IL LAGO DEI MONACI CIECHI

Dedicato ai Racconti di Dracula e ai Classici dell’Orrore KKK

Per Sergio Bissoli

Sono un miserabile e non possiedo né campi, né famiglia. Una volta lavoravo in una fabbrica di alluminio. Prendevo bene a fare l’operaio e non mi lamentavo. Poi, verso i 35 anni, la fabbrica ha scoperto che produrre in Albania costava un terzo e ha deciso di chiudere e spostare gli stabilimenti. Così mi sono ritrovato senza un lavoro. Ho cercato altro. Attraverso un’agenzia interinale ho fatto un mese come commesso al self, ma non ero abituato a essere trattato come un ragazzino stupido, e così, alla fine del contratto, mi hanno sbattuto fuori. Sull’orlo della fame più nera, ho preso la licenza di ambulante per vendere amuleti. Sono un venditore ambulante di amuleti contro le malattie più disperate: eczema, herpes, malocchio. Praticamente confeziono dei piccoli pezzi di carta con sopra scritte delle parole mischiate con erbe tritate, infine metto il tutto dentro dei pacchettini di canapa da appendere al collo. L’amuleto è una lunga striscia di carta con segni cabalistici e diagrammi dentro il sacchetto. I segni li copio da alcuni vecchi libri di magia che ho comprato a mia volta da una bancarella di libri usati. Un libro in particolare, molto antico e ricercato, ne contiene moltissime di formule. Si intitola: “De Mysterio satanico atque de lapide philosophorum ad maleficos usus utenda”.  Mi aggiro nelle fiere della regione e, per qualche soldo o una fetta di polenta fritta, cerco di piazzare la mia mercanzia. Non diventerò mai ricco, ma mi accontento di non morire di fame. Dopotutto è sempre meglio che rubare o fare il mafioso. Vado dove le gambe mi portano e sono libero come il vento che scende dai monti. Adesso sono gli ultimi giorni belli, e presto il freddo porterà via anche le ultime sagre. Un lungo sonno scenderà sopra ai paesi e la gente si chiuderà dentro le cucine a ingrassare il fuoco nei camini. Io mi aggiro in queste valli dalla fine di Maggio e ho concluso magri affari. Seguo la linea del verde, vedo le colline susseguirsi indistinte fino a mutare in monti e arrivo a Groppofosco. Lì si deve svolgere una grossa fiera di fine estate con numerosissime bancarelle e gente che accorre da tutte le località. Spero di rifarmi e avere di che sopravvivere durante la lunga notte invernale. Gli anni passati ricordo di aver fatto degli ottimi affari a Groppofosco: la gente è parecchio superstiziosa e c’è sempre qualche bambino posseduto o qualcuno convinto di aver attirato l’invidia di qualcun altro. Eccomi arrivato. Una ripida stradina acciottolata porta all’arco d’ingresso con lo stemma gentilizio di qualche casata estinta. Mi aggiro tra quelle case di pietra, sotto archi, vicoli, crocevia e incontro solo finestre sbarrate. Non sembra esserci nessuno, tanto meno una sagra. Il paese è morto, gli unici padroni sono i cani che si spulciano e i gatti accoccolati sotto le pergole. Io, viandante, stremato dall’afa, mi interrogo se, per caso, non abbia sbagliato e non sia arrivato troppo in anticipo o troppo in ritardo. Supero una grossa macina di pietra e una chiesa nera chiusa con dei grossi lucchetti. Arrivo nei pressi della locanda. Scendo dei ripidi gradini e, sul fondo, trovo una porta di legno mezza sfasciata. Dietro, uno stanzone scavato nella roccia e ingombro di damigiane e salumi penzolanti dal soffitto. Intravedo bauli ricolmi di grano, fagioli, fave, piselli e ogni ben di Dio. Lo stanzone è vuoto, eccetto per l’oste dietro al bancone. Mi avvicino e poso qualche monetina per un bicchiere di Rosolio. Dopo aver tirato una lunga boccata al bicchiere, mi rivolgo all’oste, un omone grasso con una faccia screpolata come pane mal cotto e una barba grigia ispida come il riccio della castagna.

Ehi buon uomo.

Ehh.

Non fate più la fiera qui?

Eh, Groppofosco ormai è fottuto.

Oibò, che dite mai?

Fanculo.

A me?

No. No. All’idea che non ci sia più la fiera.

