RHOLANDO CAPOFRECCIA 04: CHI SONO I FRATELLI DEL MAINO?

La minuscola piazzetta era circondata da piccole case dalle mura in pietra, molto spesse, con delle finestre che sembravano fessure.  Ad ovest si trovava la chiesa dalla facciata affrescata: un maestoso san Cristoforo si ergeva minaccioso a protezione del villaggio, sorto accanto ad un fiume, di cui sentivo scrosciare le acque, e a cui le donne si recavano per poter lavare i panni sporchi tutte insieme. Si stava svolgendo il mercato; accanto alla chiesa si trovavano delle misere bancarelle, dove i contadini vendevano quanto avevano prodotto in quella settimana: piccoli formaggi dall’odore invitante, radici ancora sporche di terra, qualche cavolo. Nessuno si era accorto di me. Sapevo di essere comparsa dal niente vicino al pozzo al centro della piazza, ma il villaggio era talmente preso dalla sua quotidianità che non si era accorto di me. Tanto meglio, mi dissi, potevo iniziare a fare domande a queste persone senza suscitare in loro diffidenza.  Mi avvicinai a uno dei banchetti del mercato e, facendo finta di dare un’occhiata alla merce esposta, avevo intenzione di domandare qualsiasi cosa avesse a che fare con il tizio strano dell’altrettanto curioso giuramento della chiesa. Rimasi sbalordita. Non capivo un accidenti di quello che la signora accanto a me e il mercante si dicevano, parlavano una lingua nasale, dura, che non lasciava spazio a libere interpretazioni. Quando poi il venditore si rivolse a me, forse per chiedermi cosa volevo, mi prese il panico, non sapevo cosa rispondere. Ad un tratto sentii una mano che mi toccava la spalle ed immediatamente tutto quello che mi veniva detto era finalmente chiaro. Mi voltai, ma dietro di me non c’era nessuno. L’ uomo, spazientito, continuava a domandarmi se volevo comprare quei cavoli che fissavo costantemente, ma io dissi di no e mi allontanai. Finalmente capivo queste persone! E se le capivo poteva essere arrivato il momento per svolgere le mie indagini.

Mi recai in chiesa. Mi inginocchiai accanto ad un altare, sul fondo dell’aula, ascoltando quanto accadeva intorno a me. In una cappella laterale vicino a dove mi trovavo io, stavano delle donne che recitavano preghiere in latino, suppliche per l’anima di un defunto che, forse, doveva avere bisogno del perdono divino. Mi alzai e mi avvicinai, rimanendo in un angolo, a queste, che portavano il lutto. Nel pavimento della cappella si trovava una lapide con l’incisione ancora ben visibile, come se delle spoglie mortali vi fossero state riposte da poco tempo. Pensai che queste fossero delle sue congiunte e mi sarebbe piaciuto chiedere loro qualche notizia sul morto, ma mi sembrava maleducato. Trovai che fosse più consono seguirle, senza farmi vedere, dopo la loro orazione.

