I SIGNORI DELLA VITA

Costruire un albero è relativamente facile” bisbigliò fra sé Fridrik. “Lo si può quasi fare a propria immagine e somiglianza… “Qualcuno direbbe che è sufficiente prendere un gene di qua e uno di là e il gioco è fatto. In realtà le cose sono un po’ diverse…
E’ vero, le regole che sovrintendono alla creazione degli ogm sono semplici e una volta appreso come utilizzare al meglio la materia prima che la natura ci offre il resto è pura routine. Ma è comunque necessario l’intervento dell’uomo, poiché le risorse naturali a disposizione sono troppo grezze e vanno opportunamente modificate per raggiungere l’obiettivo prefissato… non si può lasciar fare alla Natura che, magari, per giungere allo stesso risultato ci metterebbe milioni di anni. Se mai potrà arrivarci, nel caso specifico… “Non a caso la PlantProcessor è una delle migliori che operano in questo settore e gli strumenti non le mancano di certo” riconobbe Fridrik, intimamente compiaciuto.
Alcuni pensavano ancora che il lavoro dei progettisti genetici – come lui – consistessero in un’arte più o meno oscura che aveva per obiettivo quello di accoppiare un pesciolino con un ortaggio e avanti di questo passo. Quell’idea lo fece sorridere. Naturalmente una cosa del genere non era possibile, almeno per la tecnologia attuale… In realtà la gamma di combinazioni genetiche realizzabili entro ogni specie era assai limitata, così come la somma delle caratteristiche che essa poteva esprimere. L’ingegneria genetica permetteva di isolare un singolo gene di una certa specie e di inserirlo nel Dna di un’altra. In tal modo veniva “creato” un qualcosa che possedesse geni di specie molto lontane nell’albero filogenetico originario e dunque caratteristiche che non sarebbe mai stato in grado di sviluppare normalmente da sé. Era così che gli esperti di ingegneria genetica potevano ideare creature dai tratti peculiari (o perfino esseri mitologici, secondo la fantasia popolare, sempre che ciò fosse utile a qualche scopo…).
Ma non era stato ancora possibile accoppiare un pesciolino con un ortaggio, nossignore!
Varie compagnie come la PlantProcessor e la PlanetWide avevano alle proprie dipendenze decine e decine di scienziati in laboratori sparsi per tutto il mondo e sulle colonie orbitali che perseguivano l’obiettivo di rendere più produttiva o resistente alle malattie una pianta alimentare o da legname. Le coltivazioni impiantate su Moon IX e su altri Starground coltivabili, per esempio, erano interamente costituite da ogm di graminacee appositamente selezionate e “costruite” direttamente sulle specifiche delle ditte produttrici.
Ma come era possibile ottenere un organismo geneticamente modificato in genere? Questa era la frase con cui il suo vecchio professore di Genetica Applicata aveva iniziato la prima lezione del suo corso parecchi anni fa. Era il 13 Novembre 2147, una data importante per lui. Le parole di quell’uomo avevano profondamente influito su di lui spingendolo a seguire la strada che aveva poi intrapreso.
Innanzitutto bisognava isolare all’interno del genoma di un organismo un singolo gene, ritenuto particolarmente interessante per le proprietà della proteina che sintetizzava. Successivamente il segmento di Dna – sede di quel gene – veniva “tagliato” in corrispondenza di determinate sequenze di basi lungo il filamento su cui si trovava, quindi la parte esogena era artificialmente inserita nel genoma dell’organismo che si andava a modificare, con tecnologie diverse a seconda che si trattasse di un batterio, di una pianta o di un animale. Se l’operazione aveva buon esito, il nuovo gene veniva incorporato nel Dna dell’ospite, che da quel momento cominciava a produrre la proteina desiderata.