E’ un peccato. Ma come mai?

Non lo sapete?

Se ve lo chiedo.

Mi ricordo di voi. Dall’anno passato. Siete quello che vende amuleti.

Esatto. Vengo qui ogni fine estate.

Bene. Quest’anno, se vi preme la pelle, vi conviene fare fagotto.

Siete ammattito?

Dio lo voglia.

Mi contate delle panzane?

Decidete voi: avete visto in giro aria di festa? Banchetti, belle ragazze che danzano, musica? Ditemi, avete visto una sola di queste cose?

No, infatti.

E le case? Avete visto le case?

Sembrano abbandonate.

Quasi. Rimaniamo in pochi. I più poveri. Quelli che non hanno altro oltre a un pezzetto di terra e un tetto. Andarcene vorrebbe dire morire, allora tanto vale.

Ma perché tutto questo? Su parlate, andate al punto, perché ci sarà un punto.

C’è, c’è per quello. E poi chissà. Magari siete quello giusto. Gli amuleti in fondo…

Ne ho fin sopra le orecchie di amuleti. Ve ne serve uno in particolare?

Me ne serve, ce ne servono centinaia, ah, ah, ah.

Che avete? Cos’è questa risata da matto. Avanti che perdo la pazienza e sono stanco di camminare per le valli. Qui volevo sostare e fare affari, e per Dio li farò.

Non per Dio, ma per Satanasso!

Ancora enigmi, non capite proprio che amo la favella chiara?

Ecco caro amico. Dovete sapere che qui ci serve un amuleto, o la benedizione di qualche sant’uomo, contro il male che colpisce le ragazzine.

Quali ragazzine?

Le nostre giovinette, quelle rimaste di Groppofosco.

E che succede alle ragazze?

Succede che muoiono da un giorno all’altro e muoiono senza una ragione precisa.

Oibò. Cosa dice il medico?

Il medico è fuggito. Nessuno vuol più salire fin quassù. Voi siete il primo da due mesi.

Il medico vi ha abbandonato?

Anche il sindaco. E i due carabinieri.

Prima di fuggire il medico cosa ha detto? Una epidemia?

Macché epidemia. Le ho detto che le giovinette stavano benissimo, rosee come fiorellini appena sbocciati, poi di colpo agonizzavano.

Non capisco.

Nemmeno il medico.

Come si chiama buon uomo?

Iliano.

Io sono Lisauro. Di cosa vive Iliano?

Faccio il boscaiolo. Anzi, facevo. Andavo sui monti con l’asinello e ci restavo per accumulare la legna, farci le cataste e venderle giù nella piana. La locanda è di mia moglie, adesso ci sto io. Lei ha paura anche a respirare.

E adesso.

Niente. Tutto s’è fermato. La gente scappa oppure aspetta che tocchi a loro. La paura è ovunque. La paura ci mangia da dentro e non ci resta che bere, bere, bere.

Mi diceva delle giovinette.

Si, muoiono.

Lei che idea s’è fatto, allora?

Quella che si sono fatti tutti.

Me la esponga.

Lei mi dovrebbe capire. Come ha detto che si chiama?

Lisauro.

Il venditore di amuleti.

Eccomi.

E’ un maleficio. Un malanno, un languore, una agonia di poche ore.

Un maleficio, bene. E’ pane per i miei denti. E chi ha fatto questo maleficio?

Loro.

Bene, lo sapevo che c’era un “loro”. C’è sempre un “loro” quando c’è un maleficio o un paese abbandonato. Adesso resta solo da dare un nome a questi “loro”.

I frati.

Prego?

I frati.

I frati.

Ha visto la chiesa abbandonata?

Quella coi lucchetti. E coi chiodi.

Ecco. Loro vivevano lì.

Mmm.

Ci facevano delle orge, dei riti. Roba malefica. Allora il vescovo li ha scomunicati tutti, poi li ha accecati con delle torce e li ha buttati con una pietra al collo dentro il Lago Santo. Loro però sono tornati per maledirci. Ogni mese si prendono una delle nostre giovinette e la fanno morire. Noi allora mettiamo il corpo in una bara di pino e la portiamo sulle rive del lago. La mattina dopo non c’è più. L’hanno portata giù con loro. Nelle acque scure.

Portate una bara sulle rive del lago?

E’ quel che ho detto.

Non ne capisco la ragione.

