IL SOUVENIR

Sono (anzi ero, ma fingiamo di raccontare per benino questa storia dal principio, evitando fastidiosi postmodernismi) un grigio impiegato.

Non lo dico per spregio verso quel me stesso o la categoria, bensì per amor di chiarezza.

Non assocerei colori di qualunque tipo al mio impiego, ad esempio non mi definirei un impiegato azzurrino o fucsia – fucsia che bella parola, decisamente adatta a un cespuglio viola o a un botanico, non a un mezze maniche. No, il grigiore o se volete il grigiastro, il grigerognolo, il pardiglio, il bigio, il cenerognolo sono gli aggettivi adatti per definire la mia occupazione presso un ufficio distaccato della Regione. Fui assunto molto giovane appena finita la Maturità Tecnica, grazie alla raccomandazione di un parente, un alto Dirigente. Da allora, a parte un matrimonio soave apparecchiato fin da giovanissimo, la mia vita è continuata nella più assoluta tranquillità. Il lavoro al dipartimento ha occupato le ore della mia vita mattutina e pomeridiana, lasciandomi solo le briciole necessarie per ricongiungermi con mia moglie, Teresa. Teresa, lei che tutte le sere mi aspettava sulla soglia e mi porgeva le pattine insaponate. Lei che mi aiutava a sfilarmi il cappotto e subito lo spazzolava dai peli superflui o dalle pieghe della giornata. Lei che mi accudiva come un figlio amatissimo, forse per compensare il fatto che non ne avevamo mai avuti. Per me, la mancanza di figli, non fu un gran scorno; dopotutto credo avessi troppo poco tempo per occuparmi in modo soddisfacente dell’educazioni di un fanciullo, di osservarne da vicino lo sviluppo cercando di prevederne e correggerne i molti sbandamenti, tipici in un adolescente. Per Teresa, invece, la mancanza di un erede dev’essere pesata, ma si sa, le donne sono più fragili e credono di scorgere nella traccia genetica di un loro clone una qualche forma sbiadita di sopravvivenza. Sto divagando. Dicevo di mia moglie, Teresa, del nostro matrimonio felice, senza scossoni o turbamenti di alcun tipo (tradimenti, gelosie, eccetera). Fin da adolescenti siamo cresciuti assieme e arrivati mano nella mano alla maturità di una coppia adulta, forse inaridita dalla mancanza di prole, forse no. Comunque ella s’è dedicata, avendone il tempo e non lavorando, a me, investendo tutto il suo zelo di donna efficiente e disponibile sul sottoscritto. Rincasando dalla sede del dipartimento la trovavo sulla soglia con le pattine, la spazzola per il cappotto e le mille premure con cui mi salutava. Per Teresa ero come il sole che ogni mattina colora le facciate delle case. Ero il suo centro, la sua sicurezza. Il lavoro che ricoprivo ci donava, oltre a un certo lustro sociale, un quotidiano senza preoccupazioni, al riparo dalle sempre nuove tasse o dai travagli continui dell’economia. Ero, sono, dovrei essere un impiegato, appunto grigio o grigerognolo, fate voi. Non perderò tempo nel descrivere in cosa consistessero le mie mansioni, in fondo nemmeno io saprei cosa dire: fin dal primo giorno della mia assunzione ho sguazzato tra fogli di carta, pennine e inchiostri, chino sul mio scrittorio, chiuso nel mio cubicolo lavorativo identico a quello di altri cinquanta come me. Avevamo un capo area che ci assegnava la mole di documenti giornalieri da redigere, da duplicare, da correggere, da compilare, da riscrivere usando un linguaggio volutamente incomprensibile e impersonale che copiavamo da moduli più vecchi compilati da chissà chi. Non ho mai capito a cosa servissero quei fogli, non ho mai capito cosa contenessero. Certe volte, traducendo l’incomprensibile linguaggio burocratese, intuivo valutazioni e considerazioni generali sull’andamento o la struttura della nostra società, tuttavia credo si trattasse di valutazioni statistiche sottoposte a continui mutamenti e riscritture, al punto da togliere qualunque effettiva concretezza a quei certificati. Successivamente, con l’avvento della tecnologia informatica, vivemmo una lentissima conversione digitale di quei fogli e, anche lì, si trattò solo di un modo per impiegare il nostro tempo senza apportare nulla di concreto o di pratico per consesso civile. Comunque era il mio lavoro, quello che mi dava da vivere, che mi assicurava una posizione sociale e mi faceva ben volere da tutti. Non avevo problemi coi colleghi, coi superiori e coi miei vicini. Vivevo in un mare di placidità, ordinato sui tempi immutabili del mio travaglio. Non conoscevo altri modi di esistere e nemmeno credevo esistessero.