Fin dalla loro comparsa, verso la fine del ventesimo secolo, gli ogm avevano suscitato le domande più disparate: Per mezzo di essi si può sconfiggere la fame nel mondo? Grazie a essi si possono salvare le specie in via di estinzione? Le biotecnologie possono far male o possono mettere in pericolo la biodiversità? Alcuni di questi interrogativi avevano trovato adeguata risposta nel corso del secolo successivo, ma per altre invece i dubbi tuttora permanevano.
A ogni modo, Fridrik non si era mai occupato di bioetica. Il suo lavoro consisteva nel disegnare piante che corrispondessero alle specifiche dei committenti, le ricche società agroalimentari che muovevano traffici per miliardi di dollari all’interno del sistema solare e oltre, e sapeva farlo dannatamente bene. Soddisfare il cliente era un dovere ben preciso per i dipendenti della PlantProcessor e il suo capo-dipartimento si vantava spesso che nessuna richiesta era mai rimasta inevasa e che non avevano mai avuto contenziosi legali di alcun genere finora. Era proprio per questo che la loro ditta, distaccatasi cinque anni fa dal corpo della gigantesca GenerPlantation, portandosi via un prezioso capitale di menti e scienziati di prim’ordine, aveva potuto prosperare e crescere vedendo aumentare le proprie quotazioni di giorno in giorno. Fridrik lavorava lì ormai da tre anni e aveva collaborato a un gran numero di progetti ambiziosi. La sua abilità e intraprendenza erano state presto riconosciute dalla società. Da un anno e mezzo infatti era stato designato Direttore di Progetto, una carica importante, in quanto si trattava di colui che aveva il compito di delineare un nuovo ogm in tutto e per tutto. La PlantProcessor aveva visto lontano, amava ripetersi spesso. Era proprio grazie alla scelta delle persone giuste che la ditta era arrivata dove si trovava ora.
Specializzata inizialmente in “piccoli lavoretti” di modifica transgenica , la PlantProcessor si era dedicata a specifici interventi o progettazioni che venivano esattamente incontro alle esigenze degli utenti finali, una perfetta unione fra le necessità di contenimento dei costi e l’obbligo di rispettare tempi strettissimi per l’esecuzione del lavoro, nel rispetto delle leggi vigenti – in verità piuttosto larghe… – in tema di sperimentazione prima dell’utilizzo sul campo.
Fridrik stava osservando i dati che scorrevano in rapida successione sullo schermo. Si trattava di una sequenza di proteine e altre basi facilmente individuabili, il codice genetico di un ramo progettato da lui stesso. Era soddisfatto del lavoro fatto quel pomeriggio, aveva quasi completato il programma previsto. Gli era toccato verificare che gli ultimi ritocchi del mese precedente non confliggessero con la struttura complessiva della piantina. Un lavoraccio!
Era stato affidato loro un grosso progetto di afforestazione di una lontana colonia di nuova scoperta, ove si erano insediati alcuni mesi orsono una decina di minatori della SpaceFarer , una grande società controllata dal governo, che in questo caso era anche la loro committente. Era la prima volta che un’impresa così importante si rivolgeva alla PlantProcessor ed era evidente lo sconquasso che aveva provocato nei ritmi e nell’organizzazione complessiva del lavoro. Il capo-dipartimento ci teneva particolarmente a fare bella figura con i vertici aziendali (forse si sentiva in odore di promozione, chissà…) e aveva spinto tutti a dare il massimo. Erano state letteralmente bruciate le tappe e il progetto iniziale era stato completato a tempo di record. Si era passati poi al lungo mese di rifinitura e completamento e finalmente ora si trovavano nella fase degli ultimi ritocchi.
La colonia ove dovevano essere impiantati gli alberi transgenici di nuova produzione era un pianeta poco più piccolo della Terra, sito a circa 2 U.A. da una stella gialla poco più grande del Sole sita nella Corona Australe. Si trattava di un mondo moderatamente temperato in corrispondenza dell’estremo nord e sud, ma decisamente desertico alle medie latitudini. La committente aveva espressamente richiesto loro di progettare un tipo di albero a crescita rapida che potesse attecchire facilmente in quell’ambiente, resistendo a un clima difficile e secco. La questione aveva suscitato tutta una serie di problemida risolvere.