La preghiera durò ancora una mezz’ora: nonostante questi salti temporali l’orologio che portavo al polso non aveva risentito di niente, così alle quattro del pomeriggio, mentre il sole cominciava a nascondersi ad ovest colorando le montagne di rosa, le donne si decisero a recarsi presso la loro dimora. Vedendo il loro abbigliamento, piuttosto sontuoso nonostante il lutto, pensavo che abitassero in qualche castello ed infatti avevo quasi avuto ragione. Non abitavano in un vero e proprio castello, ma in una casa-torre, un edificio piuttosto massiccio in pietra, collocato accanto ad un torrente che si buttava nel fiume del paese poco più a valle. Per raggiungere la casa-torre, le donne dovettero farsi abbassare il ponte levatoio, in modo da accedere ad un piccolo cortiletto che fungeva da rivellino. Non potevo seguirle oltre, mi limitai ad osservare quelle donne da dietro un albero, sperando di non dare nell’occhio. La famiglia che abitava in quel luogo doveva essere importante, perché aveva a disposizione una piccola guarnigione ben armata, con cui feci conoscenza piuttosto presto. Mi stavo allontanando dal mio nascondiglio, quando mi sentii prendere alle spalle e buttare a terra, senza nessun motivo. L’uomo che mi aveva atterrato mi intimava di dirgli chi ero e che cosa volevo, ma non sapevo proprio che dirgli. Mi trascinò nella casa-torre, in uno scantinato chiuso con sbarre di ferro, dove, in un angolo, era collocato un secchio di acqua fredda. La piccola cella era illuminata con una candela e io mi stavo per mettere a piangere, perché come al solito mi ero cacciata in un guaio ed ero da sola. Il mio carceriere mi gridò di pensare a chi mi mandava a spiare le padrone, perché presto avrei dovuto renderne conto al suo signore. Appena fui sola, mi misi a piangere. Era brutto essere trattata in  un modo così brusco da un estraneo. Seduta per terra, piagnucolavo come una bambina impaurita, cercando di pensare ad un modo di venir fuori da quella situazione. Mi pulii il viso con le mani: era stranamente peloso, come se ci fosse una barba piuttosto ispida a coprirlo. Mi spaventai ancora di più, mi alzai e andai a guardare il mio riflesso nell’acqua del secchio. Per quanto questo fosse poco chiaro, era evidente che avevo assunto le sembianze di un uomo! Ecco perché le donne si erano spaventate! Avranno sicuramente pensato che volessi fare loro del male! Tutto cominciava ad essere chiaro. Nell’epoca in cui Rholando aveva vissuto la sua breve vita, in molti territori della regione si combatteva una tremenda guerra fra guelfi e ghibellini. Rimuginavo su quanto avevo letto in un libro di storia locale: per diverso tempo nelle nostre vallate eserciti guelfi contrastarono l’esercito ducale ghibellino, che voleva annettere al Ducato di Milano quei territori, da cui passavano strade commerciali che permettevano una comunicazione con i cantoni svizzeri e il Nord Europa. Dovevo essere stata presa per un ghibellino, forse incaricato di scatenare l’inferno. Ora che tutto questo era stato appurato, la questione non cambiava. Come ne uscivo? Speravo nell’intervento di Shamandala e in un’evasione spettacolare, ma la strega non si fece vedere che a tarda notte, quando cominciavo a perdere le speranze e quando pensavo di essere destinata alle torture peggiori, come mi aveva anticipato il mio carceriere. Mi apparve al di là delle sbarre e dal di fuori mi porse la mano, sorridendomi. Mi fidai di lei, come al solito, così mi alzai per andare a prendere la sua mano. Quando me la strinse, mi ritrovai fuori dalla mia prigione, con il mio solito aspetto da ventenne un po’ sfigata. Mi disse di stare zitta, poiché avremmo iniziato a spiare il signore del paese, per capire qual era il legame fra quest’ultimo e il tizio del giuramento.

Il vecchio signore se ne stava seduto su una panca, in una stanza della sua casa-torre, osservando da una feritoia la vallata circostante, resa argentea dalla luce della luna. Il suo viso era illuminato dal chiarore della torcia che teneva nella stanzetta e aveva uno sguardo pensieroso, come di chi sa che sta perdendo la guerra. Era simile all’uomo del giuramento, avevano gli stessi occhi fiammeggianti, la stessa corporatura robusta e la stessa capigliatura ispida e scura. Non avrebbe mai parlato, anche perché non poteva vederci, e allora Shamandala decise di forzare la situazione, lanciando un incantesimo che lo spingesse a raccontare la sua storia. Il vecchio si drizzò sulla sua panca, annusando l’aria e guardandosi intorno. Poi si afflosciò, sospirò profondamente, ed iniziò.

«Mi chiamo Bortolo Ubione, sono il signore di questa vallata, che appartiene alla mia stirpe da quattro generazioni, quando la strappammo ai nostri rivali, i signori di Gromlongo. L’abbiamo sempre difesa, a scapito della nostra salute e delle nostre ricchezze. La nostra terra è tutto, così come lo sono coloro che la abitano, nostri fedeli servitori e sudditi. Io non ho figli maschi, le donne che abitano in casa mia sono quanto rimane della mia gloriosa genia, le mie quattro figlie, e le mie cognate, vedove dei miei fratelli. Uno di loro, Cassione, è morto da poco tempo, quasi tre mesi, assassinato in battaglia dagli armigeri del duca di Milano, che vuole il nostro piccolo dominio. E’ stato seppellito nella nostra chiesa, pianto da tutti, semplici villani e compagni d’arme. Ho preso dunque nella mia casa suo figlio Alfio, uomo ormai adulto e dall’animo infuocato, che vuole vendicare il sacrificio del padre: per questo si è trasferito nella città del duca, aiutato da nostri amici che abitano laggiù e che si sono ritagliati un posto nella corte del loro signore, grazie ai loro servigi. Questi due fratelli sono arsi dalla stessa sete di vendetta di mio nipote, poiché loro padre è stato imprigionato dal vecchio duca, spellato vivo ed ucciso senza pietà poiché si era opposto al potere dell’invasore. Loro padre, così come altri signori insieme a noi, faceva parte di una lega, una sorta di confraternita che ha giurato di uccidere il duca e la loro promessa e suggellata da un particolare rituale, che porta a bere il sangue dei propri confratelli».

