L’ISOLA DEI MORTI

Dopo le nozze, il signor Kaufman portò Silvia nella camera delle torture.
Era un po’ bizzarro da parte di quest’uomo, direttore di banca a Monaco, spendere tanti soldi comprando la vecchia dimora d’un boiardo moscovita, riadattata per l’occasione. Perché andare a vivere in quel luogo lugubre, decadente, circondato dal nulla, se non una piccola chiesa di campagna? Perché non in Italia o nella verdeggiante Camargue? D’altronde, la banca, aveva filiali anche lì. Eppure Silvia amava tanto il marito che acconsentì, sebbene a malincuore, lasciando i suoi affetti bavaresi per emigrare in terra di Russia.
Lei e Kaufman si sposarono proprio fuori dalla chiesa attigua al castello, in un gazebo appositamente allestito vicino al doppio portale.
Era un mattino d’Ottobre ed i toni sgargianti d’autunno già dipingevano ogni cosa. Solo il maniero restava in ombra, incupito dai pioppi giganti che si piegavano al vento.
Durante tutta la cerimonia, Silvia gettò sguardi verso di esso. Lo vedeva come crescere a dismisura, invadendo la tenera campagna con la propria ombra. Ecco che i pioppi sembravano alberi cimiteriali: Silvia li vide protendersi compatti al di sopra del castello e alzare i rami seguendo la voce del vento.
Durante lo sposalizio, quando il pastore era ad un passo dal pronunciare la fatidica frase, a Silvia sembrò che il castello divenisse più alto, opprimendo le cime degli alberi, come per trafiggere il cielo, in una cuspide di pietra.
La scena gli ricordava un dipinto di Brocklin: l’isola dei morti. C’era una formazione rocciosa, un’isola appunto e nel mezzo di essa, giganteschi alberi dalla forma affusolata: cipressi o forse pioppi, come quelli al lato del maniero. Ai loro piedi, oltre due massicce colonne di pietra, il nulla, rappresentato da un lago con acque scure. Caverne si aprivano come bocche di demoni dalla roccia e porte trilitiche, appena abbozzate, lasciavano l’immaginazione vagare su mondi abissali, perduti nell’oblio del tempo.
Una barca navigava a poche braccia dalle colonne, sospinta per mezzo della forza di un barcaiolo nero di stirpe demoniaca. Al centro del naviglio, stava una figura ammantata di bianco, china in avanti, come per raccogliere il proprio dolore nell’angusto spazio del grembo e delle mani unite a coppa.
A Silvia quel dipinto era sembra parso mistico, d’una enorme forza spirituale talmente grande da trasfigurare ogni animo sensibile.
Sembrava quasi che il pittore avesse visitato lui stesso il mondo dei morti, ritornandone arricchito da conoscenze d’incubo.
E io sto per andarvi ad abitare, pensò Silvia!
Alla fine della cerimonia, non ebbe molto tempo per le fantasie su alcunché di onirico e tra il buffet ed i regali agli ospiti, trascorse la giornata.
Fu solo a tarda notte, quando lei ed il marito rimasero da soli, che venne assalita da un terribile sconforto.
Pensava al castello ed ai pioppi giganteschi. Li sentiva stormire alla musica del vento. Essi si piegavano, come dita della mano d’un colosso informe. Mai Silvia avrebbe immaginato la propria vita da sposa, tra le mura di quel posto lugubre! Pensava a Monaco, alla Baviera e alle ragazze che cinguettavano lungo il corso con gli ombrellini parasole, ai giovani in tuba e coi bastoni da passeggio, alle carrozze ed alle orchestrine popolane.
Kaufman, benché bislacco, era tuttavia sensibile al minimo cambiamento d’umore della sposa, cosicché, quando la vide trasalire al soffio del vento, la prese tra le braccia e la baciò.
-Perché siete in ansia, mia cara?- disse, con tono affabile.
-Oh, non è nulla Ernst, il caldo di sicuro e…l’emozione,mi hanno spossata un pochino- rispose lei.
Allora, con un sorriso raggiante per Silvia, il marito afferrò un campanellino d’argento e lo scosse vigorosamente. Subito, comparvero il maggiordomo e una delle cameriere.
Il primo era magro, alto, con la sommità della testa calva ed una ragnatela di capelli bianchi che si dipartiva dalle tempie fino alla base del collo. Aveva servito al castello fin da quando era ragazzo: prima il nonno del boiardo, poi il padre ed infine il boiardo stesso.
Maria, la cameriera, era giovane e graziosa. Figlia del sovrintendente del villaggio, era sempre rimasta alla larga quando il vecchio boiardo governava le terre con pugno di ferro, ma ora, Kaufman con le sue gioviali bizzarrie e la bella moglie Silvia parevano regalare a quel luogo una luminescenza pura, dorata. Fu con gioia che accolse il primo ordine della padrona: una bella tazza di tè. Maria scese giù nelle cucine e mise il samovar sul fuoco.
Intanto, Ivan, il maggiordomo, aveva attizzato una discussione con Kaufman sul castello e la campagna circostante. Fu in un torrente di francese, inframmezzato da parole tedesche, quando Kaufman non capiva, che venne fuori la sala delle torture.
Il banchiere era così eccitato dalla scoperta, che afferrò Ivan per le spalle e lo scosse come un alberello: -Ditemi, ditemi, mio buon maggiordomo- urlava: -Dove si trova questa sala?
Lento, ammantato di rughe come una vecchia mummia, Ivan si offrì di accompagnarlo.
-Cara!- gridò Kaufman, al culmine dell’eccitazione: -Venite anche voi, dev’essere un’esperienza unica!
Già sconcertata per la lugubre dimora, Silvia represse a stento un grido di dolore: il solo pensiero di metter piede nella sala delle torture la faceva star male.
-Ma caro, il tè si raffredderà!- tentò di scusarsi.
-Silvia, amore- disse Kaufman, prendendole le mani e fissandola con occhi ridenti: -Lo so, lo so che è strano, ma…- cercava le parole con cura: -vi siete innamorata di me per questo comportamento un po’ bislacco, da poeta romantico. Ricordate quando diceste che era un miracolo trovare l’anima di un cantore nel corpo del direttore della banca di Monaco?
-E sia- rispose lei, con un sospiro: -Il tè aspetterà.
Kaufman rise e la condusse su per le scale, dove Ivan faceva già luce con una lampada.
Arrivarono in cima dopo quella che parve un’interminabile ascesa.
C’era una stanza, ingombra di mobili coperti da enormi veli; al centro di essa, una scala di legno puntava diritta su qualcosa aperto nel soffitto.
-Una botola!- fece Kaufman, sgranando gli occhi.
Silvia strinse forte il braccio del marito. Già di per se, la stanza dai mobili coperti faceva pensare a qualcosa di oscuro e dimenticato, come se i precedenti proprietari, l’avessero lasciata per morire e non farvi più ritorno; il fatto di trovare una botola sul soffitto, che introduceva alla camera delle torture, era per Silvia motivo di paura.
Ivan cominciò a salire; una volta giunto alla sommità, chiese a Kaufman di reggere il lume, mentre lui estraeva dalla tasca del panciotto una chiave di ferro. Nonostante il banchiere si sforzasse di fargli luce, fu quasi ad occhi chiusi che Ivan introdusse la chiave nella toppa al primo colpo.
-Ora apro- disse in francese, puntando gli occhi su Kaufman.
Il banchiere, reprimendo un groppo in gola, annuì: -Spezzate ogni indugio ed aprite, mio buon maggiordomo!- fece.
Il primo giro di chiave risuonò come una campana di morte. Silvia si strinse la veste al grembo, mentre Kaufman, seppur eccitato, reprimeva a stento un piccolo brivido di paura.