Poi capitò l’incidente e tutto si sfaldò.

Era una mattinata identica alle altre, con Teresa che mi svegliava soffiandomi sul viso (odiavo le suonerie e il suono marziale con cui ti strappavano dal limbo ovattato dell’incoscienza) e carezzandomi i capelli. Nella cucina il caffè era già pronto e le fette di pane tostate e imburrate. Come sempre Teresa mi assisteva nella colazione, osservandomi in silenzio mentre riprendevo a poco a poco la lucidità e scacciavo gli ultimi brandelli di sonno. Poi, mentre ella sbrigava la tavola e sciacquava le tazzine, io mi chiudevo nel bagno per lavarmi e rassettarmi. Dopo tornavo in camera da letto e trovavo mia moglie intenta a stirare le camicie e i pantaloni della giornata, affinché potessi essere sempre impeccabile, fresco e pulito, tutte condizioni necessarie per affrontare col giusto spirito le mansioni burocratiche. Mi dilungo in questi elenchi non tanto per sfibrare l’eventuale lettore, quanto per il piacere di riassaporare fugacemente quei momenti e contrapporli a questa mia nuova esistenza, al posto buio e chiuso in cui sono finito. Andiamo avanti. Dopo tutti quei riti, ormai vestito e profumato, ero sulla soglia di casa. Un bacio appassionato alla belle labbra di Teresa e via giù per le scale (l’ascensore lo conservavo per la sera), poi in strada con le chiavi in mano, pronto a balzare sulla mia automobile. Fu in quel frangente che la mia vita precipitò. E il verbo precipitare è quanto mai adatto, credetemi, in quanto io non mi accorsi di nulla, nemmeno di un soffio. Solo un black out assoluto e improvviso che calò su di me nell’istante in cui avvicinavo la chiave alla serratura della portiera. Mi risvegliai dopo una settimana in un letto d’ospedale con dei tubicini che mi entravano e uscivano dalle narici, dalla bocca e dalla trachea. Teresa, piantata su una sedia al mio fianco, quando si accorse che la guardavo, scoppiò in un pianto lungo che la sconquassò fino ai fianchi larghi e seducenti. Che strano! Il mio primo pensiero fu proprio quello, ossia il desiderio sessuale verso i fianchi prosperosi della mia bella signora, la brama di carezzarle i capelli stopposi e strizzarle un seno. Sorvolando, i dottori mi spiegarono cos’era accaduto. Un bambino, dall’ultimo piano del mio condominio, se ne stava affacciato sul balcone (alle sette di mattino? Quali genitori scellerati lo avevano procreato per poi abbandonarlo lì, in quel perimetro di cemento, in quell’ora, in quel preciso momento?) a giochicchiare con un souvenir, quando l’oggetto gli sfuggì dalle mani, volò attraverso la ringhiera di ferro e cadde giù, fin sulla mia testa. Un souvenir, sì! Una riproduzione in metallo del Duomo di Vercelli! Una riproduzione grande quasi quanto il palmo di una mano. Ecco tutto. Seguirono esami, accertamenti (il pellegrinaggio in ospedale di parenti, colleghi e capi), infine scoprirono che ero stato un miracolato e che, dopo una lunga convalescenza, sarei tornato come nuovo. Teresa versò tutte le lacrime di cui disponeva e divenne religiosissima, praticamente cominciò a far la spola tra il mio capezzale e le chiese della città. I miei superiori ebbero la premura e la gentilezza di assicurarmi che avrei potuto prendere tutto il tempo necessario per ristabilirmi e tornare alle mie pratiche. Insomma ogni cosa, dopotutto, sembrava andare per il meglio. Dopo un mese riuscii a lasciare l’ospedale e tornarmene a casa. Il medico della mutua mi comminò un altro mese di riposo assoluto. Nel vedermi a casa, non più fasciato e immobile in una brandina, Teresa si riprese dal brutto spavento e tornò quella di sempre, anzi, se possibile, ancor più dolce e servizievole. Mi preparava manicaretti deliziosi e si preoccupava di gestire le mansioni pratiche della casa: bollettini da pagare, spesa e altre amenità della vita civilizzata. Io la osservavo mentre mi sfilava