FUNDUS OCULI

Il ragazzo era rimasto sdraiato per molte ore sul suo letto fissando il soffitto, come in contemplazione di fronte a una pagina lasciata elegantemente bianca e nella mollezza delle ore pomeridiane si ricordò all’improvviso di un piccolo gioco che da bambino gli era stato insegnato: si doveva fissare un punto luminoso della stanza – una finestra, una lampada, una candela – e sbattere più volte le palpebre per poi richiuderle con forza per un minuto, per stillare dalla nera cavità del suo occhio la luce dei fosfeni, i quali si accorpavano in un’immagine equivalente al negativo dell’oggetto luminoso poco prima fissato.
Adorava pensare che il suo occhio si comportasse esattamente come una macchina fotografica, e dopo aver trattenuto per un po’ tale sagoma nella sua cavità retinica riapriva gli occhi, sorridendo immancabilmente quando la figura proiettata sul bianco soffitto era fedele a quella originaria, seppur leggermente trasfigurata dal ribollire del grigio, del viola e del marrone al suo interno.
Ma il ragazzo era riuscito col tempo a sviluppare la sua tecnica: se faceva roteare la pupilla a occhi chiusi ecco che l’immagine iniziale si sfilacciava in morbide spirali o figure elicoidali; a volte, se osservava troppo intensamente la figura luminescente, essa mutava in continua successione: si espandeva, ramificava, mutandosi in un fitto groviglio di nervi o rami oppure in un cielo stellato, oltre al quale non poteva resistere poiché l’occhio iniziava ad affaticarsi sotto sforzo. E una volta sollevate le palpebre ecco che la pupilla proiettava la sua creazione sul soffitto, la quale nuotava nelle sue orbite espandendosi pigramente, trascinata dalla dolce umidità oculare: la languida deriva disfaceva lentamente l’opera di Sid in tanti filamenti scomposti e disordinati.
Il ragazzo accese la sua sigaretta e vide leggere nuvole bluastre espandersi mollemente verso l’alto, mescolandosi a quei traslucidi filamenti a cui l’occhio aveva dato l’illusione di vita: solo un’ingannevole armonia di intrecci. Egli si alzò dal suo letto solo quando tra quelle morbide onde si intrufolarono le lunghe dita delle ore serali, sbrogliando svogliatamente il lungo lavorio di maglie intessuto: rimase seduto per pochi istanti, il tempo necessario per sentire il peso della sua testa cadergli addosso e far rientrare in circolo il suo sangue, il guizzare dei nervi, il ricordo di lei, di cui ormai non rammentava che pochi tratti del suo volto. Spense la luce strizzandosi gli occhi per cercare di abituarsi al cambio di luce e solo in quel momento si rese conto che ormai era sera e, siccome non conosceva ancora bene la casa e l’unico interruttore che sapeva ritrovare era giù in cucina, si avvicinò pigramente verso le scale che davano al pian terreno.
Nel buio le mani frusciarono incerte lungo i freddi muri divisori fino all’interruttore del salotto e improvvisamente una pallida luce giallognola irruppe in quella silenziosa penombra: una luce debole, d’un giallo incerto e malaticcio, quasi ruggine. Il ragazzo non provò molta consolazione da quell’incerto chiarore e si avvicinò d’istinto alla cucina, forse per cercare il conforto del focolare in quella casa sconosciuta, ma inutilmente: una pila di piatti sporchi campeggiava da un minuscolo lavandino, un sottile strato di unto patinava il lungo ripiano mentre il disordine generale conferiva al tutto un aspetto caotico ma desolato. Sid si mise a pulire i piatti spinto da un gesto meccanico, distrattamente, pensando a lei altrettanto confusamente – a qualche ricordo sbiadito in cui lui era piccolo ed ella era ancora una bella donna, a quell’anonimo funerale che chissà se le sarebbe piaciuto, alla soporifera voce del prete, ai canti nasali delle donne, a quella triste volta in cui loro due…-   sino a quando dal rubinetto cominciò a scendere acqua gelata, quasi tagliente tra le sue dita rosse e doloranti dal freddo.
Sid fece un movimento per dirigersi verso la stanza della caldaia ma si accorse, all’improvviso, che non poteva muoversi: letteralmente inchiodato su quelle povere piastrelle, l’inerme giovane tentò più volte di spostarsi ma i suoi piedi si rifiutavano di rispondere ai comandi del cervello. La mente non riusciva a controllare i muscoli, i quali avevano già avevano capito tutto, e in quel momento una nuova, terribile consapevolezza iniziò a prendere progressivamente il sopravvento: aveva paura. Un terrore insidioso, indefinito, senza presupposto sorse dal nero dell’incoscienza per impadronirsi di lui e più la consapevolezza di questo sentimento aumentava più Sid sentiva irrigidirsi meccanicamente la fisionomia del suo volto.