-Ecco, ecco!- disse il banchiere: -Ora da’ il secondo e adesso il terzo!- fece, mentre Ivan lasciava scattare la serratura.
Dato uno spintone alla botola, questa si aprì senza il minimo rumore.
-Il lume, per favore- disse Ivan, tendendo la mano ossuta verso il basso. Un po’ deluso, Kaufman gli passò la lampada: -La botola non ha nemmeno cigolato!- disse.
Silvia guardava l’oscurità tremare alla luce gialla del vecchio russo. Stiamo entrando nell’isola dei morti, pensò.
Di lì a poco, Kaufman l’aiutava a salire i pioli, facendo attenzione che il vestito non le si impigliasse sotto le scarpe. Quando fu in cima, sul pavimento di legno sconnesso, Silvia ebbe la sensazione d’esser trasportata in un mondo parallelo, una dimensione onirica fatta di buio e cose malvagie.
Fin dove giungeva il cerchio della lampada, Silvia scorse un ambiente immenso eppur lugubre, privo di finestre se non fosse per una, minuscola che aveva più l’aria della feritoia per gli arcieri. Ovunque, tavoli, piani e sedie di tutte le forme e dimensioni. Su di essi, chiodi, tenaglie, pinze: arnesi per tagliare, strappare, lacerare e perforare le carni di un essere umano.
Silvia impallidì: non riusciva a credere che gli inventori di tali strumenti fossero persone come lei, come Ernst o come ogni altro bavarese, moscovita, europeo: esseri civili, menti non dissimili da quelle che avevano creato l’era dei lumi o la poesia romantica; persone che mangiavano, parlavano e respiravano come ogni altra.
Mentre la lampada di Ivan si muoveva, Silvia poté scorgere ogni sorta di stramberia. C’erano spade pesanti, dalla lama larga e la punta acuminata, che giacevano in rastrelliere assieme ad asce, accette e mannaie. V’erano mazzuoli dalla testa in ferro o puntali per cavare gli occhi: oggetti lugubri che stavano lì in attesa, come fantasmi dimenticati, cui la luce della lampada ad olio, strappava un profondo e inaudibile ululato di rabbia.
Staccandosi un poco dal braccio del marito, come ghermita dall’oscurità, Silvia fece un passo. Ecco comparirle innanzi, come impennandosi dal nulla, un vecchio ceppo. Grande, piatto, di un’altezza poco superiore al metro. Silvia pensò dovesse essere uno strumento del boia, per decapitare le vittime. Di lì a poco, infatti, scorse profonde intaccature su di esso, dove il ferro, vinta la resistenza della carne, era giunto a colpire.
Ella divenne cinerea e per poco non si lasciò sfuggire un urlo di paura. Ivan, che aveva intuito il suo stato d’animo, abbozzò un bieco sorriso e disse: -L’umidità della stanza vi fa male, giovane padrona. Venite, accostatevi alla finestra e respirate un poco d’aria.
Con fare ossequioso, il maggiordomo invitò Silvia verso la feritoia.
-Si- diss’ella: -Certo, mi farà bene- e s’accostò al muro di pietra, dove sorgeva l’angusta apertura.
Quello che vide fu strabiliante e se, in un primo momento ebbe l’effetto di rianimarla un poco, subito dopo la precipitò in una terribile angoscia.
Il terreno del boiardo, così simile ad una brughiera, si estendeva come una pennellata scura ed uniforme, a tratti coperta dai toni più chiari della nebbia notturna. Su di essa, oltre quel mare spettrale, fra le punte dei pioppi e dei cipressi, era sorta una lugubre e pallida luna, bianca, come il sudario dei morti e grande, più dello stesso castello.
Silvia trasse un sospiro, poiché l’aria gelida della notte le stuzzicava i sensi.
-È bella la nostra terra, vero padrona?- disse il maggiordomo, accostandosi.
-Si- rispose lei, che era di animo buono, con un sorriso.
-Ebbene- disse ancora Ivan: -Guardate, guardate!- con la mano indicò un punto imprecisato nella brughiera, verso occidente.
Spaventata eppur intrigata da quel vecchio bizzarro, ella obbedì.
C’era qualcosa che navigava furtivo nel oceano di nebbia. Balzando dalla protezione di un albero al tronco di quello vicino. Sembrava un animale, forse un cane.
Di lì a poco, Silvia ne vide un altro e poi un altro ancora.
-Cosa sono?- domandò.
-Lupi- disse Ivan.
Silvia stentava a crederci: un lugubre e antico castello, la brughiera infestata dai lupi…in che orribile sogno era dunque caduta?
Le belve si fermarono a pochi metri dalla chiesa, perfettamente in vista. Era come se sapessero che Silvia le stava osservando: avevano occhi rossi come piccoli fuochi ardenti e lunghe, fameliche zanne.
-Ernst!- chiamò, scostandosi dalla feritoia e dal maggiordomo: -Ernst?
Ivan la seguì ossequioso.
La presenza del maggiordomo la infastidiva, forse per via del suo alito cattivo o dell’aspetto incartapecorito, da mummia egizia; fatto sta che Silvia voltò a mezzo la faccia, piantando i propri occhi nocciola in quelli grigi di lui.
Ivan parve ritrarsi, come un serpente di fronte al bastone, ma fu solo per un attimo e forse frutto della suggestione che irradiava quel luogo.
A pochi passi dai due, Kaufman studiava con interesse le spade medievali.
-Ernst?- ripeté Silvia. Nel medesimo istante, i lupi cominciarono ad ululare.
Silvia divenne pallida e quasi cadde svenuta. Fu solo grazie alla prontezza di Kaufman, (nel frattempo egli aveva smesso di guardare le spade), che riuscì a rianimarsi un poco.
Ernst la accompagnò giù, nelle loro stanze, dove Maria aveva preparato il letto. Poco dopo, la ragazza giunse con un samovar fumante: -Il tè, padrona- disse, flettendo le gambe mentre reggeva il vassoio.
Silvia sorrise e cominciò a bere.
Dopo aver congedato il maggiordomo, Kaufman si sedette vicino alla moglie. I suoi gesti furono premurosi più che mai.
-Mia cara- esordì, dopo un po’ che la osservava: -C’è qualcosa che vi turba?
-I lupi- diss’ella: -I lupi, Ernst- ripeté.
-Dite- la incalzò Kaufman.
-Avevano gli occhi rosso fuoco ed era come se si fossero accorti della mia presenza. Forse è stata suggestione, ma…sembrava tutto così vero!
Kaufman la vide tremare e fu lesto a coprire, con le proprie grandi mani, quelle, più esili, di lei: -Che Iddio mi perdoni- replicò accorato: -Forse è stato un errore venire qui, togliendovi a Monaco. Il castello, gli alberi e questa terra che sembra brughiera…perdonatemi Silvia!
-Non dite così- fece lei: -Sono felice d’esser vostra moglie e di condividere ogni cosa con voi. Ammetto che questo castello tutto sia fuorché invitante, ma farò quanto è in mio potere per renderlo una dimora incantevole e piena di gioia!
-Mi fa piacere che parliate così!- disse Ernst con un gran sorriso: -Amore mio, gli eventi di oggi vi hanno scosso…lo spostarvi dalla Baviera in terre moscovite, il matrimonio e la camera delle torture; farò chiamare il medico dunque.
A quelle parole, Silvia si corrucciò un poco: era una donna forte e non bastavano un castello, dei pioppi ed una muta di cani randagi per intaccarle i nervi, tuttavia, doveva riconoscere che non sarebbe riuscita a dormire senza un calmante; acconsentì quindi, seppur a malincuore, a far chiamare il medico.
