!) mi permise di scivolare nella parte dell’inetto senza nemmeno l’alibi letterario. Destinai alla pattumiera le poche pagine rimaste e ridussi i miei tentativi a mero passatempo.

Infine ritrovo la cassa dello zio e la apro.

Dentro giacciono duecento volumi, nessuno di pregio, quasi tutta roba di paraletteratura. Romanzacci di mostri, gangster e pornografia. Mi immergo nella lettura e divoro quelle pagine infiorate di muffa, felice di aver atteso il momento opportuno per dedicarmi a tanta grazia. E già dalle prima occhiate mi accorgo che lo zio, oltre ad avere gusti non dissimili dai miei, ha la brutta abitudine di sottolineare frasi o singole parole qua e là. Anch’io, quand’ero un aspirante scrittore, sfregiavo i miei volumi, cercando di evidenziare frasi o sintagmi particolarmente brillanti da ricopiare (segretamente) nei miei scritti. Che lo zio facesse lo stesso? Eppure le sue segnature paiono differenti; non vi è traccia di una logica apparente a guidare la mano che ha scarabocchiato a matita (altre volte a biro blu) le parole. Sul subito pare che le sottolineature cadano a caso sotto le parole, cerchiando nomi comuni, altre volte semplici avverbi, congiunzioni o insignificanti articoli. Quale logica può muovere la mano dello zio? La questione, nella gran quantità di tempo di cui dispongo, mi appassiona. Quasi come un filologo, inizio a studiare i romanzi o i saggi non per quello che sono, dei feuilleton popolari, bensì come degli enigmi. Inizio a trascrivere le parole segnate su fogli di carta e impiego un tempo lunghissimo a capire quale ordine seguire. Mi aiuta la disposizione originale in cui i libri sono stati riposti nella cassa, ordinati in piccole pile a seconda della forma e della dimensione. Provo a dar nuovo assetto alle parole seguendo il medesimo ordine. Altri tentativi. Altro tempo. Questa ricerca ingoia tutte le mie energie. Ultimamente sono convinto che lo zio abbia creato un codice segreto con le sue varie sottolineature, qualcosa che potrebbe rivelarmi alcuni segreti della sua esistenza, forse l’origine della sua follia o, chissà, una ricetta culinaria senza alcuna importanza. Provo, combino, riordino le parole in attesa di una chiave morfologicamente sensata. Vi risparmio i mille tentativi. Alla fine credo di riuscirci. Ecco, ora possiedo una chiave, un metodo. Ho trovato il modo corretto di allineare i segni, le parole evidenziate dalla matita o dalla bic. Non mi rimane che prendere un quaderno e trascrive tutto, così finalmente capirò cosa ha voluto dire lo zio.

Ho finito l’opera ed è passato un mese dalle righe sopra.

Ora so tutto.

Per farla breve, ho capito a cosa stava lavorando lo zio negli anni della sua impenetrabile solitudine. Non ha lasciato dei segreti inconfessabili o delle misere istruzioni funebri. Non ha nemmeno tracciato dei geroglifici insensati o folli, dei balbettii dementi, no niente di tutto questo. Lo zio, come me, coltivava passioni letterarie insospettabili (lui, professore di disegno tecnico nelle scuole medie!). Il mosaico di parole restituite dai duecento feuilleton della cassa ha la forma di un romanzo di appena cento pagine, eppure che romanzo! Non avevo mai letto nulla di simile, lo confesso. Nemmeno i nostri più grandi contemporanei saprebbero far meglio. Non ho dubbi su questo! Dentro quelle cento paginucce ho ritrovato echi di grandezza riconducibili al Leopardi della prosa migliore o al Gadda più libero e sperimentale magari innaffiato dalle indagini erotiche d’un D’Annunzio in gran spolvero. Lo zio Serafino, nel silenzio della casa che gli avevamo affittato, in quasi dieci anni, aveva lavorato in modo originale e inconsueto alla stesura di un’opera fondamentale, cerniera necessaria per capire il passaggio della prosa novecentesca a quella del ventunesimo secolo! Come aveva potuto, con una roba simile per le mani, trattenersi dal correre in giro per case editrici e rivendicare la sua porzione di grandezza e denaro? Perché aveva preferito nascondere quel capolavoro tra le righe di certa letteratura spazzatura? Non impiego molto a capirlo. Ormai sento lo zio come un improbabile gemello, qualcuno vissuto vent’anni avanti a me solo per indicarmi la strada e mettermi al riparo dai tranelli dell’effimero. Credo che egli abbia preferito nascondere e proteggere la sua opera dagli altri. Cosa avrebbe ricavato dopo le lodi o la gloria effimera? Cosa gli sarebbe rimasto se non l’ansia di ripetere una simile prestazione e scrivere ancora e ancora fino a ridursi a imbrattacarte di professione? La scrittura del capolavoro l’aveva liberato dall’obbligo di esprimersi, di aggiungere qualcosa se non il silenzio e la preziosa parcellizzazione del romanzo. Cento pagine sbrindellate, mescolate nella cassa coi duecento libracci. Ecco l’ulteriore colpo di genio, affinché uno sconosciuto non potesse appropriarsi del suo lavoro. Ora è questa consapevolezza a togliermi il sonno. Adesso che ho decriptato l’opera, adesso che essa è leggibilissima sui fogli di carta da me manoscritti, il pericolo è tornato concreto. Lo zio aveva ragione. Non devo cadere nella tentazione, proprio adesso che sono riuscito a tirarmi fuori dal gran ballo del quotidiano. Non devo lasciarmi ubriacare dall’entusiasmo passeggero del successo. Il libro dovrà rimanere segreto, un oscuro capolavoro dell’ingegno umano destinato a pochissimi fortunati. Distruggerei i fogli se non mi fossero costati tanta pena e non fossi così innamorato dei personaggi (Oh, come potrei continuare a esistere senza le aggraziate movenze di Carlotta e i turbamenti erotici di Fredo il ventriloquo?!?) e del plot. No, vigilerò come un leone di pietra davanti a una cattedrale. Perché già sento che qualcosa è cambiato da quando ho terminato la cucitura dei frammenti. I vicini non mi sembrano più tanto indifferenti. Proprio oggi ho ricevuto una strana e inaspettata telefonata dal commercialista, il quale, con una scusa banale, voleva venire da me e parlarmi di certi conti. E che dire delle insistenti gentilezze della giovane cassiera del supermercato qui al paese? Si, passano i giorni e ne sono convinto: tutti loro conoscono il mio segreto, intuiscono la grandezza di ciò che custodisco e prima o poi busseranno, suoneranno alla porta e avranno sorrisi verniciati sulle labbra sottili, avranno scuse inattaccabili. Diranno che sono pazzo, che ho perso la ragione e mi sono inventato tutto. Diranno che ho tagliuzzato parole senza importanza, scarabocchi su cui ho brigato fino a dar loro un senso. Non dovrò cadere nel tranello. Presto verranno e dovrò essere pronto. In casa non ho armi, però posso sbarrare le porte e le finestre coi mobili, posso affilare tutti i coltelli della cucina e contare su un paio di badili. Quando verranno sarò pronto e accadrà quel che dovrà accadere.

Davide Rosso