IL ROCK SPAZIALE DEI ROCKETS

I Rockets sono stati un gruppo musicale francese che ottenne il maggior successo in Italia tra gli anni Settanta e gli Ottanta con brani quali Future Woman, Space Rock, One More Mission, Electric Delight e soprattutto la reinterpretazione On the Road Again, ancor oggi talvolta trasmesso per radio, oltre a Galactica, vero e proprio tormentone del 1980 che ha permesso loro di vincere il Telegatto come miglior gruppo straniero.

Il loro genere iniziale era rock, definito subito dalla stampa “space-rock” per le venature fantascientifiche dei testi e dell’aspetto scenico e per le sonorità elettroniche e “aliene” dei primi lavori. Più avanti venne invece associato alla disco e infine al pop elettronico (synthpop), anche se in quest’ultimo caso probabilmente a torto.

La formazione del gruppo nel periodo di maggiore attività (1977-1982) era costituita dal frontman/cantante Christian Le Bartz, dal chitarrista Alain Maratrat, dal bassista e cantante Gerard L’Her, dal tastierista Fabrice Quagliotti e dal batterista Alain Groetzinger. Sesto elemento della formazione può essere considerato il produttore francese Claude Lemoine, che li creò e contribuì sostanzialmente a definirne il “sound”.

I Rockets sono ricordati per vari motivi e per molti di questi sono associabili e associati al genere fantastico. Tanto per cominciare si presentavano alle loro esibizioni come dei veri e propri extraterrestri, ricoprendosi il viso con una speciale crema argentea e vestendosi con delle tute in tessuto argenteo dal design fantascientifico.

Le copertine dei loro album e i testi delle loro canzoni si ispiravano all’iconografia e alla letteratura sci-fi del periodo, mentre il loro suono faceva larghissimo uso di elettronica, pur includendo anche basso, chitarra e batteria tradizionali.

I loro concerti erano caratterizzati dall’utilizzo di spettacolari effetti visivi (raggio laser e fumi), artifici pirotecnici, come bombe e bazooka spara fiamme (succedeva spesso che qualche spettatore si ferisse) e particolari effetti sonori, tra cui talk box, vocoder e un grande utilizzo di tastiere e sintetizzatori. Tra l’altro furono tra i primi, nel dicembre 1977, a inserire l’effetto delle luci laser nei loro concerti (insieme ai Pink Floyd e ai Genesis).

Assumevano spesso movenze e sembianze da robot e per questo accade spesso che vengano accomunati al gruppo tedesco dei Kraftwerk, anche se nel loro caso parliamo di musica elettronica e di uno stile a larghi tratti differente. Un altro motivo di confusione tra i Rockets e i Kraftwerk tra l’altro, è il fatto che i singoli On the Road Again del gruppo francese e The Robots di quello tedesco erano usciti entrambi nel 1978, entrambi con voce modificata con il vocoder.

Ma andiamo con ordine e partiamo dall’origine del gruppo.

Come spesso succede nella genesi di alcuni dei maggiori o più influenti gruppi sulla scena mondiale, gli inizi sono legati a una sorta di “comune”, una cerchia allargata di musicisti che vanno, vengono, collaborano, cambiano idea, tutti accomunati da una similare idea o intuizione musicale. Il produttore francese Claude Lemoine entrò in contatto con un gruppo di giovani e giovanissimi (all’epoca tra i 15 e i 20 anni) che, già stanchi del rock-blues “alla Led Zeppelin” in gran voga nella metà degli anni ’70 in Europa, avevano iniziato a sperimentare altre sonorità. Il gruppo, dopo gli inevitabili assestamenti e cambi di formazione e di nome avvenuti tra il 1974 e il 1976, si consoliderà a partire dal secondo LP (1978) nella formazione “storica” composta da Le Bartz, L’Her, Quagliotti, Maratrat e Groetzinger.