Dopo qualche ora ed un’iniezione di cloralio, Silvia riuscì ad assopirsi.
Il mattino successivo, quando i raggi solari fecero capolino nella stanza, Silvia chiese alla cameriera di chiudere le tende. Non intendeva infatti lasciare le coltri, ma anzi girandosi dall’altra parte, aveva in programma di seguitare a dormire, cancellando una vecchia abitudine che la voleva in piedi al chiarore dell’alba.
Per tutto il giorno Silvia stette tra le cupe mura domestiche, ma di pomeriggio, al ritorno del marito dalla banca, si concesse un’uscita in giardino.
Ammirò i pioppi stormire al vento e quella trama di soffici petali che i fiori lasciano al suo respiro. Tutto era bello, come in un’acquatinta dai colori forti; il mondo risplendeva di vita: gli alberi, i fiori e persino le rocce scintillavano al cospetto del sole, eppure Silvia si sentiva stanca.
Mosse leggermente il cappellino, calcandolo sulla fronte e fece scendere la veletta. Era sempre stata una donna energica, di carattere forte: ora si sentiva come se le mancasse l’aria. Attribuì quello strano fenomeno al cloralio: più tardi, ne avrebbe chiesto la ragione al dottore.
Maria, senza attendere alcun comando, le portò una sedia da giardino e con essa, un tavolo. Esattamente in prossimità di un piccolo rio, Kaufman aveva fatto montare un gazebo perché la moglie vi potesse trascorrere ore liete leggendo o riposandosi. Ebbene Silvia, con sgabello e tavolino, stava sorseggiando dell’acqua fresca, quando una carrozza apparve all’orizzonte.
Procedeva lungo il viale d’ingresso, trainata da una pariglia di grandi morelli. Erano questi animali potenti, dalle ossa robuste così differenti da quella razza da sella e tiro leggero da cui anni dopo, sarebbe nato lo Budjonny russo. Avevano piuttosto l’aria di cavalli assiani, bestie tanto eleganti quanto forti. Eccellenti saltatori, erano poco diffusi se non nel paese d’origine, cosicché Silvia rimase stupita nel vedere perfetti esemplari di razza germanica in quella terra così lontana e aliena e ancor di più quando si rese conto che la carrozza non apparteneva al marito, bensì a qualche ricco sconosciuto.
-Maria,- chiamò Silvia, alzandosi dallo sgabello e chiudendo il libro che aveva appena iniziato a sfogliare: -Dimmi cara- fece, quando la domestica si fu accostata: -Chi è l’uomo o la donna che vengono a farmi visita?
-Signora- disse Maria nel povero francese che usava con l’altra: -Riconosco il simbolo del drago come quello di Vassili Ivanovic, un boiardo i cui terreni confinano con questi.
-Oh,- fece Silvia: -Sarà qui di certo per conoscere i suoi nuovi vicini!- e, scostando la veletta si fece incontro alla carrozza.
I cavalli vennero fermati. Silvia li udì stronfiare vigorosamente per l’interruzione subita dalla loro corsa.
Dopo aver dato un’occhiata al cocchiere, Silvia concentrò la propria attenzione all’individuo che stava uscendo dalla carrozza. Vide una mano dalle dita lunghe e pallide scostare i pesanti drappeggi e, fugace, un naso sottile, parzialmente nascosto dalle nere falde di un cappello, seguirla. Qualche istante dopo, il portello venne aperto e lo straniero mise piede sulle terre dei Kaufman.
Era alto e magro, con una tuba che sembrava allungarlo ancor di più. Tolto il cappello, Silvia vide nel viso dello straniero tratti regolari, belli perfino, incorniciati da una corta barba ed un paio di baffi.          
Gli occhi, azzurri, penetranti, sembravano voler scrutare ogni angolo dell’anima di Silvia: le sopracciglia folte e quasi unite al centro, davano all’uomo un velo di minaccia. I capelli erano neri, folti alla sommità del capo e radi sulle tempie, dove due strisce grigie si dipartivano fino alla base della nuca.
Con le mani lunghe reggeva un bastone incrostato d’argento. All’estremità inferiore di tale oggetto, ecco un puntale di ferro o qualche altro metallo.
Lo straniero fece un inchino, portandosi la tuba al petto: -Principe Vassili Ivanovic, servo vostro- disse, in ottimo francese. Era quella la lingua della nobiltà russa, adottata ancor prima che Napoleone portasse le proprie truppe fino a Mosca e mai completamente dimenticata. Alcuni boiardi trovavano addirittura sconveniente esprimersi in russo fra di loro, leggendo nella lingua madre un segno di appartenenza al popolino o alle classi meno abbienti. Abbondavano quindi, anche dopo la cacciata del Bonaparte, governanti o maggiordomi francesi che insegnassero al nobile o al borghese il corretto modo di esprimersi in questa lingua.
-Silvia Kaufman- rispose ella, facendo una riverenza: -la vostra nuova vicina.
Vassili fece un lungo sorriso con la sua bocca sottile: -Vi chiederete cosa mi porta a rubare un’udienza presso i miei vicini.
-In effetti- disse Silvia, ricambiando il sorriso.
-Ebbene, so che venite dalla Baviera- riprese Vassili: -E immagino conosciate poco la terra di Russia e le sue usanze.
-Volete farmi da mentore forse?
-A voi e a vostro marito- replicò l’uomo, tanto per non esser sconveniente: -Sia mai che vi trovaste spaesati in mezzo a noi rozzi contadini orientali!- disse.
-Ora che mi ci fate pensare, principe- Silvia lanciò allo straniero un sorriso argentino: -Io ed Ernst avremmo bisogno di qualcuno che ci introduca alle usanze della buona società moscovita. Ditemi dunque, quali sono le occupazioni di un principe?
-Oh,- egli represse un sorriso: -Poco o nulla in verità. Mi interesso di dagherrotipia, arte fiamminga, pittura e disegno in generale.
-Dovete avere una nutrita collezione di quadri dunque.
-In effetti- rispose Vassili: -Anche se nessuno dei loro vale per me quanto l’opera di un artista svizzero, Arnold Brocklin.
Silvia arrossì un poco: -Vi riferite all’isola dei morti?
-Stupenda, vero?
-Oddio, un po’ inquietante, ma…desta il mio interesse- rispose Silvia.
Cominciarono quindi a camminare, percorrendo i grandi giardini della tenuta Kaufman. Il cocchiere, aiutato da Ivan, parcheggiò la carrozza e si occupò dei cavalli. Maria intanto, seguita dalle altre cameriere, si preoccupava su ordine della governante, che al Principe Vassili non mancasse nulla: fece portare quindi una sedia in più e bricchi d’acqua sorgiva, nonché qualche dolcetto preparato in casa.
-Aspetto da un momento all’altro il ritorno di mio marito- disse Silvia. Erano comodamente seduti all’ombra nel gazebo ed il principe sorseggiava un bicchiere d’acqua ghiacciata, quando i suoi occhi caddero sul libro.
-Posso?- esordì, allungando la mano diafana per afferrarlo.
-Prego- rispose Silvia. Il principe guardò la copertina: -Uhm,- disse: -Il Vampiro, di George Gordon Byron…molto interessante.
-Ebbene,- fece Silvia, un po’ imbarazzata che il principe l’avesse colta a fare simili letture: -ho solo cominciato a sfogliarlo, ma se volete, prendetelo pure…credo mi dedicherò a qualcos’altro.