davanti e mi baciava sulla bocca prima di cambiarmi il cerotto sul cucuzzo del cranio. Riuscì persino a spostare la televisione (quella più piccina) sulla mensola della specchiera, così che potessimo vedere i programmi abbracciati nel letto. Quando usciva per le compere si peritava di lasciarmi un cellulare col suo numero memorizzato, qualora avessi avuto un’urgenza. Per il resto le mie giornate da convalescente non presentavano altri inconvenienti se non quello di impiegare il tempo, di trovare un modo per passarlo senza annoiarmi a morte. Era infatti la prima volta in una situazione così sospesa e priva di impegni. Come ho già detto, fin da giovanissimo, ero andato a lavorare al dipartimento, abituato a scartabellare felicemente. Improvvisamente sprovvisto di una occupazione, costretto al riposo più assoluto, mi costrinsi a rivedere la mia vita. Dal principio l’idea di trascorrere tutta quell’enorme quantità di minuti, ore, giorni su un letto, oppure passeggiando con le babbucce avanti indietro per il corridoio, mi turbò parecchio. Aveva voglia Teresa a comprarmi ogni giorno pile di cruciverba e quotidiani. Il tempo non sembrava passare. Mi mancava il solito tran tran, mi mancava il mio bel cappotto marrone, l’ansia di far tardi in ufficio e gli inutili convenevoli coi colleghi davanti alla macchinetta del caffè. Mi mancavano i miei fogli, i miei documenti cartacei da convertire in un file. Mi mancavano persino gli ordini brevi, concisi, pronunciati con toni impersonali dai superiori. Mi mancava insomma tutto quello che ero stato prima che un maledetto bambino lanciasse un souvenir dal balcone, souvenir che, per ironia, era rimasto in mio possesso. Lo ritrovai in un cassetto del comodino, ancora sigillato dentro un sacchetto e chiazzato da alcuni grumi di sangue e capelli. Evidentemente la polizia, dopo i primi rilievi, aveva dato l’oggetto disgraziato a mia moglie e lei aveva pensato bene di conservarlo o dimenticarlo in quel tiretto. Ogni tanto, quando Teresa usciva per le commissioni, aprivo la credenza e studiavo quella stupida riproduzione del duomo della mia città, immaginando cosa mai ci trovasse di interessante la peste dell’ultimo piano. Non poteva giocare con una macchinina o altro, magari un bel videogioco, così se ne sarebbe rimasto al calduccio, rintanato in casa anziché spatasciarmi il cranio? Comunque i giorni passavano lentissimi e la data del mio probabile rientro al dipartimento pareva lontanissima, irraggiungibile. Quando Teresa rimaneva a casa la seguivo nei suoi impicci e provavo ad aiutarla, ma lei, risoluta, mi confinava nel letto, dicendo che non dovevo assolutamente affaticarmi. Allora mi annoiavo mortalmente davanti alle inutili scempiaggini della televisione. Alle cinque del pomeriggio mi trovavo senza più alibi o passatempi, distrutto dalla noia nemmeno avessi lavorato dieci ore in fonderia. Allora mi mettevo a pensare alla vita miserabile dei pensionati, alla loro disperazione nel saziare l’immane mole di tempo di cui disponevano. Dentro di me smaniavo per tornare al dipartimento e pregavo di poter lavorare fino alla fine, fino all’ultimo minuto della mia esistenza. Quando anche le mie riflessioni si esaurivano la giornata non era ancora al termine: i preparativi della cena distraevano per un’oretta, infine si apparecchiava una nottata lunghissima. L’immobilità o la deambulazione tra le mura non mi stancavano fino al punto da trovare riparo in un sonno precoce. Quando Teresa, lei si spossata dai continui impicci domestici, verso le dieci si appisolava sulla mia spalla, io pensavo che mi ci sarebbero volute ancora delle ore prima di scivolare nell’inconsistenza. Allora sgusciavo fuori dal letto e riprendevo a vagare tra le stanze. In quei momenti tornavo all’origine del mio male e mi decidevo a fronteggiarlo, quasi in cerca di una risposta, di una soluzione