AZZURRINA

Sono nata in una notte d’estate, una di quelle notti terribili, piene di fulmini che cadono sui campi e sulle colline, accendendo gli alberi e spaventando i contadini. Mia madre gridava dolorante aggrappata alle lenzuola del letto accudita dalle donne di servizio, in attesa che arrivasse la levatrice per farmi nascere. Mio padre pare che fosse stato sorpreso dal temporale durante una battuta di caccia, pertanto non era lì. Così nacqui. Pare che fossi una bambina sana e robusta, che almeno all’apparenza non avessi niente, piangevo e mangiavo e dormivo come tutti i neonati. E’ stato crescendo che ho capito che c’era qualcosa che non andava: per prima cosa non potevo uscire dal castello di mio padre, e se uscivo ero per forza di cose seguita da un paio di cavalieri e dovevo stare coperta con veli scuri e pesanti, anche se magari era estate. Sono cose che quando sei bambino non noti, no? Non so se capita anche a voi di ricordare alcuni particolari della vostra infanzia e poi rivalutarli, dare loro nuovo peso e leggerci dei significati che prima non avresti mai dato. Anche questa cosa degli specchi: a casa mia non c’erano specchi di sorta, né nelle mie stanze né in quelle dei miei genitori. Non mi ero mai posta nessuna domanda, anche perché non avendone mai visto uno in vita mia non sapevo nemmeno che esistessero…
Non mi sono mai vista, non sapevo se i miei occhi fossero blu, neri o verdi. Non sapevo che forma avesse il mio naso, non sapevo se avessi la bocca grande. Non sapevo nemmeno che colore avessero i miei capelli. Quando le serve mi lavavano e mi pettinavano, mi fasciavano gli occhi con delle bende nere che non mi permettevano di vedere niente. Mi legavano i capelli stretti sulla nuca, in modo che non sfuggissero mentre giocavo e correvo per i corridoi del castello. Ricordo anche che mi facevano delle cose strane sulla testa, sì, tipo degli impacchi che macchiavano di nero i panni e le mani delle serve. Adesso so a cosa serviva tutto questo, ma allora proprio no. Alle mie domande tutte rispondevano che ero una bimba molto malata, che se volevo guarire, da brava, avrei dovuto ubbidire senza fare tante storie.
Le mie giornate passavano lentissime, le une uguali alle altre. Stavo con mia madre nelle sue stanze a imparare a leggere e ricamare, ad ascoltare le sue storie di cavalieri e dame rinchiuse in torri assediate da draghi, oppure a recitare preghiere. Talvolta la mamma era strana, mi prendeva sulle ginocchia e mi teneva stretta al suo petto, piangeva sulla mia disgrazia, anche se io non riuscivo a capire di che disgrazia parlasse. Alla fine ero una bambina felice, che amava cantare e giocare con la palla di stracci. Sì, mi mancava il non poter mai uscire , perché le visite all’esterno erano rarissime, anche per la messa veniva il prete e si andava nella cappella di famiglia tutti insieme, però mi bastava l’affetto di mia madre. Lei mi amava, ne sono sicura, mentre non posso dire lo stesso di mio padre. Aveva delle amanti, come tutti gli uomini del suo rango, ma oltre questo mi trattava con indifferenza, neanche mi vedeva. Non ricordo di aver mai ricevuto da lui né una carezza né un bacio, né una parola di conforto. Io lo temevo: era irascibile, beveva spesso e un paio di volte l’ho visto picchiare la servitù, senza pietà, facendola scappare spaventata. Io chiedevo alla mamma, durante i nostri lunghi pomeriggi, perché mio padre fosse così. Lei non spiegava, sbuffava semplicemente e i suoi occhi si riempivano di lacrime, fino a che non ne scendevano due o tre lungo le sue guance.
Un giovedì, ricordo anche quando è successo esattamente, correvo per i cortili del castello.