-La mia sfacciataggine non ha limiti- rispose Vassili: -Sono interessato a queste letture, ma non ho la fortuna di possedere una copia del libro che voi qui avete. È tradotto in ottimo francese, per giunta- disse, scrutandone alcune pagine: -Ma, devo informarvi, cara Silvia…mi è permesso chiamarvi col vostro nome di battesimo oppure sarebbe meglio…?
-Silvia va benissimo- lo interruppe lei: -Continuate, continuate pure- disse, con un sorriso.
-Ebbene,- riprese il principe: -questo scritto è stato erroneamente attribuito a Byron; in realtà è di John Polidori, medico personale dell’illustre poeta.
-Dite il vero?- fece, forzatamente sorpresa, Silvia: -Non ci si può dunque più fidare dei francesi?
-Oh, l’errore è stato fatto a Londra- rispose Vassili: -Ma se comunque vorrete prestarmelo, leggerò questo volume tutto d’un fiato e con molto piacere!
Silvia fece una piccola risata: -Sarà il pagamento per i vostri servigi, mio buon principe…oh, ma ecco che torna Ernst!- disse.
All’ingresso del vialetto entrambi videro una carrozza trainata da animali snelli e scattanti. Silvia riconobbe il marito, che la salutava con un gran sorriso sulla faccia.
Ernst balzò giù d’impeto, quasi sfondando lo sportello: -Silvia, mia cara!- disse, correndole incontro ed accorgendosi a mala pena del boiardo russo.
-Salve caro,- disse lei: -Ti presento il nostro vicino- concluse, allungando il braccio verso Vassili.
Quello, tanto magro quando Kaufman era grosso, fece un inchino e lo squadrò con gli occhi azzurri: -Principe Vassili Ivanovic, servo vostro- disse.
-Oh, principe!- sbottò Kaufman: -È un onore avervi qui.
-Voi due vi conoscete?- domandò Silvia.
-Fino ad ora solamente per lettera e mai vis a vis- rispose Ernst: -Il principe è uno dei maggiori azionisti della Banca; grazie alla sua guida nonché sollecitudine ho trovato questa meravigliosa dimora nella campagna moscovita- poi, rivolgendosi direttamente al boiardo, Kaufman riprese: -Vi avrei spedito un biglietto formale, Vassili Ivanovic, ma dato che siete qui, ho l’onore di invitarvi al ballo che terremo fra una settimana.
-Ernst!- s’intromise Silvia: -Mi sorprendete…un ballo…e non ne sapevo niente?
-Oh, mia cara!- fece Kaufman, abbracciandole i polsi con quelle sue mani da gigante: -Stavo appunto per parlarvene…è un’idea che mi è venuta oggi: servirà a fare il nostro debutto nella società moscovita!
-Ebbene,- intervenne il principe: -Si tratta di un’idea magnifica, che io stesso approvo pienamente.
-Vassili Ivanovic- disse Silvia: -Si è offerto di farci da guida attraverso il labirinto delle usanze orientali.
-Bene, bene!- esplose Ernst, con la sua gioia da orso.
-Avrete bisogno di tempo per preparare la festa- disse il boiardo: -Dunque mi congedo, ma sarò felice di partecipare al ballo!
-Certo, certo- disse Kaufman, mentre gli stringeva la mano: -Ah, principe…non vi ho spiegato che si tratta di una festa in maschera.
-Come quelle veneziani o francesi- osservò, con una punta di divertimento, Vassili Ivanovic: -Ebbene, ho già in mente con che costume presentarmi- disse; quindi, ringraziando ancora Silvia per il libro, fece arrivare la propria carrozza e se ne andò.
La settimana trascorse abbastanza rapidamente. I Kaufman non avevano un attimo di respiro: domestici e padroni, dall’alba al crepuscolo, si davano da fare alacremente per la buona riuscita del ballo.
Silvia, che sentiva d’esser ancor più stanca, cercò di scacciare le ansie e le paure dando una mano. Donna pratica e volenterosa, si recava personalmente dai migliori cuochi moscoviti per ordinare i piatti del rinfresco.
Due volte ebbe notizie di Vassili Ivanovic: la prima, quando il boiardo fece giungere il suo entourage domestico al completo per dare una mano nei preparativi e la seconda, quando un valletto a cavallo, consegnò alla governante un pacco per la Signora Kaufman.
Quando Silvia l’aprì, vide che conteneva “il Vampiro”, assieme ad un biglietto ed un grosso volume, entrambi in francese. Si trattava de “Il Conte di Montecristo”, un’opera che Silvia aveva sempre voluto leggere, ma non era riuscita a trovare nelle librerie bavaresi. Sul biglietto, che portava la firma del principe, erano scritte queste parole:
“Così non andremo più vagando, Nella notte fonda anche se il cuore vuole ancora amore e la luna splende luminosa…
Rubo le parole a Byron, poeta che ammiriamo entrambi, per introdurre questo mio biglietto.
Ho divorato il libro di John Polidori e, come pensavo, le sue pagine mi rivelano il costume adatto al ballo che si terrà a casa Vostra.
Leggendo di Lord Ruthven, l’essere ambiguo e demoniaco che Polidori definisce “vampiro”, mi è balzata in mente la somiglianza con il personaggio di questo libro francese, il Conte di Montecristo, che spero vivamente non abbiate ancora letto.
Sarei felice se, al termine dell’ultima pagina, deciderete di vestirvi come Mercedes, la catalana protagonista, come Emond Dantes, di questo libro.
Vostro, Principe Vassili Ivanovic”.
Finiva così il biglietto. Ripiegati busta e foglio, Silvia li mise nel piccolo mobile della sua camera.
Avrebbe voluto rispondere alle parole del Principe, ma dopo un attento esame, la giudicò come una cosa sconveniente. Innanzi tutto, Vassili Ivanovic non chiedeva espressamente che si rimandasse indietro alcunché; in secondo luogo, Ernst avrebbe giudicato strano uno scambio di biglietti fra lei e l’affascinante boiardo. Ad ogni modo, Silvia non voleva incrinare i rapporti tra il marito ed uno dei principali azionisti della sua banca, quindi, fu con una calma risolutezza che mandò via il servo del principe.
Qualche giorno prima del ballo, i Kaufman ricevettero la visita di altri due invitati: si trattava del Colonnello degli ussari, Anton Leontiev e del gentiluomo italiano, Visconte da Cremella.
Il primo, un uomo atletico, nonostante i sessant’anni, aveva capelli grigi e occhi verdi, obliqui come quelli di un gatto, il naso piccolo ed il volto affilato come la lama di una sciabola. Si presentò in alta uniforme, con la spada che gli batteva sulla coscia ed il capello sottobraccio. Come c’era da aspettarsi, l’interesse del Colonnello durante la visita, furono le armi, le tecniche di guerra e d’allevamento di equini. Ne possedeva molti presso le sue scuderie, ma i più belli, i più forti, non giungevano alla maestosità di quelli del Principe Vassili. Ernst e Silvia si trovarono d’accordo: i cavalli del principe riflettevano il suo stesso portamento, nobile, fiero, come un lupo della foresta.
Durante la visita del Colonnello, Silvia sperava ardentemente che Ernst non aprisse il passaggio per la stanza delle torture. Sarebbe stato di cattivo gusto infatti, mostrare a Leontiev quell’orribile luogo. Fortunatamente Ernst parve rinsavito: durante tutta la visita e in quella settimana in generale, lo si poté vedere come un perfetto padrone di casa, sempre attento ai capricci degli ospiti e pronto a cercare di soddisfarli al meglio.
Il Visconte si mostrò difficile. Sfoggiava un taglio di capelli napoleonico ed era quasi impossibile da accontentare in fatto di vini: un uomo mondano, che aveva viaggiato in lungo e in largo e alla fine, dopo mille avventure, si era deciso su consiglio del Principe Ivanovic, a stabilire la propria dimora in territorio moscovita.