E’ così che vogliono.

Allora perché non ve ne andate?

L’ho già detto prima: la povertà. Morire per morire, meglio farlo nella propria casa e poi tanto siamo maledetti. Ci seguirebbero ovunque.

Giusto.

Siete ironico?

Affatto.

Ah. In caso contrario vi avrei spaccato il grugno. Non sopporto l’ironia su certe questioni capitali.

Vi comprendo benissimo e vi prego di credere nella mia genuina curiosità su tal faccenda grama.

Dite bene.

Ascoltate: quando è morta l’ultima giovinetta?

Ieri.

Ieri?

Ieri.

Giusto a fagiolo.

Eh?

Niente.

E l’avete già scarrozzata sino al lago?

No. Lo faremo oggi. Loro escono solo di notte.

Certo, certo.

Potete aiutarci?

Certo!

Se lo farete vi daremo tutto quello che vorrete.

Mi bastano quelle casse di verdura, un sacco di pane e una damigiana di vino.

Vi daremo tutto. Vi daremo tutto.

Bene. Allora siamo d’accordo. Indicatemi il sentiero per il lago.

Farò di meglio, vi porterò io.

Iliano mi conduce in una camera illuminata da una candela di sego e popolata da vecchie dai visi rugosi come creta bruciata. Le megere fanno continuamente il segno della croce e fissano un catafalco con sopra la bara di pino. La ragazzina morta è pallida e giallina. Le hanno messo l’ovatta nelle narici e l’hanno conciata con un abito bianco di lino. Degli uomini essiccati dal tempo trasportano fuori la bara e la caricano su un calesse. Adesso c’è parecchia gente accalcata nelle viuzze o nascosta dietro le finestre appena socchiuse. Deve essersi sparsa in giro la voce. Mi osservano tutti. Hanno facce travagliate dalla paura, piene di ombre. Salgo sul carretto guidato da Iliano e passiamo tra la folla di contadini silenziosi. Ci lasciamo il paese alle spalle. Il sole è ancora alto e le nuvole sono soffiate dal vento e girano sopra le nostre teste come i cavallini di legno delle giostre. Superiamo il rossore del vigne, poi il verde cupo del bosco. Nel sottobosco l’ombra imbastisce un regno sterminato tra le felci. Sento il rumore vicino e scrosciante di un ruscello che diffonde un fresco odore di muschio. Il carretto sfiora rami di rovi curvati dal carico delle more selvatiche. Il bosco è immobile e fittissimo, incombe come un mare buio. Arriviamo in un pratello segnato da un abbeveratoio rabboccato dall’acqua che piove giù dal monte e tracima in fuori. Una Madonna col bimbo è scolpita sopra la fontana e tutto profuma di erba nuova. Davanti a noi si stende il Lago Santo, o meglio uno stagnetto dalle acque torbide e verdastre, sulla cui superficie galleggiano ninfee giallognole. Iliano, oste e tagliaboschi, smonta dal carretto e mi chiede una mano per trasportare la bara vicino alla riva.

Ecco fatto. Davvero volete restare?

Davvero.

Se non gli farete prendere la bara la maledizione finirà?

Sicuro come l’oro.

E come pensate di fare?

Ho i miei amuleti.

E loro hanno satanasso dalla loro.

Non basterà. Io ho S. Genesio, S. Pancrazio e S. Giuseppe e tutti i santi del Paradiso.

Tanto per noi non c’è speranza.

Suvvia, basta avvilirsi. Piuttosto torni in paese e prepari la roba. Dentro ai sacchi si ricordi di metterci anche delle patate. Ora vada e mi lasci giusto una bottiglia per proteggermi dalla guazza.

Ecco. Addio.

Addio.