rapida e indolore per quel mio empasse. Il souvenir allora mi aspettava docile nel cassetto, chiuso nel suo cellofan. Io lo prendevo tra le mani, lo liberavo dal sacchetto e lo soppesavo nel palmo, provando a indovinarne il peso e la velocità di caduta. Ne studiavo la forma, il colore e le rifiniture, in cerca di nuovi insulsi dettagli. Infine, quando le palpebre cominciavano a pesarmi, tornavo nel letto, carezzavo furtivamente il seno di Teresa e mi addormentavo sul suo respiro per riaffiorare alla coscienza a intervalli regolari di due o tre ore per urinare. Così impiegavo il tempo e cercavo di sopravvivere all’inattività forzata. Un giorno dopo l’altro. Una settimana dopo l’altra. Friggevo, smaniavo. Dopodiché avvenne qualcosa. Un primo cambiamento. Mentre investigavo con lucida fissità l’oggetto che mi aveva causato tanto male, mentre scrutavo l’odiato souvenir e annotavo mentalmente le somiglianze e le differenze con l’edificio reale che riproduceva, mentre insomma penetravo affondo l’essenza di quel manufatto, percepivo affievolirsi il fragoroso rancore di quella mia inoperosità. Il souvenir iniziò ad apparirmi sotto una luce meno violenta. La curiosità dell’oggetto, dapprima mi distolse dai miei andirivieni con le babbucce, successivamente dissipò il libeccio urlante nel mio cervello. Lo studiavo e mi accorgevo di una qualche forma di bellezza insita non tanto nel robo, quanto in una sua segreta funzione. Quasi un segreto che andava dischiudendosi davanti a me.

Come prima conseguenza notai che le ore della giornata si andavano alleggerendo dalla noia che le ammantava. Mi scoprii incuriosito da piccoli fatti, direi squisite idiozie o inutilità che mi circondavano. Ad esempio ero piacevolmente distratto dagli andirivieni dei miei vicini. Confrontavo gli orari in cui uno o l’altro entravano e uscivano dal palazzo. Ne memorizzavo i tempi, i passi, i tic e classificavo tutto. Quelli che prendevano le scale, quelli che aspettavano l’ascensore, quelli col passo leggero e frettoloso, i ritardatari, oppure quelli che parcheggiavano sotto casa e ricoprivano i parabrezza con coperte e fogli di giornale. Inoltre principiai ad affacciarmi sul balcone per godermi i brevi momenti di tepore del sole e scaldarmi il viso. Anche Teresa notò quei timidi cambiamenti e ne fu contentissima. Io cominciai a distrarla dai suoi impicci casalinghi, costringendola in lunghe partite di dama, scacchi o carte. Oppure scoprivo il rinascere di un sottile erotismo che mi spingeva a stuzzicarla, a pungerla in certe parti del corpo che solo io conoscevo e, con varie scuse, attirarla nella camera da letto. Ogni nuova alba mi scopriva con una più festosa disposizione dei sentimenti, sempre meno in subbuglio per l’inattività e sempre più stregato dalla scoperta di una dimensione gioviale che non mi era mai appartenuta. Giocavo, mi distraevo, cercavo nella televisione l’intrattenimento, ora piacevole, di quei programmi demenziali e sfuggivo come un morbo l’apparizione di politici e altri trafficoni, in particolare schivavo le comparsate sempre più invadenti del nuovo astro della politica italiana, un trentenne paffuto e chiacchierone che sembrava aver incantato, dalla sera alla mattina, tutti. Nei giorni successivi a quella mia rinascita inizia a insistere con Teresa per accompagnarla nelle sue sortite al supermercato. Mentre lei entrava col carrello, io assaporavo l’aria fredda e fumavo una sigaretta, perso nell’indovinare l’età di certe belle ragazze che affollavano il parcheggio, rapito loro movimenti, dall’armonia dei loro giunchi. Fin da quelle prime uscite il souvenir era con me, nascosto nella tasca interna del mio cappotto. E anche quando mi capitava di incontrare qualche conoscente, qualche collega, mi scoprivo disinteressato dalle chiacchiere sui fatti nuovi accorsi nel dipartimento. Ma lo sai che