L’unico pregio, che compensava largamente i difetti del Visconte, era di parlare un tedesco impeccabile, neanche fosse egli medesimo rampollo d’Austria o di Prussia.
Sia Ernst che Silvia gliene furono immensamente grati: era una tortura dover arrotare le lingue nell’esercizio di parlar francese!
Col Visconte, il pericolo che Kaufman mostrasse la famigerata camera delle torture era inesistente: Da Cremella infatti, mal sopportava la violenza, preferendo dedicarsi all’arte, alla poesia e alle gioie dell’assenzio.
Passarono quindi i giorni, finché, la sera precedente al ballo, Silvia ricevette un nuovo messaggio. Il Principe Vassili informava che l’indomani, avrebbe fatto un ingresso straordinario, come pochi se n’erano veduti fino allora.
Con le parole di quell’uomo bizzarro nel cuore, ella si addormentò.
Al mattino era stanca, con vistose rughe sotto gli occhi ed uno sguardo addolorato.
Si presentò a colazione in ritardo, suscitando in Ernst una grande preoccupazione.
-Che succede mia cara?- domandò il marito, quando, vestita di tutto punto, Silvia entrò nella camera da pranzo.
-Ebbene, nulla- rispose lei: -Sono indisposta.
-Indisposta?- replicò Ernst.
-Si, di quel male che colpisce noi donne una volta ogni mese.
Il Signor Kaufman arrossì e non chiese più nulla; sarebbe stato sconveniente infatti, continuare a discutere con la propria moglie su argomenti tabù come quello, decise perciò che il male sarebbe passato e che avrebbe avuto una Silvia radiosa la sera del ballo.
Ritiratasi in camera, la Signora Kaufman chiamò Maria.
-Mia cara,- disse, non appena la domestica chiuse la porta: -Non mi sento molto bene. Se oggi dovesse venire qualcuno a farci visita, manda a dire al Signor Kaufman che non scenderò.
-Sissignora, ma dite…che vi affligge?- replicò la cameriera, inciampando più volte nel francese.
Dapprima riluttante a rispondere, solo dopo alcuni minuti ed un samovar di tè caldo, si convinse a rivelare l’origine del proprio male.
-Ho fatto un sogno- disse, con aria stralunata.
-Che genere di sogno…dite!- la incalzava Maria.
-Ebbene- Silvia deglutì: -Mi trovavo in una pianura simile alla brughiera germanica, eppur differente…
Stavo camminando a piedi nudi e in camicia da notte. I miei capelli sciolti, danzavano come serpenti al ululare del vento e…
Ho visto i lupi…i lupi, Maria!
-Quali, Signora?- fece la cameriera.
-Li ho visti giorni fa, dalla finestra della torre…erano gli stessi! Anche nel sogno, avanzavano con la lingua a penzoloni. Si sono fermati a pochi metri dalla chiesa, perfettamente in vista. Era come se sapessero…se sapessero che li stavo osservando: avevano occhi rossi come fuochi ardenti e lunghe, fameliche zanne!
-Oh buon Dio!- trasalì la cameriera e, dopo aver baciato più volte il crocifisso che portava al collo, si affrettò a mormorare qualcosa nella propria lingua.
-Che…che accade…che vi prende, Maria?
-Niente, niente Signora- disse quella: -È solo che…la mia povera mamma da quando è malata fa lo stesso sogno. Molte volte mi ha narrato dei lupi che attraversano il giardino, ma c’è una differenza con quello che mi dite Voi.
-Parla, dunque, benedetta ragazza!- fece Silvia.
-Nel sogno mia madre si trovava lontana dalle bestie. Vedeva un castello, un grande castello, proprio come questo e…c’era una donna…
-Una donna assieme ai lupi?- ribatté Silvia.
Maria annuì: -Una donna con i capelli al vento ed i piedi nudi. I lupi si mostravano impauriti di fronte a lei!
-Sei sicura?- domandò Silvia.
Maria ancora una volta annuì: -Mia madre ha fatto questo sogno per tanto tempo, sempre lo stesso, sebbene ogni tanto, i particolari cambiassero un poco.
-Sta molto male?- volle informarsi Silvia.
La cameriera, con occhi bassi e scossa dai singhiozzi, si abbandonò al pianto.
-Oh, non temere bambina- disse Silvia: -Manderò il dottore perché si prenda cura di tua madre.
-Signora, ne io ne la mia famiglia abbiamo di ché pagarlo, pertanto…
-Verrà a mie spese e niente obiezioni.
Fu solo nel tardo pomeriggio, quando si decise a scender da basso, che la Signora Kaufman vide suo marito. Ernst parlava con il maggiordomo, passando ogni tanto dal francese al suo russo rudimentale.
Quando la scorse, così pallida ed emaciata, Kaufman lanciò un grido: -Silvia! Mia cara, che succede?
-Il solito male di cui vi ho parlato a colazione- disse lei, un po’ seccata. 
-Oh, già- fece Kaufman: -Eppure credevo che fosse passeggero, che…
-Non così presto, mio caro Ernst- ribatté lei.
A questo punto, Ivan s’intromise: -Venite padrona, lasciate che vi aiuti a sedere sul divano…ecco, così.
-Grazie, Ivan- disse Silvia, con una punta di disgusto al pensiero d’aver toccato la mano del maggiordomo-mummia.
-Oh di nulla- fece questi: -Prima che mi dimentichi- disse, con una punta di malizia: -Vi informo che i domestici del Principe Vassili Ivanovic sono tornati questa mattina dal loro padrone.
-Bene, bene Ivan- disse Kaufman.
-Il Principe ha un lignaggio molto antico- continuò Ivan, con l’aria di chi voglia rivelare a tutti i costi un segreto: -Discende da Ivan Vasilievic, o come diciamo noi, Ivan Grozny, zar di tutte le russie.
-Grozny hai detto?- fece Kaufman, la cui grezza conoscenza di russo gli forniva un vocabolario alquanto limitato.
-Nel vostro francese si tradurrebbe con il Temibile o il Terribile- spiegò Ivan.
-Ivan il Terribile- disse Silvia: -Ho già sentito questo nome…
-Egli era un grande re- fece il maggiordomo, corrugando la fronte e parlando con voce stentorea: -Ma sfortunatamente, le trame e gli omicidi orditi dalle due principali famiglie boiarde del tempo, gli avvelenarono l’anima, facendo apparire ai suoi occhi tutti i nobili come spie e traditori.
Tutti qui conoscono la sua storia!- disse infine.
-Raccontaci allora- lo incalzò Silvia: -Cosa sai?
-Ebbene, a quattordici anni, chiamò a sé i due bracconieri più fidati, ordinando loro di catturare e strozzare il capo famiglia dei Sujskij. Egli assistette mentre lo ammazzavano. Si dice che fosse impassibile e per niente sconvolto da ciò che vide.
-Buon dio!- fece Silvia.
-Mia cara…- intervenne Ernst, con tono conciliante: -A quel tempo non si facevano tanti scrupoli, ma continua…continua pure- disse ad Ivan.
-Il giovane principe si circondò di una nuova schiatta di nobili. Con loro percorreva le strade moscovite, bastonando a morte chiunque incontrasse sul suo cammino e violentando le donne. Si dice che il suo passatempo preferito, fosse quello di gettare i cani dall’alto del castello!
-Basta!- urlò Silvia: -Ti proibisco di dire un’altra parola!