Il primo album ufficiale dei Rockets è l’omonimo lavoro del 1976, uscito però l’anno seguente nel resto d’Europa. Il disco è anche conosciuto familiarmente come Future Woman dal nome del brano-guida, presente in due versioni differenti che aprono e chiudono il disco. È anche conosciuto come il “Disco Verde”, dal cromatismo prevalente in copertina. Già in quell’anno il loro look spaziale, argenteo e alieno, è completo: usano costumi in lamé di taglio assolutamente fantascientifico, chitarre e bassi fatti costruire in forma di stella, sole o altri simboli arcani; l’uso del vocoder non è ancora arrivato ma le voci sono già fortemente elaborate da sembrare provenienti da altri mondi; negli spettacoli fanno uso di fumi, luci e pirotecniche non comuni in gruppi di piccolo calibro. L’unico pezzo che crea un certo movimento in radio è il sopracitato Future Woman, ma anche lo strumentale Apache, remake di un classico degli inglesi Shadows del 1962 si fa notare. Il resto dell’album è ricco di paesaggi sonori alieni e anche rockeggianti, ma nessuno degli altri pezzi lascia il segno.

Il secondo album (1978) porta il nome del brano che a tutti gli effetti li lancerà come pezzi da novanta delle classifiche centro-europee: On the road again. La base è un vecchio pezzo blues dei Canned Heat, blues band del Sud degli USA, pezzo che i Rockets interpretano secondo il loro caratteristico stile, facendone un tormentone disco-psichedelico che vende un gran numero di copie ed è ballato in tutte le discoteche nell’estate 1978. Il resto dell’album è della stessa caratura: i pezzi sono omogenei tra loro sia in stile che in sonorità, si sente che vengono dalle stesse menti, e mantengono, per così dire, l’atmosfera costante per tutta la durata dell’LP. Inoltre, la quantità e l’uso degli strumenti elettronici (vocoder e sintetizzatori, ma anche percussioni elettroniche ed effetti per chitarra) è onnipresente e per giunta molto avveniristico. Nel 1978 i Rockets, si può dire, “emigrano” in Italia. Il produttore Maurizio Cànnici, boss della CGD-Messaggerie Musicali, storica etichetta italiana, si “innamora” infatti di loro e riesce quasi a trapiantarli, con l’effetto che dall’estate 1978 in poi i Rockets saranno presenti in pianta stabile sul nostro territorio molto più di quanto non lo siano nella stessa Francia o nel resto d’Europa. L’operazione commerciale di Cànnici sortisce ottimi risultati: i Rockets in Italia arrivano subito in TV e le vendite dei dischi, le presenze ai concerti e sulle riviste sono pari a quelle dei più grandi calibri della musica internazionale.

I Rockets, per nulla intontiti dal successo, lavorano molto bene, velocemente e in maniera molto competente: nel 1979 esce il loro disco di maggior successo, Plasteroid, che aumenta ed espande il lavoro fatto sul disco precedente. Qui la produzione è ancora più decisa; i suoni più ricercati e percussivi; gli strumenti sono di più, meglio suonati e meglio registrati; l’elettronica è quanto di meglio offrisse la tecnologia analogica di quel tempo (gli strumenti digitali non erano ancora disponibili e si lavorava solo in analogico), ma è anche ben calibrata e non ossessiva. Ma è soprattutto il materiale musicale a fare la differenza: poca concessione ai pezzi strumentali rispetto ai vecchi album, ma le canzoni hanno molte colorazioni, sonorità accattivanti e preponderanti melodie, rimangono facilmente in testa e contribuiscono a far vendere l’album ben oltre il disco d’oro e di platino (oltre 1 milione di copie). Plasteroid è unanimemente considerato il loro lavoro migliore e il più rappresentativo in senso globale; le canzoni sono scritte quasi tutte a quattro mani dal bassista Gerard L’Her, che di solito le canta anche tutte, e dal chitarrista Alain Maratrat. Il loro successo è dovuto a un mix di 4 musicisti ricercatori di suoni nuovi che lavorano in perfetta simbiosi insieme al sesto Rockets: Claude Lemoine, il produttore. Il cantante Christian Le Bartz ha una posizione un po’ particolare: è sicuramente il frontman dal vivo, dove catalizza l’attenzione del pubblico “interpretando” le canzoni anche con le movenze sul palco, ma in realtà canta molto poco (solo alcuni interventi col vocoder e alcune strofe qua e là). Il cantante principale di tutti gli album dei Rockets dal ’77 all’84 è infatti il bassista L’Her. I testi, nella stragrande maggioranza, parlano di visioni di un mondo futuro, di possibilità tecnologiche e umane, di desiderio di altri mondi su cui ricominciare. Non ci sono testi d’amore, di introspezione, di denuncia, o altro; una ragione per la quale parte del pubblico li considera, in ogni caso, un gruppo “leggero”. Un’altra nota va fatta sui numerosi brani strumentali presenti nei loro dischi. È raro che un gruppo di nascita “rock” si dilunghi in brani strumentali, a meno che non siano code o “jam-sessions” alla fine di brani cantati. I Rockets in 5 dischi ne inseriscono invece addirittura 8 (10 se non consideriamo alcune voci di sottofondo presenti in un paio di brani), un vero record.

