I FIGLI DELL’ODIO

Hanno un bel dire, i dottori. Si riempiono la bocca di parole importanti. Nevrosi. Schizofrenia. Disturbi della psiche.

Ti fanno stendere su un lettino e passano ore a raccontarti che ciò che vedi non è reale. Visioni e fantasie create dal cervello stressato.

Balle. Tutte balle. Ho cercato di convincerli. Voci, rumori, immagini. Fatti concreti, insomma. Nulla. Rifiutano di credermi.

Lo so io, quello che accade di notte nel mio appartamento, mentre i dottori se ne stanno a ronfare beati. E so anche perché.

La rabbia. Il rancore. L’odio.

Non sono semplici stati d’animo. Il cervello emette onde. Crea campi magnetici e li diffonde come cellule tumorali. Si appiccicano alle pareti, macchiano i mobili, si infilano nelle pieghe dei tessuti, sotto la pelle dei divani, dietro i battiscopa. Io lo sento. Ne avverto la presenza appena apro la porta di casa. Come la puzza di arrosto in una stanza chiusa.

Stanno lì nascosti, scarafaggi senza corpo, pompando energia negli oggetti sino a infondergli vita e pensieri propri.

Le vedo, le espressioni stupefatte. Storcete la bocca, alzate gli occhi al cielo e poi giù un bel sospiro di compassione. Guarda cosa ci tocca leggere, le fantasie di un pazzo.

Pazzo? No, è tutto vero.

Agosto. Notte fonda, finestre chiuse, aria irrespirabile. Lei ha freddo! La stanza da letto bolle di afa e rancore. L’ennesima questione con mia moglie. Urla, schizzi di saliva e a dormire il più distanti possibile, lo stomaco contratto e l’adrenalina che scorre a fiumi.

Mi alzo di scatto, con i crampi alle gambe e il fiato corto. Attacco d’ansia, bocca impastata. Respiro male, i polmoni sembrano spugne secche.

Non è possibile andare avanti così. Stesse liti, stessi discorsi, nessuno che ascolta. Come parlare al muro. O ai mobili.

Già, i mobili.

Davanti agli occhi ho il comò. E’ una grande bocca, con i cassetti trasformati in labbra gonfie e tumide. Una lingua viscida le lecca, poi si allunga sfiorandomi la guancia con un gesto affettuoso. Sorride, ha capito tutto.

Esco dalla camera. In fondo al corridoio c’è un rettangolo di luce verde, pulsa lento al ritmo di un cuore malato. La porta. Sul vetro dell’infisso compare il viso di un bambino. Ferito e coperto di piaghe. Gli occhi si spalancano e la bocca si deforma in un pianto muto.

Cerca vendetta.

Entro in sala. Sono tutti svegli, mi fissano preoccupati. Faccio un saluto stanco. Il sonno ormai è andato, tanto vale scambiare due parole.

— Cosa dovrei fare? — chiedo ansioso

Rispondono subito. Un concerto di sibili e squittii di topi spaventati.

Annuisco soddisfatto. — Lo pensate anche voi? Sono contento.

Mi avvicino alla cucina. La poltrona si trascina al centro della sala, lasciando una bava verde sul parquet. Sembra una enorme lumaca. Vibra, quasi fa le fusa. Non è mai stata di molte parole, ma è d’accordo anche lei. Il divano sogghigna. Due file di denti neri e aguzzi, come la bocca di uno squalo, si agitano sulla spalliera in pelle bianca.

Accendo la luce. Le pentole sono tutte sul tavolo, impilate l’una sull’altra. Furbe! Per risparmiare spazio non hanno formato la parola “Uccidila” ma un bel “Kill”, più pratico e essenziale.

Siamo tutti della stessa idea. La decisione è presa, devo darmi da fare. Sono tentato dal martello. Grande, col manico in legno e il corpo di ferro un po’ arrugginito. Sarebbe una bella soddisfazione, fisica e intensa, ma non voglio spaccarle la testa. Mi serve intera. Ripiego sul coltello, quello per l’arrosto. Più pratico.

Mi avvio verso la camera.