-Ma mia cara- Kaufman intervenne a favore del maggiordomo: -Sono stato io ad incoraggiarlo a proseguire…
-Ebbene non voglio sapere più nulla di questa storia- strillò Silvia: -Vado a fare una passeggiata fuori- disse e uscì in giardino.
Più tardi a sera, quando cominciarono a giungere le prime carrozze, Silvia si vide costretta a rientrare e mutar d’abito per l’occasione.
Fu così che gli ospiti, ormai radunati in un variopinto esercito nel grandissimo salone del castello, videro scendere dalla scala principale la bellissima Mercedes, promessa sposa di Edmond Dantes, accompagnata da una sorta d’incrocio fra i plantigradi delle terre russe ed il Barone di Munchausen.
Con la parrucca settecentesca, un ridicolo cappellino ed il pettorale d’acciaio Ernst Kaufman condusse la propria signora in mezzo agli invitati.
Spiccava fra di loro un Sinbad il Marinaio di mezza età, i cui mustacchi grigi e gli occhi da gatto, tradivano il Colonnello Leontiev, accanto a lui una maschera veneziana, dal naso lungo ed il tricorno nero, sventolava uno stupendo quanto autentico tabarro.
Silvia era meravigliata da come in poco tempo, quegli esponenti della nuova borghesia russa fossero riusciti a creare abiti fantasiosi, senza minimamente copiarsi l’un l’altro. C’erano regine, principi, fate, contadine russe e terribili bucanieri: Silvia vide perfino un indiano d’America ornato di penne e la sua controparte femminile, con trecce e gonna di pelle scamosciata.
Dopo aver fatto gli onori di casa, lei ed il marito vennero abbordati dal Veneziano.
-Sinbad qui,- disse in tedesco, indicando Leontiev: -Mi stava illuminando sulle sue straordinarie imprese guerresche…
-Ebbene!- fece il Colonnello, tirandosi i mustacchi: -Dicevo a Casanova, mio caro Barone e mia cara Signora- Leontiev fece un inchino ad entrambi: -Della battaglia di Borodino.
-Spero che il Signor Da Cremella non v’abbia detto qualcosa di sconveniente sul mio conto nel suo impeccabile tedesco!- continuò Sinbad.
-Nient’affatto- ribatté Silvia: -E prego fin da ora Antonio Casanova di parlare in francese con noi, come con i nostri ospiti!
-Voi ordinate, io eseguo- disse il Veneziano, inchinandosi.
-Dunque,- continuò Leontiev, felice di aver pubblico per le sue imprese guerresche: -ero lì, tra le file di Kutuzov…gran Generale, superbo stratega! Quando ci mandarono all’attacco. Dovevamo metter fuori uso una batteria nemica che bombardava senza posa le nostre retrovie.
Ebbene, tra esplosioni e schizzi di fango, mi lanciai al galoppo verso le linee francesi. Ero un ragazzo allora, pieno di incoscienza- qui Sinbad alzò il proprio tono di voce, levando sopra la testa un bicchiere colmo di vino: -La gloria! Ecco il mio nettare d’allora!
-Ma non mi dica!- fece il Veneziano, palesemente annoiato.
Tuttavia, Leontiev non si fece scoraggiare e proseguì: -Maledetti cannoni francesi! Un paio di colpi ben assestati e dei miei compagni non era rimasta che l’ombra. Mi ritrovai quindi a sciabolare con gli ufficiali nemici…un corpo a corpo sanguinoso, epico e crudele al tempo stesso!
-Interessante- fece il solito Veneziano: -Le sue avventure oltrepassano di gran lunga quelle del nostro Barone di Munchausen!
Stavolta Silvia vide un mutamento nel volto del Colonnello: Leontiev era paonazzo ed i mustacchi fremevano come scossi da brividi elettrici. Si preparava quindi, Mercedes a dire una parola conciliante, che uno degli ospiti prese a gridare.
-Che accade? Che accade?- fecero gli altri.
-Un oggetto scende dal cielo!- disse quello.
Gli invitati si precipitarono fuori.
Silvia, attirata dalla prospettiva di vedere un fenomeno straordinario, si scusò col suo interlocutore e uscì in giardino. Alcuni istanti dopo, anche il Barone di Munchausen la seguiva.
-Dunque, Marinaio- disse il Veneziano, rimasto solo al castello con un Leontiev attonito: -Stavate sciabolando con i francesi…e poi?
-Vi burlate di me!- ruggì il Colonnello: -Se non fosse che trovo stupido turbare l’armonia d’una festa, vi chiederei soddisfazione!
-Ma io sono un gentiluomo- fece il Veneziano: -Mentre voi un Marinaio, un avventuriero! Non apparteniamo alla stessa classe sociale, quindi, niente duello! Ma ora venite…venite mio buon Sinbad, scopriamo cosa accade là fuori!
S’impennava in effetti, sopra gli alberi, una forma rotonda, cui era agganciata, mediante corde, una navicella di legno con fregi ben fatti.
Il fenomeno aveva lasciato tutti col naso all’insù e la bocca aperta.
-Buon dio, cos’è quell’affare?- disse Leontiev, sinceramente stupito.
-Ma come?- fece accanto a lui il Veneziano: -È un aerostato! Non ne avete sentito mai parlare? Poveri Montgolfier! Povero Rozier! Esistono ancora sulla terra persone ignoranti come voi, Marinaio?
Intanto, lontano da quelle scaramucce verbali, Silvia aveva riconosciuto sulla navicella, il simbolo del drago.
È il principe, pensò: mi aveva detto che sarebbe entrato come mai nessun altro!
Ed ecco finalmente, tra sbuffi d’aria calda e mormorii concitati, l’aerostato posarsi a terra, ed un Lord Ruthven, redivivo vampiro, scenderne accompagnato da un paggio.
Tutti si affollarono attorno il veicolo, alcuni pieni di meraviglia, altri di disgusto.
-Che insolenza!- disse uno, vestito da capo cosacco: -Far sfoggio in questo modo dei suoi milioni!
-Eppure è il congegno più interessante ch’io abbia mai visto- replicò un bucaniere.
-Animo, animo signori- intervenne, a questo punto, il Principe Vassili: -Lasciate che Petruscia si occupi del pallone…va infatti sgonfiato e piegato a dovere.
Gli occhi del gentiluomo dardeggiavano sulla folla: azzurri, freddi, davano al Principe l’aria di un lupo.
-Eccovi!- disse, scorta la bella Silvia: -Mia buona catalana e voi, illustre barone- Vassili fece un inchino a Munchausen: -Perdonate il ritardo!
-Siete scusato- Silvia fece un sorriso, porgendo la mano che il principe si affrettò a baciare.
-Venite, venite, mio caro!- disse il barone di Munchausen, invitando Vassili ad entrare nel castello.
-Ebbene,- s’intromise Silvia, guardandolo con rapimento: -Siete Edmond Dantes, o Lord Ruthven?
-Il secondo, se più vi piace- rispose Vassili.
-Entriamo ora- propose Silvia.
Gli ospiti si affollavano nuovamente nel salone principale, gustando questa o quella portata. Una piccola orchestra di violini, fiati e tamburi prese posto sulla ribalta, all’angolo orientale.
Lord Ruthven e Mercedes andarono verso il centro, separati dal barone di Munchausen.
Toccò alla bella catalana aprire le danze.
-Permettete?- disse Ruthven, baciandole la mano e invitandola a danzare. Silvia arrossì: -Ma certo, l’invito di un vampiro illustre non si rifiuta.
L’orchestra attaccò un minuetto, facendo scivolare gli invitati in quella piacevole trama di musica e passione.
Silvia ed il principe ballavano, dimentichi di ogni cosa. Gli occhi di lei erano avvinti in quelli azzurri e lupeschi del “vampiro”.