Tizio, che Caio, che Sempronio sono stati promossi oppure spostati? Lo sai che hanno mandato una nuova circolare? E un nuovo direttore? Quando tornerai? A bene. Ti trovo proprio bene. Anche tu. Allora a presto. A prestissimo. Ciao. Arrivederci. Lasciavo scorrere quegli incontri, intanto con le dita cercavo il souvenir quasi a chiedere una protezione di cui nemmeno io capivo il senso. In principio scambiai quella ripresa come un segno ulteriore di guarigione, dopodiché intuii che si trattava di altro. Era come se l’incidente avesse squarciato il velo nel quale ero sempre vissuto, programmandomi diversamente. L’ozio forzato smise poco per volta di infastidirmi. I miei nuovi passatempi, il piacere nell’osservare i micro rumori, le abitudini del mio palazzo, i giochi di luce nel cielo, levarono qualunque peso allo scorrere delle ore. Presto convinsi Teresa che era giunto il momento di ricominciare a uscire per conto mio. Ella apprese la mia intenzione con un certo turbamento, tuttavia dovette arrendersi dinanzi alla mia ritrovata sicurezza. Anche il medico si disse d’accordo: era tempo che riprendessi anche una certa forma fisica. Le prime mete furono il supermarket dietro casa, con Teresa che mi seguiva dal balcone, quasi per avvertirmi repentinamente di qualche altro oggetto in caduta libera. Il souvenir era sempre con me nella tasca del cappotto. Dal supermarket passai alle stradine laterali, fino a quelle del centro. Scoprii presto di non reggere l’eventualità di un incontro con qualche conoscente, quindi cambiai presto l’indirizzo del mio vagabondaggio. Ripresi a guidare. Con la vettura raggiungevo la campagna più remota, trovavo spiazzi erbosi e mi incamminavo a piedi nel nulla, rapito dalla bellezza di un paesaggio che sembrava apparirmi per la prima volta. Bevevo l’intensità della luce e il modo in cui cadeva sulla piattezza della baraggia. Superavo cimiteri remoti, ruderi gotici su cui qualcuno aveva sovra impresso qualche scempio religioso. Scorgevo chiesette o cappelle votive sommerse dai rovi, oppure saggiavo la mollezza del terriccio fangoso. Camminavo per ore lungo le stradine tortuose dimenticate dall’uomo ed entravo nel regno di uccelli palustri o altri rari volatili. Ogni tanto scorgevo il profilo lontano di macchine agricole mangiucchiate dalla ruggine. Rade erano le vetture o le forme umane. Io camminavo rapito da quell’incanto e mi domandavo dove fossi stato fino ad allora. Dove avessi vissuto. Come. Dacché m’ero impiegato, il mio grigio organismo non aveva più beneficiato della fatica vera, quella di braccia e di gambe, contenuto nel solo lavorio intellettuale dell’impila bolle. Lentamente il mio corpo si cullava in un ritmo differente e naturale, privo di scopo o direzione. Camminavo e non pensavo a nulla. Percepivo i colori autunnali del mondo attorno e tanto mi bastava. Respiravo l’aria tagliente e fredda e arrivavo in conche di terreno riempite da acqua melmosa su cui si stendevano palmi rarefatti di nebbia. Ero immerso nella contemplazione di quel nuovo mondo naturale e dimenticavo quello da cui ero venuto. In quel mondo primitivo e ancestrale non aveva senso il linguaggio burocratico del dipartimento, non aveva alcun senso il dipartimento stesso. A cosa serviva prendere una carta, copiarla e copiarla ancora. A cosa serviva uscire di casa la mattina e tornare la sera. A cosa serviva lavorare? Perché mi ero sacrificato in quel modo? Quale oscena passione nutrivo per il lavoro, io bestia da stile? Era così bello camminare senza pensieri, lasciarsi vivere, osservare… Cosa stavo dicendo? Cosa pensavo? Cosa avrebbe detto Teresa se avesse intuito i primi vagiti di quel mio nuovo essere? Cosa avrebbero pensato di me i miei superiori? Che fosse colpa del trauma cranico? Del souvenir? Le mie giornate presero a trascorrere con un entusiasmo rinnovato. Mi alzavo tardi