Aspetto che Iliano si allontani col calesse e mi sincero di non sentire più il cigolio ovattato delle ruote nel sottobosco prima di scoppiare in una fragorosa risata. Ce n’è voluto per restare serio durante tutta quella commedia. Che fessi! Ho fatto bene a venire fino a Groppofosco. Ricordavo bene: è un posto di deficienti superstiziosi e guarda cosa si sono inventati per giustificare la morte inattesa di due ragazzine! Con un colpo simile mi sarei riempito di cibo per passarci tutto l’inverno come un pascià. Mi sfrego le mani divertito e scoppio in altre risate. Sono così allegro che ballerei con le mani. Bevo dei sorsi di acqua freschissima dalla sorgente, poi mi siedo accanto alla bara sigillata della giovinetta. Davanti ho il lago cheto e immobile. Laggiù, da qualche parte dovrebbero starci i frati scomunicati. Eretici accecati dal fuoco delle sante torce dell’Inquisizione e buttati nel lago in qualche medioevo fantastico immaginato dal cervello mollo di quei deficienti. Me la rido ancora, poi mi stendo nell’erba. La striscia di cielo rosseggiante va scolorendosi, oscurando la volta vastissima del cielo. Chiudo gli occhi e mi cullo nella dolce pienezza del sonno, sonno alimentato dalla stanchezza accumulata durante la lunga estate e rasserenato dalla lieta conclusione del mio peregrinare. Mi addormento pensando ai bauli pieni di cibo. Quando riapro gli occhi, la luna è un disco rossastro e sembra ruotare nell’aria lasciando una striscia di sangue. Dai monti ruzzola un vento che stempera il caldo asfissiante del giorno. Mi guardo attorno, giusto per controllare di essere ancora solo. La bara è sempre qui, posata sulla riva, appena lambita dalle onde. Per ora nessun monaco cieco è emerso per reclamarla. L’idea è così divertente che non riesco a reprimere un altro risolino. Prendo la bottiglia di vino e bevo alla salute dei monaci. Immagino il giorno appresso, quando Iliano mi vedrà vivo e vegeto accanto alla bara. Diventerò l’eroe di Gropofosco e quei buzzurri ignoranti spargeranno la voce per tutta la valle, facendo triplicare i miei affari. Sono davvero felice per l’inattesa piega degli eventi. Dopo un po’ comincio a pensare che sia tutto troppo semplice e mi chiedo se dietro la faccenda delle bare sparite non ci sia lo zampino di qualche buon tempone, magari qualcuno di un paese vicino che si diverte a pigliare per il naso i groppofoschesi. Decido che è meglio non esagerare col vino e restare con un occhio aperto, altrimenti qualcuno potrebbe darmi una bastonata sulla testa e addio bauli di fagioli, pane e altro. Il pensiero mi spinge ad essere più guardingo. La notte impasta gli orli del bosco in un’unica ombra. Sento solo il frusciare sommesso del vento e la nenia dei rospi. Il gorgogliare dell’acqua alla fonte. Stelle grosse come noci gettano manciate di luce sulla superficie del lago. Sento le gambe indolenzite e mi alzo. Cammino lungo i perimetri del campo, senza perdere troppo di vista la bara. Ora l’ironia del pomeriggio comincia a stemperarsi. Non credo alla fola dei monaci, ma, effettivamente, potrebbe esserci dietro qualche imbecille e la cosa mi costringe a essere vigile. Al paese tutti sanno che sono qui, e se fosse uno di Groppofosco? E se fosse l’intero paese? Se fossero loro a far sparire i corpi delle ragazze? E per quale motivo lo farebbero? Forse devono nascondere i corpi, non farli trovare. Qualcuno si accorgerebbe che non sono morte per cause naturali ma… Uccise? Groppofosco un feudo montano di tagliagole? Un bosco abitato da assassini delle proprie figlie? E se mi avessero attirato in una trappola? La notte è terreno di coltura per certe fesserie, e, lo confesso, certe suggestioni, incominciano a spingermi a guardare la bara con una maggiore apprensione. Mi riprendo presto: ho una certa età e la crisi lavorativa mi ha insegnato a essere pratico. Non credo ai fantasmi e nemmeno ai complotti. Certo la cattiveria umana esiste, ma un intero paese mi sembra troppo. E poi io qui ci sono già stato, o no? Forse mi confondo con un altro borgo simile. Non importa. Stasera non verrà nessuno. Sanno che c’è una sentinella. Una sentinella armata di amuleti. Per questi ignoranti è peggio che avere un fucile a pallettoni. I burloni delle bare questa notte rimarranno a bocca asciutta. Pazienza. Comincio ad avere freddo. Continuo a