Ci ritrovammo nella camera messa a disposizione da Rholando: dunque quanto avevo visto non era altro che  un rituale, come avevo sempre sospettato. I congiurati stavano cercando di fare la festa al duca e per arrivare a lui senza intoppi dovevano liberarsi delle persone di cui il signore di Milano si fidava, ecco il perché dell’assassinio del mio antenato. E in questo punto c’era qualcosa che non mi convinceva: se quel rito cui avevo assistito era solo un formalismo, perché a Rholando era stato rubato il talismano che aveva forgiato contro i vampiri? Bortolo Ubione forse non aveva detto tutto quanto, o forse non sapeva proprio tutto. Suo nipote era quel tipo poco raccomandabile che avevo visto nella chiesa e se trovavo un modo per spiarlo potevo scoprire qualcosa di più su di lui. Chi era proprio un’incognita per me erano i fratelli Del Maino, di cui ignoravo il vero nome. Ero stata proprio cretina a non indagare anche su quelle persone… pensai alle migliaia di guerre che si erano combattute in epoca medievale per questioni territoriali, le alleanze erano dettate dalla convenienza del momento, dalle esigenze e dalla necessità di difendersi da invasori via via sempre più importanti. Ricordai che l’Ubione aveva parlato dei signori di Gromlongo, antichi nemici del suo casato… che fossero gli stessi Del Maino? Shamandala, che non mi aveva mai abbandonato e aveva ascoltato il flusso dei miei pensieri, mi sorrise, si alzò e venne verso di me, porgendomi la sua mano. Sapevo già cosa voleva, così mi preparai per una nuova gita  e chiusi gli occhi. Quando li riaprii ci trovavamo in un villaggio a ridosso di una montagna grigia, bagnata e fredda, un posto molto triste, rispetto a quello che avevo visitato in precedenza. In cima alla collina si trovava una torre possente, alla cui sommità c’era un fuoco, che serviva a comunicare con le altre fortezze dei monti circostanti l’avanzata del nemico. Doveva essere quello il  quartier generale dei signori di Gromlongo. Shamandala mi porse nuovamente la mano e in un attimo ci ritrovammo nella sala del signore, nascoste in una bolla che ci rendeva invisibili agli occhi degli altri. Nella stanza ci trovai, impegnati in una conversazione piuttosto animata, i fratelli Del Maino: parlavano utilizzando quell’idioma a me sconosciuto con degli altri uomini, rudi e grossolani quanto loro. Shamandala sembrava comprendere quanto veniva detto e  potevo star sicura che in un secondo momento mi avrebbe spiegato quanto stava succedendo. La situazione era strana però, mi sembrava di essere tornata in un tempo passato, prima che i due fratelli raggiungessero la grande città… Shamandala mi mise una mano sulla spalla e tutto fu di nuovo chiaro: i fratelli Del Maino erano i discendenti dei signori di Gromlongo, sconfitti da Bortolo Ubione. Con quest’ultimo era stato necessario allearsi però, nonostante la poca fiducia reciproca, poiché il duca di Milano, Ludovico, voleva impossessarsi delle loro vallate ricche di minerali: era stato necessario fare fronte comune contro quel damerino che veniva da lontano, che voleva fare il signorino in casa degli altri. Nella sala della torre gli uomini continuavano nella loro discussione, che andava raddolcendosi nei toni. Dovevano aver trovato un compromesso e uno di loro tirò fuori da un armadietto a muro un calice, che venne passato fra tutti gli astanti. Ci si ripropose davanti agli occhi lo stesso rituale che avevamo visto celebrare in chiesa, solo che quando tutti bevvero, ci rendemmo conto della trasformazione che avveniva. Erano loro i vampiri! I fratelli Del Maino, una volta a Milano, avrebbero contagiato con il loro morbo anche il nipote dell’Ubione, perché in questo modo il loro legame non avrebbe potuto rompersi e la loro vittoria sarebbe stata vicina! Mi voltai verso Shamandala e in un attimo ci trovammo di nuovo nella mia camera. Avevo finalmente capito chi avrebbe ucciso il mio avo e chi gli avrebbe rubato il talismano.

Roberta Lilliu