IL FRATELLO MATTO

Eravamo due fratelli, di buona famiglia, con un’educazione che per i tempi di allora era notevole. Vivevamo in un piccolo paese in pianura e il nostro mondo era davvero tutto lì: era una zona splendida, piena di campi di carciofi e pomodori, dove la gente viveva di quello che il terreno offriva. La nostra famiglia sfruttava come tanti altri i suoi possedimenti e dava lavoro a parecchia gente in paese, pertanto eravamo molto conosciuti non solo perché tutti sapevano di chi eravamo figli, ma anche perché tutti sapevano che cosa possedevamo.
Anche se partivamo con le stesse premesse, io e mio fratello eravamo diversi: lui era più giovane di me di qualche anno e, anche se fisicamente eravamo molto simili, eravamo totalmente diversi caratterialmente. Lui era il classico buon figlio: tranquillo, lavorava sodo insieme a mio padre. Appena gli fu possibile si sposò con la sua fidanzata e andò ad abitare nel centro storico del paese, in una casa molto grande, che si animò ben presto della voce di bambini. Io no. Io ero quel fratello che preferiva stare nella bettola a bere vino, ogni tanto ero coinvolto in qualche rissa e spesso tornavo a casa col naso rotto. Quella buon’anima di mia madre era disperata, faceva dei voti a Santa Greca nella speranza che mi calmassi, ma si stancò anche di fare quelli, dopo aver constatato che non mettevo la testa a posto.
Se allora ci fossero stati gli psicoanalisti che ci sono ora, sicuramente avrebbero detto che io, il fratello che molto probabilmente non si sentiva accettato in famiglia, stavo cercando di trovare il mio spazio nel mondo e in quella realtà che evidentemente trovavo opprimente. Se fossimo stati in qualche altro periodo mio padre mi avrebbe dato dei soldi per vivere decentemente in un altro posto, in modo da non disturbare e per non rovinare il buon nome della famiglia. Ma non era così, pertanto rimasi sempre in paese, vissi lì tutta la mia esistenza. Non mi sposai mai: ero innamorato, ma la ragazza non apparteneva alla mia stessa classe sociale quindi mi impedirono di sposarla. Io so che anche lei mi amava, la vidi piangere il giorno che si sposò con un contadino portando in grembo mio figlio. In seguito so che se ne andò via insieme al marito, per non tornare mai più. Sono sicuro che è stata felice e che mio figlio forse ha trovato un padre migliore di quanto avrei potuto essere io. Per quanto mi riguarda, se già ero scostante, divenni una specie di eremita che viveva e si nutriva della propria infelicità. Andai ad abitare davanti alla casa del mio buon fratello che, tutto sommato, mi capiva e mi voleva bene per quello che ero. Sua moglie mi portava spesso il pranzo o la cena pronta, mi sollecitava nella pulizia personale che era diventata alquanto scarsa, e mandava spesso i suoi figlioletti a trovarmi. Non abitavo da solo: avevo un gabbiano che ogni tanto saltava il portone per andare nella casa di fronte alla mia, dove poteva trovare delle sarde appena comprate che la nonna di quella famiglia voleva dare al suo gatto. Questa era la sola compagnia costante che avessi, l’unica che ormai potessi permettermi di sopportare. Ero infelice: per la mia famiglia mancata, per l’affetto che non potevo ricambiare come si doveva ai miei nipoti, per la consapevolezza che sarei morto da solo vecchio e pazzo. Ero pazzo: sognavo dei momenti di quando ero ragazzo totalmente diversi da come erano accaduti, vedevo la ragazza che mi aveva fatto innamorare partorire un bambino morto; sentivo che nella mia casa c’erano delle presenze strane che si aggiravano e che si divertivano ad alzarmi le coperte di notte e a spegnermi il fuoco del camino.
Ormai in paese ero conosciuto come Il Fratello Matto, quando passavo io la vita si fermava e tutti mi osservavano come se fossi chissà cosa, forse si aspettavano che iniziassi a sbavare e a imprecare contro Dio e gli uomini. Mi succedeva, lo ammetto, ma molte volte ero ubriaco seduto sul portone della mia casa. Allora arrivava mio fratello, mi dava qualche pugno e mi faceva fare una doccia fredda, mi preparava il letto e la minestra e mi faceva coricare. Aspettava con me che mi addormentassi: mi raccontava dei suoi figli e poi dei suoi nipotini, quando sua moglie morì capitò spesso che si fermasse da me tutta la notte. Visse a lungo mio fratello, conobbe le gioie della famiglia, conobbe addirittura i figli dei suoi nipoti. Questo successe anche a me, ma in modo diverso. Io morii prima di lui, a causa degli eccessi che avevano caratterizzato la mia vita, ma quello che solitamente viene chiamato passaggio, per me non c’è stato. Non so perché, mi aggiro ancora per le stanze di quella che fu la mia casa e che ora sta cadendo in rovina, per i cortili delle case accanto, con aria triste. Osservo spesso gli abitanti della casa di mio fratello, che sono suoi nipoti: una bella famiglia vivace e allegra, dedita al lavoro come era lui, di animo tranquillo. Loro non mi hanno mai visto, sanno di me attraverso le storie di famiglia. Alla fine, penso, perché dovrei farmi vedere? Per spaventarli? Per essere meno solo io? Non sarò egoista come lo sono stato in passato. Ho deciso che, in questa mia situazione, non mi farò mai vedere da nessuno. Solo una persona mi ha visto: un operaio che stava facendo dei sopralluoghi nei pressi di casa mia, volevano abbatterla per farci una banca. Sono spuntato da un’ombra e lui è scappato, in preda al panico: si sarà spaventato per il fatto che ho un coltello conficcato nella mano, con il quale una sera, ubriaco, mi sono tagliato un dito perché mi faceva male?

 

 

Nota bene: racconto liberamente inventato su un vicino di casa della nonna, effettivamente un po’ strano, che davvero aveva un gabbiano per animale domestico e che per davvero si era tagliato il dito che era indolenzito.

04/03/2010, Roberta Lilliu