Con tutta la forza della sua volontà rivolse il suo sguardo verso l’ingresso della cucina per guardare ciò che la sua visione laterale aveva già inconsciamente scorto: riflessa dal vetro di un mobile del salotto sembrava l’immagine sfocata e trasfigurata di un busto femminile. Strinse istintivamente i pugni e sentì le unghie conficcarsi violentemente nella carne senza distogliere lo sguardo da quella vaga e minuscola sagoma che non poteva appartenere a una persona lì presente, che rimase impudentemente immobile, con la bianca testa rivolta verso di lui, un volto senza occhi, naso o bocca; solo una rotonda e candida figura incorniciata da un fine velo scuro, tremendamente familiare. Il vetro alterava pesantemente l’identità di quella donna e per un tempo incalcolabile Sid e la figura rimasero fissi l’uno sull’altro, immobili, in un silenzio interrotto solo dal gocciolio del rubinetto: rintocchi secchi, scanditi, battiti di cuore in un silenzio dove respirare è frastuono. Sentì tutto ciò che lo circondava comprimersi e restringersi implacabilmente attorno a quella figura, in una lenta vertigine dove l’unico punto fermo erano i suoi occhi e lei mentre tutto il resto sfumava nell’indistinto; Sid aspettava, attendendo da ogni silenzio un nebbioso richiamo, da ogni alone una soffocata presenza, lasciandosi digerire lentamente da quel terrore insostenibile: si sentì improvvisamente spoglio di tutto quello che era stato, nudo, un pezzo di carne, una cellula staminale di fronte a quell’inconcepibile sagoma e aspettava inerme e tremante il momento in cui lei l’avrebbe annullato in sé. Ma un improvviso sussulto ruppe il gelo di quel silenzio; Sid notò che quell’immagine gli era molto familiare e all’improvviso la riconobbe, riconobbe quella sbilenca silhouette senza poter credere ai suoi occhi: Sid la guardò sino allo stordimento, cercando di reinterpretare quell’immagine attribuendogli alternative identità, ma più la osservava e più l’iniziale certezza era confermata, non poté avere alcun minimo dubbio, l’immagine della Gioconda.
Era uno dei quadri che più nei suoi studi aveva detestato, che era stato costretto a ricordare a memoria e di cui aveva perfino studiato i suoi spostamenti nel corso dei secoli e le relative influenze sullo stile dei molti pittori che l’avevano ammirata nei suoi numerosi viaggi: mai si sarebbe sognato di appendere quel quadro, che gli era divenuto così noiosamente scolastico, in salotto. Ed ecco la Gioconda lì riflessa nella stanza accanto o forse un semplice riverbero che la sua immaginazione alterava, dandogli le fattezze della donna leonardesca. Gli sarebbe bastato avvicinarsi al salotto e fare capolino dalla porta per accertarsi che non ci fosse nulla o nessuno. Ma non lo fece. Rimase lì per chissà quanto tempo, tendendo gli orecchi a ogni singolo scricchiolio, a ogni più piccolo tonfo, facendo attenzione a non coprire alcun rumore sospetto di passi con il proprio respiro: le sue mani si muovevano confusamente nel vuoto, poiché il suo sguardo era sempre rivolto a quell’immagine per monitorarne ogni eventuale movimento.
Ma la Gioconda senza volto rimase immobile per tutto il tempo, mentre la morsa dell’inquietudine non dava tregua al ragazzo, che cominciava a sentirsi cedere le gambe e tirare i muscoli facciali in uno spasmo doloroso. Ma assieme all’angoscia e al terrore, un vago senso di colpa cominciò a sorgere in lui sempre più netto, una colpa commessa o forse un qualcosa lasciato in sospeso o compiuto quando ormai era troppo tardi: il pensiero di Sid ritorno a quella persona defunta, a quell’avvenimento che li aveva separati, alla sua morte prematura e inaspettata, alla sensazione di confuso rammarico che Sid allora aveva provato per non aver avuto il tempo di riconciliarsi, al senso di colpa per quella persona che era morta con l’immagine di quella loro tremenda separazione nelle sue memorie… Sid si sentì improvvisamente più sollevato a quel pensiero, trovando un perché in tutto quell’immotivato terrore, semplicemente frutto di un suo bizzarro modo di elaborare il lutto, una catarsi che trasformava la realtà che vedeva in un teatro di desolazione e sconforto: solo allora si fece coraggio e oltrepassò quella soglia; e vide che non c’era nessuno.
Sid ripercorse le scale e le salì con una sicurezza costruita ma che poco prima – un tempo che gli sembrava stranamente remoto – non avrebbe nemmeno concepito di attraversare. Ripercorse il semioscuro corridoio fino alla sua spoglia stanza, che nel frattempo era rimasta nel buio; gli sembrò di non rientrarci da anni. Con sicurezza il ragazzo accese la luce e una forte e viva luce illuminò la sua stanza, che solo allora gli era apparsa così spoglia e anonima; Sid si sdraiò sul letto e si stirò le gambe indolenzite dalla troppa immobilità e osservò la gigantesca plafoniera tonta che troneggiava sul soffitto: Sid la osservò per qualche momento ma la luce era troppo accecante, assomigliante a un sole allo zenit; sbatté le palpebre per mezzo minuto e se le stropicciò assonnato: nel segreto nero di quell’alcova Sid vide lampi lucenti roteare vorticosi, che si accorpavano in lunghi filamenti luminescenti impastatisi tra loro e sfilaccianti in un’elegante cedevolezza.
Le palpebre si sollevarono con pigra lentezza sazie di quello spettacolo di lampi ma nel riaprirgli una fitta mortale lo attraversò tutto come un lampo e i suoi occhi infossati rimasero sbarrati in una posa di orrore: come il negativo di una foto, marchiato a fuoco nella sua retina, sul soffitto vide la sagoma scura di un volto, una sindone inespressiva, il volto di lei.
11/02/2010, Maria Cristina Boschini