-Siete speciale per me- disse improvvisamente Silvia.
Vassili fece un sorriso crudele: -Anche voi…non sapete quanto!
D’un tratto, si vide la cameriera, Maria, correre a perdifiato in mezzo agli ospiti: piangeva come una disperata.
Silvia non riuscì a raggiungerla, ma vide, poco più in là, il volto severo della governante.
-Signora- la vecchia domestica precedette qualsiasi domanda: -Maria è sconvolta.
-Che accade dunque?- fece Silvia.
-Sua madre è spirata questa notte.
-Oddio, è terribile!- Silvia proruppe in un’esclamazione soffocata: -Sta mattina mi ha detto che la madre era malata…io non pensavo che…
-Purtroppo- fece la governante, scuotendo il capo: -La notizia è giunta qui solo ora.
-Ma com’è possibile? Oddio…- Silvia barcollò: -Mi sento mancare!
-Lord Ruthven è qui- disse una voce. Silvia sentì le mani del principe serrarsi attorno la propria vita: -Non temete.
-Vi prego- disse allora la donna: -Conducetemi presso le mie stanze.
-Agli ordini- disse Ruthven; poi, giratosi verso la governante: -Fate chiamare il marito!
Con il sostegno di Vassili, Silvia riuscì ad inerpicarsi sulla grande scalinata. Dal basso, Sinbad ed il Veneziano, commentavano la scena con fare preoccupato: -Un mancamento?- suggerì il Colonnello.
-Andiamo a vedere!- propose quindi il Visconte.
Seguirono Silvia ed il suo cavaliere fino in cima, dove già uno stuolo di domestici in allerta, si affrettava per preparare la stanza della Signora.
Quando fu messa a letto, come un orso in preda al panico, Kaufman irruppe: -Silvia, Silvia!- gridava.
-Ha avuto un mancamento- disse, asciutto, il principe: -Chiamate il dottore e che porti i Sali!
-Certo…subito!- fece Ernst e precipitatosi fuori come un folle, corse a chiamare il medico.
Con Vassili c’erano anche Leontiev ed il Visconte da Cremella, entrambi chini a scrutare la malata.
Bussarono all’uscio: Sinbad andò ad aprire e vide il domestico del principe.
-Ah, Petruscia- fece Vassili. L’uomo recava con sé una borsa di cuoio: vicino la chiusura metallica, si poteva ben distinguere il simbolo del drago.
-Mettila qui- disse il principe: -E ora vai, lasciaci soli.
Obbedendo, il domestico uscì e chiuse la porta.
-Silvia, Silvia, mi sentite?- fece, a questo punto, Vassili. Aperti un poco gli occhi, lei rispose con voce flebile: -Si mio principe.
-Ebbene, come state…non fatemi penare!
-Male…talmente male che…
-Che…?
-La mia mente è percorsa da strane idee e brutti pensieri- ammise Silvia.
-Dite, ditemi!- la incalzò Vassili, con aria preoccupata.
-Ebbene,- fece lei, titubante: -Credete ai vampiri?
-I vampiri!- intervenne Leontiev: -Che storie assurde!
Vassili lo fermò con un gesto; poi, rivolto a Silvia: -Si, ci credo- disse.
-Mi sento debole- fece lei: -Sempre di più, come se le energie mi venissero succhiate via dal corpo.
-Suvvia!- la interruppe nuovamente Leontiev: -Può essere stanchezza dovuta al cambiamento di clima. Qui abbiamo stagioni più rigide che nella vostra Baviera.
-Colonnello!- lo rimbrottò Vassili: -Fate silenzio!- poi, volgendosi a guardare Silvia: -Mia cara, i vampiri esistono e sono qui, più vicini di quanto pensiate.
-Quella donna…?- la Signora Kaufman trasalì al ricordo della madre di Maria.
-Si- fece il principe: -È stata uccisa da un vampiro.
-Voi come lo sapete?- sbottò il Colonnello.
-Ero lì- rispose Vassili. In quel preciso istante, come evocati da un qualche richiamo, si levarono lunghe e lugubri voci di lupo.
Molti, nella sala da ballo, arrestavano le danze: -Sono lupi!- disse uno: -Lupi, lupi!- fecero eco gli altri.
Anche Kaufman, che aveva appena trovato il dottore, si fermò: -Che diavolo…?
D’un tratto, un urlo ed un tondo si fecero udire chiaramente. Ernst Kaufman scattò, allarmato: -Viene dalla camera di Silvia!- disse, precipitandosi su per le scale.
Quando spalancò la porta, ciò che vide lo fece trasalire: Sindab il Marinaio impugnava un candelabro d’argento, tenendolo alto sopra il capo. Ai suoi piedi, con la testa in una pozza di sangue, giaceva Lord Ruthven. Innocenti testimoni di quello scempio, Silvia ed il Visconte da Cremella stavano lì, con gli occhi sbarrati. La donna, in un inutile gesto era china sul cadavere e cercava di fermare la fuoriuscita di sangue.
-Oddio!- urlò Kaufman.
Quando il Colonnello lo vide, il suo sguardo, fino ad allora vacuo, sembrò tornare alla normale lucentezza. Il candelabro gli cadde di mano e le ginocchia non lo ressero più.
-Che…che ho fatto?- balbettava: -Buon dio, che ho fatto?
Si concluse in questo modo orribile, la festa in casa Kaufman.
Anton Leontiev venne degradato, espulso dall’esercito e internato in un manicomio. I dottori ipotizzarono per lui un caso di schizofrenia: Leontiev quindi era come affetto da una doppia personalità che si mostrava nei momenti di stress emotivo.
Il Principe Vassili Ivanovic, artista, benefattore e magnate della finanza, venne seppellito nel mausoleo nobiliare che gli apparteneva.
Ernst Kaufman cadde in depressione: continuava a ripetere che non avrebbero dovuto andare in terra di Russia: -È stato uno sbaglio, un deprecabile sbaglio! Io…io sono il colpevole di tutto ciò!
Qualche giorno dopo, Ernst e Silvia ricevettero la visita del Visconte da Cremella.
-Mio buon Kaufman- disse il nobile, mentre sorseggiava un ottimo Borgogna: -Rammentate la borsa di pelle che c’era in camera di vostra moglie?
-Certo, quella del povero principe- rispose Kaufman: -Ebbene?
-Nel caso l’aveste ancora voi, mi piacerebbe darci un’occhiata.
-Fate pure- assentì Ernst: -Chiederò ad Ivan di portarla giù.
Dopo non molto apparve il maggiordomo: fra le mani recava la borsa di pelle col simbolo del drago inciso in argento. Oltre a questo, fu premura di Ivan dare al Visconte anche il bastone appartenuto a Vassili.
-Grazie- sorrise Da Cremella: -Mi preoccuperò di farla avere ai servi del defunto- e, chiamata la sua carrozza, andò via.
L’indomani, Kaufman se lo vide rispuntare in casa.
-Visconte!- disse, un po’ seccato: -Non vi attendevo.
-Perdonate se non mi son fatto annunciare, ma ho qualcosa di importante da dirvi- si giustificò l’italiano: -A proposito, come sta Vostra moglie?
Kaufman fece un debole sorriso: -Meglio…le è ritornato un po’ di rosa sulla guance, dopo il terribile spavento.
-Si, ma ora dov’è?- volle sapere il Visconte.
-In camera sua; riposa- si scusò Kaufman.
-Guardate qua- disse allora il Visconte e, buttata su un tavolino la borsa, estrasse una chiave dalla tasca del panciotto.
-Ecco, ora è aperta…prego, leggete questi scritti.