camminare in circolo nel prato. Fumo una sigaretta. Le ore passano. Deve essere l’una, forse le due. Il freddo si fa persistente. Prendo una coperta dalle mie borse da viaggio e mi ci avvolgo dentro, steso accanto al legno di pino della bara. Il vento ha smesso. Così i rospi. Tutto è silenzioso. Quasi in attesa di qualcosa. Scaccio subito certi pensieri e mi concentro sulla bottiglia di vino. Ne ho bisogno per scaldarmi. Forse dovrei cercare della legna e accendere un fuoco, ma dovevo pensarci prima, adesso non voglio certo allontanarmi nel sottobosco e lasciare incustodita la bara. Magari, proprio in questo istante qualcuno mi spia dietro il buio della foglie. Ancora un brutto pensiero. Ancora un brivido. Bevo dalla bottiglia. Uno, due, tre sorsi e ogni volta mi sento la testa più pesante. Le palpebre cominciano a cascare e un paio di volte mi sorprendo con il capo reclinato in avanti, pronto a precipitare nel pozzo del sonno. Vado avanti così una mezz’oretta, poi mi pare di essermi perso nel lento sciabordio luccicante della riva, forse ho provato a girarmi su un fianco e lì il sonno traditore mi ha abbracciato in un velo di marmo. Mi libera un canto. Un canto maschile. Liturgico. In latino. E mi pare che provenga dal lago, possibile? Sto sognando? Il pensiero che un imbecille stia allungando le manacce sulla bara mi aiuta a dipanare il filo velato della spossatezza. Maledetto vino! Sono stato un idiota. Quando apro gli occhi il cielo è sempre scuro e si vede poco. Poi impreco e bestemmio come non facevo dai tempi del licenziamento. Furioso prendo a cercare la bara, ormai sono sveglissimo. L’oscurità monta, cupida, come in agguato. La notte cupa e nera nella sua magnetica intensità. (Immagino?) Un vento che ulula su per le gole del massiccio montuoso. La luna sembra fatta di cera. Corro e bestemmio nel prato, infine volgo lo sguardo verso il lago, mi avvicino, mi immergo fino alle caviglie e scruto una forma, magari una imbarcazione piccolina che si allontana verso il centro del bacino: non è una barchetta, ma un oggetto nero che balla sulle acque appena increspate e si allontana svelto. Quell’oggetto lugubre ha le fattezze spigolose della bara di pino. La vedo inabissarsi lentamente nel lago e sparire. A quel punto sento la disperazione straripare dalla mia bocca e lacerare i lineamenti in grida impotenti. Ho l’impulso rabbioso di sbracciare fino al centro del lago e inabissarmi in cerca del sepolcro. Tiro pugni all’acque e mi muovo lungo la riva, quasi a setacciare un colpevole qualsiasi su cui sfogarmi. Ho le tempie farcite dai sordi colpi di tamburo dell’ira e impiego qualche secondo ad avvertire la frattura profonda tra il mondo nel quale ho abitato fino a quel momento e un altro mondo che si cela sotto al primo, un mondo di cui, durante l’esistenza, avvertiamo tutti brevemente l’esistenza, ma che in assenza di puntuali verifiche, ricacciamo indietro, e neghiamo con risate di scherno; ci sono forze che la nostra esperienza non verifica, un mondo o un baratro oscuro dalle cui profondità emana un fluido che non si lascia vedere o toccare o annusare, ma che arriva ugualmente al livello della mente. Ecco, le ombre emergono dal lago. Lentissime. Coi loro canti. Sembrano dei monaci, eppure sotto il cappuccio, c’è il teschio lucido, giallastro, dalle occhiaie svuotate, dalla mascella ghignante e le falangi di quelle che una volta erano state dita carnose. Barbe mummificate di cui percepisco il brulicare dei vermi che le carezzano. Dietro a un monaco ne appare un secondo e un terzo, e un quarto: una lunga fila di religiosi borbottanti canti liturgici; via via che si avvicinano, il canto si rafforza e il salmo parla dell’eterna maledizione che travolge colui che ha lasciato le vie del Signore. Le mie orecchie sono intronate dalle voci vibranti. Sono travolto dalla paura, consapevole di essere giunto alla fine del mio vagabondaggio terreno. Lancio un urlo, poi, nell’urtarli, percepisco la resistenza dei loro corpi, la sensazione di gelo che emanano.

Fu allora che il cervello del venditore di amuleti non resse più: sentiva che dentro la testa qualche cosa cominciava a bruciare e morire. Ma i monaci lo avevano afferrato per le caviglie e lo tiravano verso la riva. Verso il lago. Verso le acque scure…

Arpiola di Mulazzo, Estate 2012

Davide Rosso