Tra il 1979 e il 1980 escono anche un album dal vivo, intitolato semplicemente Live, e una compilation con un paio di brani inediti, Sound of the Future, che nulla aggiungono e nulla tolgono alla loro fama e sono destinati solo ai fan più fedeli e ai collezionisti.

Nel 1979 i Rockets si presentano in scena con i costumi adottati nel 1978 durante l’ultima fase del tour di “On The Road Again” e lo show dal vivo cresce a misura di stadio: il laser è il medesimo adottato l’anno prima e gli artifici tecnici di scena si sprecano. Ma il culmine viene raggiunto nella primavera del 1980, quando inizia il tour italiano: il palco deve ora ospitare due enormi “cupole” contenenti le intere postazioni di tastiere e batteria, e due “uova” dalle quali, all’inizio del concerto fuoriescono il chitarrista e il bassista: queste quattro grosse e complesse macchine scenografiche si aprono a inizio spettacolo in un tripudio di fumo, luci e laser sulle note della prima canzone.

Nella primavera 1980 esce il loro lavoro-culmine, Galaxy, un disco molto ambizioso e a tratti eccessivo, dove il gruppo riversa tutte le sue energie e potenzialità, quasi a voler fare una sorta di monumento musicale a sé stessi. Il livello del materiale musicale è paragonabile al lavoro precedente, quindi molto buono, ma è certamente meno spontaneo, più incostante ed eccessivamente tecnologico. La registrazione è a livelli di perfezione mai raggiunti prima, la produzione precisissima, gli strumenti sembrano suonati da robot tale è l’assenza di sbavature, impressionismi, incertezze. Il “tiro” dei brani è aggressivo, il tempo molto scandito e si intravede il primo accenno della tecnologia digitale che permette la replicazione infinita di segmenti di musica senza che il musicista fisicamente li riesegua; tutto questo contribuisce a creare un album potente e molto maschio, preciso e cristallino, che però si chiude con una nota malinconica: un “medley”, cioè un pasticcio di brani di loro vecchie canzoni mixate un po’ alla rinfusa, quasi a ricordare il tempo che passa, e a voler vedere una differente strada più avanti.

Il successo commerciale rimane però abbastanza costante anche per questo disco, nonostante sia quasi chiaro a tutti come il periodo d’oro della band sia ormai passato e questo album rappresenti la fine di un’era. Del resto anche il clima musicale nel mondo è ormai cambiato: finiti i fasti degli anni ’70 dove si poteva tentare di tutto e finiti anche i tempi della disco, è iniziata la grande riscossa della musica indipendente, iniziata con il punk e la New Wave in Inghilterra già nel ’77-’78, e giunta ormai a maturità commerciale nel 1980. L’elettronica non è più appannaggio di pochi eletti, e le sonorità in auge diventano più moderniste, più scarne, più “dark”. In una parola, più “fashion”.

A causa di tutto questo il nuovo disco dei Rockets per il 1981, quasi pronto, viene rifiutato dalla casa discografica CGD e il gruppo viene forzato a rimettere in discussione se stesso e il proprio sound, e non ultimo l’aspetto scenico per adeguarsi alle nuove tendenze. I brani resteranno inediti e il disco fantasma non venne mai più pubblicato. Questo creerà grosse tensioni tra i musicisti e il loro management: infatti dopo varie questioni e incomprensioni con i loro produttori, la situazione si assesta in una forma ibrida. Le nuove canzoni non sono più scritte prevalentemente da l’Her e Maratrat, bensì molte portano la firma del produttore Lemoine o di autori esterni. Entrano a suonare sul disco anche musicisti che avevano collaborato coi Rockets a inizio carriera; circolano servizi fotografici in cui i costumi argentei da alieni sono sostituiti da abbigliamento informale o da lavoro.