Il tappeto mi fissa con occhi spaventati. Le lunga ciglia nere, simili a antenne di un insetto, spuntano dai ghirigori bianchi e blu e sbattono frenetiche.

Non deve preoccuparsi. Non sporcherò. Siamo d’accordo con il letto. Gli ho promesso tutto il sangue. Se lo merita. Quanto ha sopportato!

Ora corro, felice, lungo il corridoio. Il pavimento si gonfia in lunghe onde, spronandomi. Inizio a colpire mia moglie. Urlo di piacere mentre affondo il coltello una, dieci, cento volte. Il sangue schizza, mi copre il viso, mi impasta i capelli. Il letto sente il profumo, si anima, è un mare in tempesta. Al centro si apre una gola nera, rotonda, piena di rostri gialli. Beve veloce, con gusto. Le lenzuola si separano in strisce sottili, frustano l’aria come tentacoli di una piovra affamata. Succhiano, puliscono.

Momenti fantastici.

Mi fermo. Respiro a fondo, lasciando scendere la pressione. Ascolto gli ultimi gorgoglii. Suono dolce e ipnotico.

Bene. E’ fatta. Passiamo alla ricompensa. Sono un generoso, non trascuro gli amici. Inizio a tagliare piccoli tocchi di carne. Cercherò di contentare tutti. Li sento là fuori. Strisciano, ululano, invocano. Hanno fame.

Metto da parte la testa. Per quella ho un programma speciale. Il lavandino e la doccia sibilano di piacere al solo pensiero, ma dovranno accontentarsi di piccoli bocconi. Il vaso, invece, guaisce e mugola. Dilatato, occupa l’intero bagno, sembra un fiore bianco dagli enormi petali carnosi. Freme nell’attesa, deglutisce a vuoto con un singhiozzo strozzato.

Taglio i capelli, cadono per terra misti a pezzi di pelle. Il pavimento li assorbe, scompaiono come biscotti nella cioccolata calda. Afferro la testa, liscia come un pallone di basket. Due passi, mi fermo sulla porta del bagno e la lancio nella voragine biancastra. A dispetto della mole il vaso scatta come una molla, si richiude di colpo con un sussulto, sputando saliva rossa sino al soffitto.

Ho terminato. Non avevo scelta. Lo sanno anche loro, i miei unici amici. I miei figli. L’appartamento è buio e silenzioso. Tutto per me.

Una scarica elettrica, un fascio di luce blu. La televisione si accende, mi illumina, come il cono di un riflettore a teatro. E’ un omaggio. Chiudo gli occhi, faccio un inchino, saluto il mio pubblico. Un libro freme, si agita, batte la copertina come un paio di ali e, con un tremore primordiale, si alza in volo. Rimane sospeso in aria con un ronzio, colibrì di cartone colorato. Un altro cenno di gratitudine. Sono commosso.

All’improvviso il libro scatta. Mi colpisce in faccia.

Spalanco gli occhi, mi tocco la guancia. Prima di poter aprir bocca altri volumi si alzano in volo. La stanza è piena, sfrecciano su e giù, sbattono sul soffitto, urtano le pareti, perdono pagine come piume. Poi si fermano, unica coscienza, e si lanciano all’attacco.

Sul viso, tra i capelli, sulla schiena. Furiosi, graffiano e strappano pezzi di pelle con gli spigoli cartonati. Un colpo violento sul viso, sangue e liquido colano dagli occhi. Non vedo più nulla. Alzo le mani per proteggermi.

Cado all’indietro, mi rialzo. Urlo. Mi spingono verso il divano. La bocca sbadiglia affamata, in attesa.

L’ultimo libro mi colpisce alla nuca. Rotolo in avanti, sento il puzzo della pelle conciata, scivolo con la saliva giù per la gola. I denti mi afferrano, mi tagliano, mi spezzano ossa e muscoli.

Perché? Io sono il loro padre. Gli ho dato la vita.

L’ultimo pensiero è di rammarico. Non avevo capito.

Non erano miei amici. Non odiavano solo lei.

Ci odiavano tutti e due.

Roberto Guarnieri