e, con scuse banalissime, cercavo sempre di attirare nuovamente Teresa nel letto. Lei, sul subito, mi lasciò fare, sicura che si trattasse dell’incontrovertibile conseguenza della mia guarigione, assecondando le mie voglie e le mie rinnovate energie. Era come se fossi tornato un adolescente. Dormivo, facevo l’amore, mangiavo con appetito e, appena lavato, mi vestivo e uscivo per le mie camminate nella baraggia. Teresa ormai mi lasciava andare senza più apprensione, sicura che presto avrei ripreso in tutto la mia routine. Naturalmente il souvenir era con me. Ogni tanto, nel deserto vegetale della campagna, lo lustravo, lo libavo come un gingillo caro e ne carezzavo i ronchi metallici. Tutt’intorno una bolla di silenzio ci univa e proteggeva. Ogni tanto i lontani acufeni di un aeroplano. Nel frattempo si avvicinava la data del mio rientro nel dipartimento. Teresa non stava più nella pelle e non passava giorno senza che non telefonasse a qualche lontano parente per almanaccare i miei progressi fisici. Ricevetti anche una telefonata dal dipartimento con le assicurazioni di un collega che si diceva ansiosissimo del mio ritorno. Il medico diede il suo parere favorevole, sicuro di farmi un favore. Io registrai queste cose con passività, fingendo un entusiasmo di circostanza e dentro di me figuravo davvero l’ipotesi di un mio ritorno alla scrivania e alle carte accumulate nei due mesi di assenza. Per un mezzo pomeriggio provai anche a rimettermi per davvero nelle condizioni di spirito di riprendere la vecchia vita e subito un gancio prese a strizzarmi le budella. La sola idea di lavorare divenne sempre più disaggradevole. Pareva che la malattia (o la guarigione?) avesse portato via quello che ero stato. Ormai desideravo solo disporre interamente del mio tempo, impiegarlo per cose meno ridicole che il dipartimento e quel che rappresentava. Volevo continuare a camminare nei campi in attesa della primavera. Il mio organismo sentiva il bisogno di stancarsi, di esaurirsi, i polmoni dovevano allargarsi, le giunture farsi più flessibili. Volevo esplorare i boschi della provincia, scoprire nuovi territori in cui perdermi. Volevo poter stringere sempre il souvenir tra le mani. Volevo essere libero. Ecco. Libero. Così avvenne che, la mattina del mio rientro, io rimasi a letto a dormire e a nulla valsero i soffi soavi di Teresa e poi i suoi richiami. Quando mi tirai su e le confessai tutto quello che era capitato dentro di me, lei, sul subito non disse nulla, forse convinta volessi scherzare. Le parlai della luce sui campi. Della crasi tra una garzetta in volo e il sole che tramonta. Le spiegai la bellezza nascosta negli ibis sacri in volo o la gibigiana sul dorso di una coccinella. Tenni un’orazione appassionata sulla bellezza sconvolgente delle foglie pennate, palmate o cuoriformi, per non dire delle subrotonde o le comunissime triangolari. A metà di quell’esposizione vidi il petto di Teresa alzarsi e abbassarsi con affanno e i suoi lineamenti sciogliersi e perdere ogni colore. Credo che fu in quel preciso momento che sentì tutto il suo mondo sfaldarsi come un biscotto nel latte. Forse ella percepì il medesimo vuoto che avevo percepito anch’io dopo il dialogo tra il mio cranio e il souvenir. Forse percepì la medesima paura. Con voce tremante, interrotta dalla commozione, balbettò qualcosa sul lavoro. Su come potevamo vivere senza il lavoro. Liquidai l’osservazione con una alzata di spalle e ridendo sgangheratamente. Le mostrai il souvenir e gliene parlai in modo molto bello e poetico, dicendo che era come una sabbia mobile intellettuale, anarchia, oscurità, caos, mancanza di significato e tuttavia luminosità, chiarezza e illuminazione. Lei cominciò ad allontanarsi spaventata, come se percepisse un alieno nel letto di suo marito e io, al contrario, provai un’intensa attrazione per la diaccia nei suoi