L’album che esce nel 1981, π 3,14, è un disco pieno di sorprese, ma se si pensa che il grande pubblico ha ormai spostato l’attenzione sulle produzioni new wave inglesi, non può reggerne il confronto. I suoni più scarni, la produzione più moderna, l’intervento di altri musicisti e le voci di donna non ottengono i risultati sperati. Nel complesso l’album non disturba troppo le classifiche e gli show dal vivo si restringono parecchio in dimensioni e in affluenza di pubblico. A seguito di questo calo di popolarità avviene la rottura definitiva fra il gruppo e il produttore storico Claude Lemoine.

Il successivo Atomic (autunno 1982), proseguimento stilistico di π 3,14, pur mantenendo in copertina i credits a Lemoine viene in realtà autoprodotto dal gruppo. Vede un ritorno alle sonorità “spaziali” e un rinnovato look argentato con nuovi costumi e ottiene nuovamente un certo successo di classifica, anche grazie all’ottima hit che lo precede in primavera, Radio Station. Nonostante tutto però il disco sancisce ufficialmente la fine del “periodo argentato” e in seguito la band rischierà di finire nel dimenticatoio.

Nel 1984, per la prima volta senza Claude Lemoine, i Rockets, quasi irriconoscibili, con meno idee è già piuttosto divisi – Christian Le Bartz è stato sostituito dal pur bravo Sal Solo (inglese, ex new-waver, già cantante dei Classic Nouveaux e oggi interprete di musica cristiana negli USA) e pure Gerard L’Her verrà rimpiazzato a breve – si presentano ancora rapati a zero, però struccati, con gilet gialli hi-tech che poco hanno a che fare con le apparizioni fantascientifiche cui ci avevano abituati, e propongono Imperception, album di buon riscontro, il cui singolo Under The Sun diviene la sigla di chiusura del Festival di San Remo di quell’anno.

Per il successivo album One Way (1986) addirittura i Rockets adottano un look “new romantic” con pizzi e ciuffi laccati e il nome modificato in “Rok-etz”. Segue un tour che ha un discreto successo, ma ormai i continui abbandoni dei componenti storici, stanchi di suonare dal vivo e troppo affezionati al passato, hanno fatto perdere ai Rockets/Rok-etz una parte della loro originalità e della loro forza e dopo il tour il gruppo si scioglie.

Dopo un lungo silenzio, nel 1992 il produttore Claude Lemoine ha un rigurgito e richiama il tastierista Quagliotti, il chitarrista Maratrat e il cantante Sal Solo per assemblare un album sfruttando la nuova tecnologia digitale e il sampling, affiancandogli i nomi di alcuni musicisti di studio, tra cui Nick Beggs, ex-bassista dei Kajagoogoo, Mike “Clip” Payne, cantante e percussionista che collaborò con Prince, e altri. Viene realizzato così Another Future che però non vende granché, non venendo affatto promosso da stampa e tv.

Nel 2000, grazie all’impegno del tastierista Fabrice Quagliotti, (legale titolare del nome “Rockets”) nonché proprietario dei master, viene creato il progetto “Rockets N.D.P.”, con una line-up completamente differente: Fabrice Quagliotti alle tastiere, Luca Bestetti “LBM” alla voce, Bruno Durazzi “Little B” alla batteria e Matt Rossato alla chitarra. Nel 2003 esce così un nuovo album come Rockets, Don’t stop, che però delude per i dati di vendita (inferiori al “periodo argentato”). In particolare viene criticata la presenza di 4 remix di vecchi successi, oltre a una produzione non all’altezza, curata dal DJ Joe T. Vannelli, e un look “ibrido” con pochi richiami ai costumi alieni del “periodo argentato”. La neonata band subisce inoltre ulteriori cambi di formazione: nel 2004 arrivano Gianluca Martino (chitarra) e l’amico d’infanzia di Fabrice Quagliotti Rosaire Riccobono (basso), già bassista dei “Visitors” e già presente con i Rockets sia nel disco π 3,14 che nei live del 1984. Nel 2005 Little B lascia il gruppo e viene sostituito da Eugenio “UG” Mori. Nel 2006 esce il singolo Back to Woad che però viene snobbato dalle radio. Dopo, per incompatibilità artistica con Quagliotti, LBM viene ringraziato e lascia la band. Al suo posto viene scelto il bravissimo canadese John Biancale. A soli 3 anni di distanza da Don’t Stop la band ha quindi già cambiato completamente formazione (tranne Fabrice Quagliotti), fatica a trovare stabilità, ma torna comunque in studio per rivedere i brani che erano pronti per uscire nel 2007 e che invece slitteranno ulteriormente, ancora a data da destinarsi.