-Ma io…non conosco troppo bene il cirillico- protestò Kaufman.
-Oh, giusto…lasciate allora che traduca…è un estratto dai documenti di Johannes Fluchinger, ufficiale medico, che narra di un villaggio serbo attaccato dai vampiri.
-Vampiri?- esclamò a questo punto Kaufman.
-Si amico mio, vampiri…e ora state a sentire…
“Ho condotto l’indagine con la consulenza di altri due ufficiali medici, in presenza del capitano della locale fanteria e degli ufficiali più anziani del villaggio. I quali mi hanno riferito ciò che segue: cinque anni fa uno di loro, Arnold Paole, si ruppe il collo cadendo da un carro. Lo stesso Paole, in vita, aveva detto di essere stato morso da un vampiro, presso Gossowa nella Turchia serba. Per liberarsi dall’influsso maligno, aveva mangiato terra presa dalla tomba del presunto vampiro. Tuttavia, una ventina di giorni dopo la sua morte, alcune persone dissero che Paole era tornato a tormentarle ed, in effetti, quattro di loro morirono. I paesani disseppellirono Paole quaranta giorni dopo la sepoltura e trovarono il suo corpo intatto. Sangue fresco era colato da occhi, naso, orecchie, bocca; camicia, sudario e bara erano pieni di sangue; le unghie delle mani e dei piedi erano ricresciute. Da ciò si dedusse che Arnold Paole era un vampiro e, secondo l’usanza, gli fu piantato un paletto nel cuore. In quello stesso istante, egli emise un forte gemito e un fiotto di sangue schizzò fuori dal suo corpo. Indi, il cadavere fu arso e ridotto in cenere.”
Dopo la lettura, Kaufman era stordito: -Che dite, mio buon Visconte, non vi seguo. Vampiri, epidemie, sangue…?
-Ascoltate- riprese l’italiano: -Fra le passioni del defunto boiardo vi era lo studio del fenomeno chiamato vampirismo. Egli raccolse e catalogò un numero incredibile di documenti. Ho potuto consultarli nella biblioteca del principe stesso.
Ebbene, vedo come negli ultimi anni egli si facesse un dovere dell’annientamento di un vampiro- qui il Visconte si interruppe e cambiò discorso: -Sapete nulla dell’uccisione avvenuta per dissanguamento di un neonato lo scorso inverno?
-Oddio, no! Ma perché mi torturate così?- fece Kaufman.
-La polizia trovò sul corpo del piccolo due fori paralleli in corrispondenza della vena giugulare. Se ne dedusse che il sangue era uscito da lì. Vi dirò ancora, che nei giorni precedenti alla sua morte il bambino faceva strani sogni.
-Che…che tipo di…sogni?- balbettò Kaufman.
Il viso del nobile divenne serio: -Come quelli di vostra moglie!
-Sapete dei sogni di…Silvia?- domandò, incredulo Ernst.
-Si- rispose Da Cremella: -È scritto nel diario di Vassili.
-Buon dio! Il principe prendeva appunti su mia moglie?
-Ha scritto qualcosa anche sulla madre della vostra cameriera.
-Maria?
-Si,- fece il Visconte: -Come sapete è morta la notte prima del ballo per febbre cerebrale, ma il Principe Ivanovic ha sempre creduto che si trattasse di vampirismo. La donna faceva lo stesso incubo di vostra moglie e del bambino.
-Ma questo cosa significa?- Kaufman, sempre più stralunato, cercava di comprendere le parole del Visconte.
-Il bambino è deceduto a Monaco, in Baviera- fece Da Cremella.
-Tanta gente muore qui come a Monaco, ma non bisogna per forza scomodare i vampiri!- protestò Kaufman.
-Invece si. Vedete, questo demone in particolare, è uno dei più difficili da distruggere. Durante il giorno si comporta come una persona qualunque e addirittura, può camminare alla luce del sole; la notte però, il suo vero “io”sopravanza ed egli sguscia nelle case. Applica i denti sul collo delle vittime e ne beve il sangue. Una lampreda, un mostro demoniaco in forma umana, ecco cos’è!
L’indomani, non rammenta più nulla; può continuare così il suo inganno verso chi gli sta accanto.
-Come dite?- fece Kaufman.
-Il vampiro si serve di umani che, sotto potere ipnotico, lo difendono quando è più debole…gente come voi o come il povero Leontiev!
A questo punto, Kaufman fece una smorfia bizzarra: -Ora ricordo!- disse: -A Monaco, incontrai Vassili ed egli mi fece fissar gli occhi su un pendolo d’argento! Eppure, giuro di non aver mai visto il principe, se non qui, in Russia.
-Ipnosi- spiegò brevemente l’italiano: -Anche lui se ne serviva…per tutt’altro fine.
-Non è dunque Vassili il mostro?
-Siete fuori strada- replicò Da Cremella.
Vedete, scoperta questa casa come uno dei luoghi che tolgono le forze al vampiro, Ivanovic lo ha attirato in Russia.
-Qui?- fece Kaufman.
-Il suo piano era combatterlo nella camera delle torture; secondo gli appunti che ha lasciato, ci stava quasi riuscendo…ma Voi mio caro Ernst, vi siete intromesso!
Il ceppo nella camera serve a decapitare vampiri: stavate esaminando le spade…avreste dovuto prenderne una e infilarla nel cuore del mostro, per poi staccargli la testa! Tali erano gli ordini che Vassili vi ha impartito con l’ipnosi! Neanche Ivan, il suo agente è riuscito ad impedire che rovinaste tutto.
A questo punto, Kaufman divenne paonazzo: -Cosa diavolo volete insinuare?- gridò.
L’altro gli rispose con tono pacato: -Silvia è il vampiro, il demone che cammina con piedi umani! Beve sangue; striscia nelle tenebre per cacciare e nutrirsi!
-Osservate questo- fece l’italiano, dopo una breve pausa.
Si trattava d’una lastra di rame protetta da una seconda in vetro.
-Un dagherrotipo?- azzardò Kaufman. Il Visconte annuì: -Guardate- disse: -Guardate bene…è stato impresso a Monaco, lo scorso anno.
L’immagine mostrava uno sfondo arboreo di bosco o parco cittadino, dove pioppi e altri alberi venivano piegati per l’azione del vento. Nel mezzo della scena, si vedeva una figura, una donna, camminare a piedi nudi e abbigliata solo della camicia da notte. Benché il dagherrotipo fosse scuro, Kaufman poté distinguere il viso di Silvia: era una maschera d’odio, trasfigurata dallo sguardo malevolo e lunghe, candide zanne che le spuntavano dalla bocca.
-Per molte notti il principe si è appostato qui- disse ad un tratto l’italiano: -Vicino all’abitazione del bambino assassinato.
-Il vampiro è molto forte nella sua terra d’origine- continuò Da Cremella: -E Vassili non poteva ucciderlo lì, a Monaco.
Tramite un artista visionario, Arnold Brocklin, ha scoperto dell’esistenza di alcuni luoghi dove il vampiro è più debole.
-Brocklin?- disse il banchiere: -L’isola dei morti?
Da Cremella annuì: -Ne ha fatte più copie, ognuna leggermente diversa dalle altre, ma tutte ispirate a luoghi realmente esistenti, come casa vostra, mio buon Ernst!
-Oddio!- fece il banchiere: -Non capisco più nulla!  
-C’è solo da agire!- replicò il Visconte: -La dentro abbiamo un vampiro, debole ma pur sempre pericoloso.
Kaufman fece per ribattere, quando l’altro lo interruppe: -Andiamo- disse: -Andiamo finché è giorno! La caccia sta per iniziare!
02/12/2009, Marcello Nicolini