Contrariamente alle previsioni, non si erano prospettate difficoltà insormontabili quanto alle risorse d’acqua da sfruttare, dato che a notevole profondità sotto quei deserti rocciosi scorrevano abbondanti fiumi che andavano a rifornire un vasto lago oltre quattrocento miglia più a est. Aveva visto le fotografie dal satellite: erano stati decisamente fortunati da quel punto di vista, diversamente il lavoro avrebbe richiesto molto più tempo!
Quindi era stato necessario selezionare la piantina adatta. La scelta iniziale era caduta sulle acacie. Si trattava di un tipo di albero dotato di foglie bipennate, dai fiori solitamente molto piccoli, particolarmente diffuso nelle zone aride dell’Africa ove dava vita a rade boscaglie.
Individuato il tipo ed effettuata una opportuna disamina, l’acacia senegal era stata infine la prescelta. Quindi era iniziato il vero lavoro. L’acacia così com’era decisamente non andava bene. Bisognava cambiarla a fondo!
Si trattava quindi di renderla particolarmente resistente al calore e in grado di sfruttare quelle lontane riserve d’acqua senza risentire della penuria di risorse minerali facilmente accessibili ad altre specie in un terreno medio. Inoltre bisognava far sì che le pianticelle si sviluppassero velocemente, resistendo a tutti gli agenti batterici alieni del posto e alla mancanza pressoché assoluta di pioggia. Oltre a ciò, dovevano essere in grado di sopportare il forte vento che batteva quei luoghi giorno e notte.
Il vettore utilizzato era stato l’Agrobacterium tumefaciens 37F, un batterio brevettato dalla PlantProcessor e appositamente modificato con l’inserimento del gene esogeno prescelto. Frammenti del tessuto della pianta erano stati “infettati” con questo batterio, dotato della capacità di produrre delle piccolissime escrescenze sulla superficie del tessuto vegetale. Queste protuberanze, dette calli, contenevano le cellule infettate, modificate con il gene estraneo, e proprio da esse sarebbero germogliate le nuove piantine transgeniche.
La prima cosa da fare era stata provvedere a ispessire la sua struttura lignea, in modo da renderla più resistente e perfettamente in grado di reggere sia al caldo che al freddo intenso dell’ambiente circostante, oltre a farle superare indenne le violentissime tempeste di sabbia che si abbattevano periodicamente su quelle distese aride. Fortunatamente il legno delle acacie era già notevolmente duro e compatto, pesante ma elastico, molto resistente sia all’aria che all’acqua. Quella era stata una buona base di partenza. Era stato sufficiente modificare l’alburno posto immediatamente sotto la corteccia, ricca di vasi, per migliorare già di molto la situazione. Subito dopo era stata rinforzata la struttura esterna, trasformandola in modo che quadruplicasse la propria resistenza naturale. A quel punto il più era fatto. Successivamente era venuto il lungo e laborioso lavoro di allungamento delle radici e di potenziamento delle loro capacità di assorbimento in profondità.
Grazie al loro cospicuo apporto – queste le speranze della committente (e, naturalmente, anche le loro…) - il nuovo ambiente locale che sarebbe stato originato a partire da quell’insediamento di piante appositamente concepito sarebbe apparso decisamente diverso, garantendo la presenza di ampie zone ombreggiate e verdeggianti, decisamente più consone alla vita dei numerosi coloni terrestri presenti. Ma bisognava che il cambiamento climatico avvenisse in fretta… Da qui la necessità di un nuovo intervento resosi indispensabile per aumentarne esponenzialmente la velocità di crescita.