Nel giugno 2007 è stato pubblicato in tiratura limitata il cofanetto The Silver Years dedicato in parte ai fan e ai collezionisti, il quale ripropone per la prima volta su CD i primi 7 album dei Rockets, dall’omonimo LP del 1976 fino ad Atomic uscito nel 1982, comprendendo anche Live uscito solo in Italia nel 1980 e alcune bonus track, tra cui due brani inediti del 1980 che avrebbero fatto parte del disco fantasma, mai uscito dopo il clamoroso successo di Galaxy.

Attualmente è possibile scaricare su iTunes la discografia del “periodo argentato” dei Rockets, mentre nel 2009 è stato pubblicato un secondo cofanetto, A Long Journey, contenente per la prima volta i video storici, alcune parti di concerti e 5 CD di rarità/live/demo. A causa di tale scelta esso risulta più indirizzato ai fan che al grande pubblico. Rimane tuttavia, grazie ai 2 DVD non venduti separatamente, un’occasione unica di vedere i Rockets “storici”. Con la pubblicazione di questo secondo cofanetto risulta “ufficializzata” la pubblicazione della maggior parte del materiale del gruppo. Restano “non ufficialmente pubblicati” due album (Imperception e One Way), una parte del disco fantasma e alcune rarità. Sempre nel 2009 è uscito anche il singolo World On Fire, che però non ha ottenuto i risultati sperati a causa di una mancata distribuzione e promozione dello stesso, tema centrale e dominante della storia del gruppo dal 1992 a oggi. Infine è del 2010 un altro boxset intitolato semplicemente “The story”.

E per il momento la musica dei Rockets si è fermata. Per quanto riguarda gli ex-componenti della formazione storica degli anni Settanta e Ottanta circolano numerose leggende e storie, ma in realtà, dismessi i panni degli “alieni”, tutti hanno ripreso una loro vita normale lontano dalla ribalta. Gerard L’Her vive nel sud della Francia e nel 2009 – dopo 25 anni di assenza dal mondo dello show business – ha pubblicato un disco solista dal titolo A perfect world, distribuito da Audioglobe. Alain “Grotzo” Groetzinger ha preparato una biografia sulla sua vita da Rockets che potrebbe venire pubblicata in un prossimo futuro, mentre Alain Maratrat, dopo il grande successo ottenuto con la produzione di Jordy, il bambino terribile della discografia anni Novanta e figlio del loro ex produttore Claude Lemoine, resta nel mondo della musica insegnando chitarra e dilettandosi a suonare blues con alcune band francesi. Lontano dalla musica è rimasto invece il frontman, l’uomo immagine dei Rockets argentati, Christian Le Bartz che, con l’abbandono dei Rockets nel 1983, ha lasciato definitivamente la scena musicale, ma che nonostante tutto continua a essere un mito per tutti i fan che lo hanno visto dal vivo negli anni ’80, lo ricordano e continuano ad alimentare leggende su di lui e su quello che faceva durante gli show in assoluto più belli e spettacolari di quegli anni. Vive in Normandia, gestisce allevamenti di cani e distribuzione di mangimi per animali. Luca Bestetti in arte LBM, cantante dei Rockets negli anni 2000, si dedica a un progetto personale chiamato “One Rocket”. A oggi è stato autoprodotto un cd-single intitolato Human Race, mentre è ancora in lavorazione un album dal titolo Abduction.

E per il momento i Rockets restano, oltre che nella memoria di noi tutti, in un “limbo spaziale” dal quale stiamo aspettando che ritornino… sempre che riescano a superare tutti i “buchi neri” della discografia attuale!

Davide Longoni