occhi e l’ansimare dei seni penduli sotto il golfino. Le piombai addosso e, per quanto si dibattesse e mi scongiurasse, la feci mia. Nella zuffa erotica qualcuno telefonò più volte (presumibilmente dall’ufficio: era già tardi e io, nell’inutilità dei miei vent’anni lavorativi, non avevo accumulato nemmeno un minuto di ritardo). Alla fine Teresa somigliava a un riccio scompigliato da un camion rimorchio. Arrabattò i suoi stracci e si chiuse in bagno. Io, alleggerito e soddisfatto, mi preparai per l’escursione della giornata. Prima di uscire telefonai alla segreteria del dipartimento e rassegnai delle irrevocabili dimissioni, poi troncai la comunicazione senza lasciar loro il tempo di riprendersi da quel colpo di teatro. Quel che accadde in seguito fu velocissimo. La sera, al mio rientro da una lunga passeggiata in una zona palustre appena scoperta, trovai un bigliettino di Teresa sul porta frutta in cucina. Vi tralascio il contenuto, credo possiate immaginarlo da soli. Passarono alcune giornate di transizione in cui alcuni figuri assoldati dal dipartimento provarono a rovinare la meravigliosa deriva della mia esistenza. Fui abilissimo e li evitai tutti. Liquidai il mio conto bancario e prelevai ogni risparmio. Affittai una camera in un motel fuori mano. Uscivo solo nel pomeriggio, il resto della giornata lo trascorrevo libero, in pigiama, oziando dietro le finestre della stanza. Smisi di lavarmi, di pettinarmi. Mangiavo quel che capitava. Mi lasciai crescere la barba. Il souvenir sempre nella tasca del cappotto. Sabbia mobile intellettuale, anarchia, oscurità, caos. Alla tv, il bamboccio aveva preso il potere, aveva scalzato la vecchia classi dirigente e si apprestava a iniziare la lunga marcia elettorale che lo avrebbe portato al potere, dentro il cuore del sistema, del dipartimento stesso. Presi ad odiarlo: rappresentava tutto quello da cui scappavo. Fu l’inizio della fine. Una sera, di rientro da una esplorazione nei meandri di un bosco di querce, affamato ed eccitato, decisi di parcheggiare l’auto ai bordi del centro. Cercavo una vecchia casa di prostitute di cui mi avevano parlato certi colleghi. Nelle tasche i soldi necessari. Purtroppo avevo perso la cognizione del tempo. Era quasi la vigilia di Natale e, nel svoltare in una via, precipitai nel brusio di una folla omogenea guidata dalla livida luce dello shopping. Una folla adorante che mi catturò nel suo gorgo. Ero prigioniero di quei colbacchi, di quei corpi riscaldati da sciarpe e berrettini. La folla scorreva come un fiume e mi portava con sé. Io invece ero spaurito, disabituato a quella moltitudine.

Terrorizzato… persi il senno… cercai un androne in cui rifugiarmi… percepii appena un mio riflesso negli addobbi di una vetrina… continuai ad essere trascinato dal gorgo… cercai con la mano il souvenir nella tasca… un lieve conforto… la folla mi trascinava… avevo paura… poi una musica fortissima… acufeni dissonanti… altra gente… comparve improvviso l’abside del Duomo… quello vero… la musica altissima… le urla della gente… un’adunata sotto il palco… un comizio politico… la folla mi spingeva sempre più avanti… intravidi delle figure altissime e muscolose con gli occhiali scuri… la macchina blindata coi lampeggianti… lui che scendeva dal palco osannato dai presenti… lo riconobbi all’istante… era lui… il bamboccio… l’uomo della provvidenza… un brulichio di braccia lo invocava… la folla mi portava nel cuore di quel brulichio… così finii per trovarmi davanti al nuovo re… e lui che arricciava un labbro e mi guardava senza vedermi veramente… tendeva una mano… fu un istante…  io… io… io… incrociai il suo sguardo… abbiamo la stessa età… cos’altro potevo fare se non affondare il pugno nel cappotto e stringere il mio souvenir… estrarlo e…

luminosità…

                chiarezza…

                              illuminazione…

Davide Rosso