Fridrik si immaginava già le sabbie desertiche del pianeta addolcite dai colori vivaci dei nuovi alberelli piantati in lunghe e folte schiere sui pendii spogli. I loro fiori giallo – pallidi avrebbero dato un colore più piacevole a quelle terre biancastre e desolate, trasformandole in breve in un gradevole giardino. E tutto made by PlantProcessor, delizioso… 
Esisteva tuttavia un piccolo problema ancora da superare: vi era sul pianeta una popolazione locale poco sviluppata, a un livello di tecnologia equiparabile a quello dell’uomo primitivo sulla Terra. Questa razza spesso si addentrava nel deserto per viaggi rituali sulla cui funzione ancora stavano dibattendo gli studiosi di culture aliene. Quella presenza aveva già creato forti contrasti a livello parlamentare, poiché i gruppi naturalisti temevano che gli insediamenti umani laggiù avrebbero potuto modificare le normali usanze di quel popolo e perfino fare danni irreparabili. Era la solita questione che si dibatteva da anni ogni qualvolta si trattava di instaurare una nuova colonia umana su un mondo di nuova scoperta che risultasse già abitato. Spesso la ragion di stato alla fine prevaleva, data la crescente necessità di sfruttare nuove risorse con la brillante prospettiva di ricchi guadagni. Tuttavia a lui quelle vicende non interessavano, faceva soltanto il suo lavoro e non si preoccupava di politica, quella la lasciava ad altri, consapevole che tanto non avrebbe potuto far molto in proposito…    
 
-Ecco il datakey con gli schemi della progettazione genetica della Acacia-125467B- disse Fridrik consegnando il supporto al responsabile, un signore dai capelli bianchi seduto dietro la scrivania, il responsabile della sezione. Si chiamava Brett Erger, se ben ricordava.
-Molto bene- disse lui, un’espressione cordiale sul volto di mezz’età assolutamente privo dei segni dell’invecchiamento. Il colore dei capelli forse era un vezzo, visto che esistevano ormai da anni tecniche che impedivano l’incanutimento fisiologico -Un ottimo lavoro. Non ne dubitavo- 
Un sorriso si disegnò sul volto di Fridrik, mentre l’uomo deponeva l’oggetto sul banco di legno pregiato davanti a sé. Il profondo compiacimento che lo pervadeva non lo abbandonò neanche quando il responsabile lo congedò frettolosamente con una breve frase di commiato che lui parve non recepire per nulla neanche quando venne ripetuta. Fu solamente quando sentì aprirsi di scatto la porta alle sue spalle e vide una donna abbigliata in un abito elegante fermarglisi accanto che finalmente Fridrik si riebbe -…e la signorina l’accompagnerà all’ingresso, nel caso non ricordasse la strada. Faccia buon viaggio fino a Denver- terminò la voce affabile dell’uomo dall’altra parte della scrivania.
Ora che se n’era andato, Brett prese in mano il datakey, iniziando a rigirarselo fra le dita. Il più era fatto, pensò, ma il bello doveva ancora venire…
Ripensò al sorriso imbecille di felicità stampato sul volto del progettista che se n’era appena andato. Com’è che si chiamava… Fridrik? E poi…? Beh, poco importava… Ma erano davvero tutti così alla PlantProcessor? Solitamente gli scienziati erano dei maestri nel loro campo, ma decisamente poco svegli in apparenza. Tuttavia avevano fatto davvero un grande lavoro. Quel progettista genetico era uno dei migliori nel suo campo e non a caso la sua ditta era già stata coinvolta nei programmi di riforestazione di numerose colonie di recente scoperta e insediamento al di fuori del sistema solare.