Ero riuscita a scappare dalla servitù, di solito anche il cortile era una zona al di fuori della mia portata, ed ero felice per questa mia fuga. Correvo, cantando a squarciagola e saltellando, assaporando il calore di quel pomeriggio di giugno. Il sole era alto nel cielo e scaldava le lucertoline stese sulle pietre. Avevo sete: ad un certo punto mi ricordai che nella piccola corte di servizio c’era un pozzo, l’avevo visto moltissime volte dalle finestre del castello e sapevo anche come fare a procurarmi dell’acqua. Non dovevo essere scoperta, mi avrebbero riportata dentro e magari mio padre mi avrebbe sgridato malamente, non voleva che mettessi il naso fuori casa. Aspettai il momento giusto nascosta in un cespuglio e appena fui sicura corsi vicino al pozzo e tirai su il secchio pieno d’acqua. Mi spaventai a morte: non mi ero mai vista e neanche mi immaginavo così: pensavo di assomigliare alla mamma o al papà, che i miei occhi fossero verdi e i miei capelli fossero neri. Immaginavo di avere un naso piccolino… invece quello che vidi riflesso era un vero e proprio fantasma. Ero pallidissima, i miei occhi erano celesti e senza profondità, cerchiati di rosso. Ma la cosa peggiore era il colore dei miei capelli: erano azzurri. Buttai il secchio d’acqua per terra e cominciai a gridare e a piangere, tanto che mi dovettero prendere due servi per quanto scalciavo. So che svenni dallo spavento, mi risvegliai nel mio letto con mia madre accanto che mi teneva la mano, triste come non mai. Mi spiegò la mia situazione, che ero nata con i capelli bianchi per colpa del demonio, che la gente pensava che io fossi una strega e l’unica cosa che poteva fare lei era tingere i miei capelli con il nero, anche se poi il colore sbiadiva e io diventavo azzurra… Ero conosciuta così nel villaggio. Anche se i miei genitori, tutti e due, avevano cercato di difendermi dalle dicerie della gente, questa sapeva tutto di me e mi chiamava Azzurrina, e pare che dovessi ringraziare di essere la figlia del Signore, se no avrei vissuto o in una celletta accanto alla sagrestia della chiesa o altrimenti sarei già all’altro mondo tutta abbrustolita.
Ricordo che dopo essermi resa conto di come ero in realtà la mia felicità finì. Passavo le mie giornate a piangere e a pregare, non capivo perché ero così. Non avevo mai pensato seriamente al mio futuro, ma sentivo che qualsiasi cosa avessi voluto fare non avrei più potuto farla. Io avrei voluto avere dei figli, avere un marito che mi amasse e che mi rispettasse, ma come avrei potuto io sposarmi così? Ero orribile. Non mangiavo, avevo perso ogni volontà e ogni pensiero felice. Tutto questo durò fino a che un giorno non mi passò per la testa che, nonostante il mio aspetto, potevo essere lo stesso desiderabile per un marito. Potevo suonare divinamente, essere colta, sapere fare i migliori ricami della contrada e via dicendo. Perciò mi risollevai dall’apatia in cui ero sprofondata, ripresi a mangiare e ad essere carina e affabile con mia mamma. Ricominciai a giocare con la mia solita palla di stracci: ormai non c’era più motivo per non permettermi di scendere nel cortile del pozzo, quindi molto spesso scendevo a giocare laggiù.
Una sera, appena poco tempo dopo aver scoperto le mie vere sembianze, pioveva a dirotto e io non potevo scendere nel cortile. Mi annoiavo a stare seduta nella mia stanza a leggere, perciò decisi che potevo lo stesso giocare con la mia palla, senza fare troppo chiasso, finché non mi sarebbe venuto sonno. Andai nell’ala del castello dove si tenevano le scorte di cibo. Io   ovviamente non potevo metterci piede, però nessuno l’avrebbe mai scoperto no? Canticchiavo come sempre e tiravo la palla, incontrai di sfuggita due servi e chiesi loro di mantenere il segreto circa la mia presenza lì, loro sorrisero e mi dissero di stare tranquilla. Fuori infuriava un altro temporale: ormai ce n’era uno ogni sera. I fulmini illuminavano i corridoi, facevano più luce loro delle torce appese ai muri. Sempre saltellando tirai la palla che però stavolta cadde nella botola lasciata aperta poco tempo prima: laggiù c’era la ghiacciaia e io lì davvero davvero non potevo metterci piede. Ma ero da sola e volevo la mia palla, pertanto, con un minimo di coraggio e con una torcia tolta dal muro scesi giù.
Non so cosa sia successo, non ricordo niente di quella sera, se non che nessuno mi ha più cercato e nessuno mi ha mai più trovato. La mia cara mamma so che è morta, così anche mio padre e tutta la servitù. Io non so dove vivo e non so nient’altro che la mia storia. Però pare che io sia famosa: sì, vengono durante le notti d’estate a sentirmi cantare, da dentro la mia botola. Li ho visti con dei macchinari strani, che cercavano se non ricordo male di captare il calore sprigionato dall’ectoplasma nel corridoio che porta alla ghiacciaia. Ma l’ectoplasma sarei io? E che cos’è un ectoplasma? Registrano la mia voce, non si capisce mai un granché, loro sono contenti così. Io canto solo le canzoni che mi ha insegnato la mamma in quei lunghi pomeriggi, quelle che avrei dovuto insegnare ai miei figli. Vengono anche tante persone alla volta, alcuni ridono, altri sembra che abbiano paura. Ma io non mi faccio vedere. Rimango nell’ombra, aspetto che se ne vadano per passeggiare nei corridoi e nei cortili di casa mia. Mi lasciano anche dei regali sapete? Sì, dei mazzi di fiori, dei pupazzi che non so che cosa siano e mi hanno anche lasciato un ritratto appeso sopra la botola. Io non so chi sia, voi ne avete idea?
13/12/2009, Roberta Lilliu