Il suo lavoro però non era che il punto di partenza. Grazie a esso avrebbero potuto realizzare appieno il delicato incarico che era stato affidato loro, un compito che andava ben oltre quanto potesse lontanamente prevedere la PlantProcessor. Questa si era limitata a disegnare una piantina sulle specifiche espressamente indicatele dalla GENERCOM per disporre la rapidissima afforestazione di quel mondo incolto e desolato. Loro però, successivamente, avrebbero provveduto a inserire nei geni di quelle nuove pianticelle alcuni segmenti aggiuntivi, piccole modifiche apparentemente di scarsa importanza, le quali avrebbero mostrato a breve la fin troppo facile tendenza a “saltare” casualmente dai geni di originaria residenza degli ogm ai batteri del pianeta e da questi alla scarna popolazione indigena locale, con effetti devastanti per l’organismo dei locali non avvezzo a simili malattie. C’era già uno studio approfondito in proposito che aveva visionato di persona… Quei super-batteri modificati avrebbero dato luogo a una spaventosa epidemia che si sarebbe presto sparsa a tutte le zone vicine. E così la GENERCOM avrebbe potuto in breve impadronirsi dei ricchi giacimenti di quel prezioso minerale che si trovava a grande profondità sotto la superficie infuocata del deserto, senza subire le dure rivendicazioni e i ricatti della arretrata popolazione aliena che là viveva, la quale nel breve volgere di pochi mesi sarebbe stata con tutta probabilità già spazzata via a causa di un male sconosciuto scoppiato all’improvviso, a cui ovviamente la Federazione non sarebbe riuscita a porre rimedio in tempo… Verosimilmente l’accaduto sarebbe stato attribuito a una insufficiente sperimentazione del prodotto vegetale da poco introdotto sul pianeta senza gli accurati controlli del caso, mentre qualcun altro avrebbe parlato apertamente di madornali errori di progettazione delle piante. Per la PlantProcessor sarebbero stati tempi difficili. Tuttavia una campagna pubblicitaria ben orchestrata sui principali olonetwork della rete avrebbe convinto anche i più scettici della casualità e inevitabilità della tragica strage aliena. Nel frattempo la GENERCOM si sarebbe impadronita legalmente di quei giacimenti utilissimi quale materia prima da cui ricavare il combustibile per i motori spaziali delle astronavi interplanetarie terrestri… Un colpo da miliardi!
La suoneria dell’interfono lo colse alla sprovvista. Senza volere, si era lasciato andare alle fantasticherie, dimenticandosi degli altri appuntamenti.
Gli sovvenne che c’era ancora da discutere quel problema dei condotti di ventilazione delle miniere situate nella zona degli asteroidi. All’interno dei moduli dedicati alla coltivazione che si trovavano laggiù crescevano delle interessanti specie erbacee che tendevano frequentemente a intrufolarsi nel sistema di aerazione, attecchendo con incredibile facilità alle pareti di roccia scavata. Con un piccolo accorgimento potevano forse essere modificate perché emettessero una sostanza calmante che aveva lo scopo di sedare e rendere in un certo qual modo più docile e tranquilla la popolazione di coloni turbolenti che risiedeva e lavorava da quelle parti. In effetti negli ultimi mesi vi eran stati fin troppi problemi e aspre rivendicazioni sociali e sindacali dei minatori a causa delle difficili condizioni di vita sul posto, ostacoli fastidiosi a cui bisognava porre subito rimedio poiché decisamente improduttivi e assai costosi, con gravi effetti e ritardi sul termine di consegna del prodotto naturale alle imprese orbitali committenti. Benedette biotecnologie!
L’incarico era toccato questa volta a una piccola società di Marte che operava nel settore solo da alcuni anni, ma che già aveva dimostrato di saperci fare, grazie a una saggia politica imprenditoriale molto aggressiva. Questo era il secondo lavoro di un certo rilievo che le affidavano e probabilmente dopo di esso le si sarebbero spalancate fulgide prospettive in campo militare, ove già alcune ditte di nome si erano fatte vive inviando buone proposte di collaborazione.
Udì squillare nuovamente l’apparecchio. Era la segretaria -E’ appena arrivato il Sig. Franz Blechel della MedGrowing da Marte, aveva appuntamento alle 16:00.-

“Lavoro, sempre lavoro”  pensò Brett Erger. L’uomo si avvicinò al comunicatore posto sul tavolo e, schiarendosi prima la voce, disse -Lo faccia entrare! Abbiamo tanti progetti di cui parlare…-

21/12/2009, Sergio Palumbo