RHOLANDO CAPOFRECCIA 03: I CONGIURATI

Il banchetto era finito ed io non avevo capito perché Shamandala mi avesse indicato uno dei migliori amici del mio avo. Certo, anche a me sembrava una persona strana, ma forse il mio giudizio era dovuto al fatto che era la prima volta in vita mia in cui vedevo veramente una persona con la gobba, uno che camminava tutto storto, mica come quel politico ultraottantenne che ogni tanto scongelano e invitano nei programmi tv. Lo osservai meglio, mentre parlava con Laura: eh bé, un po’ viscido lo sembrava per davvero. Dovevo sapere qualcosa di più su questo Eugenio Del Maino.

Mi bastò fare qualche domanda a Rholando, quando tutti gli invitati se ne andarono a casa loro. Inizialmente sembrava non capire il perché di quelle richieste ed io non me la sentii di parlargli male del suo amico. Pensavo che sì, Shamandala non sbagliava mai nelle sue indicazioni, ma non mi andava di caricare un altro fardello sulle spalle di quest’uomo, che non riusciva nemmeno a godersi la gioia di essere diventato di nuovo padre, tanto era spaventato di morire. Una cosa me la disse però, i fratelli Del Maino abitavano in un palazzo signorile a poca distanza dal duomo e così, il giorno dopo, mi alzai prima del solito per non essere vista e andai a svolgere le mie indagini.

Milano con i carri, senza tram e senza marciapiedi, con delle case piuttosto basse che mi permettevano di osservare il cielo poco prima dell’alba. Svoltato l’angolo, ecco la cattedrale, ancora in piena fase costruttiva, che si ergeva in mezzo ad una fitta serie di casupole di legno che la circondavano su tutti i lati. Quanto avrei voluto fare una fotografia per sigillare questo momento e questo spettacolo nella mia memoria, avrei voluto perdermi in quel dedalo di viuzze per capire se quel detto che dice che si stava meglio quando si stava peggio poteva essere vero ma no, non potevo proprio ed anzi, dovevo anche darmi una svegliata. Palazzo Del Maino non era niente di che: mattoni a vista, ogive che si aprivano sulla via con decorazioni marcapiano in cotto con putti, ghirlande e tralci di vite. Dovevo escogitare un modo per infilarmi là dentro. Potevo fingere di essere una mendicante e provare ad entrare per la cucina e poi svignarmela, oppure avrei potuto arrampicarmi fino alla finestra… i miei pensieri furono interrotti da uno scalpiccio di cavalli, un uomo usciva dal portone del caseggiato, posto in modo insolito sul destriero. Era il gobbo! Dove stava andando? Gli corsi dietro per un po’ e vidi che stava risalendo la Corsia dei Servi, inondata di casupole come il sagrato del duomo. L’avevo perso di vista e mi sarei mangiata le mani, non avevo pensato a procurarmi un mezzo di locomozione adatto alla situazione. Avevo comunque pensato di fare la strada che aveva fatto lui, magari con qualche colpo di fortuna…

Quando riaprii gli occhi, mi ci volle qualche istante per capire che quella situazione l’avevo già vissuta, in un certo senso. Shamandala mi stringeva la mano e mi imponeva di fare silenzio, perché in quest’occasione era molto difficile che i suoi fratelli venissero a salvarci. Non era per niente brillante essersi nascosti dietro una tenda, o meglio, un arazzo, un panno estremamente pesante e polveroso che mi impediva di vedere che ci fosse in quella sala. Lo sapevo che stavamo origliando una conversazione privata, ma di chi? Ad un tratto un colpetto di tosse e poi due parole dette con un tono inconfondibile: Madre Natura doveva essere stata implacabile con Eugenio, dotandolo non solo di una gobba enorme ma anche di una voce ridicola e stridula. Parlava solo lui, l’altra persona doveva annuire solamente e neanche prendere in considerazione di rispondere in modo educato; tuttavia quello che venne detto mi lasciò perplessa, più che altro perché venivano pronunciate parole a me incomprensibili. Quando rispose, mi risultò difficile capire chi fosse l’interlocutore di Eugenio Del Maino: la sua voce, così pacata e cupa, non mi permetteva di identificarlo. Smisero di parlare; il dialogo era finito e a noi non rimaneva altro che tornare nel palazzo di Rholando, senza aver cavato un ragno dal buco.

Mentre me ne stavo in camera, pensavo che forse avrei potuto parlare di tutta questa faccenda con Laura. Lei era intelligente, attenta, dotata del sangue freddo necessario per capire che quanto le dicevo se lo sarebbe dovuto tenere per sé e magari avrebbe potuto darmi qualche informazione su Del Maino. Mi sembrava un pensiero sensato, così uscii dalla mia stanza per andare in quella della padrona di casa, che se ne stava sdraiata sul letto. Sembrava piuttosto stanca e provata, mentre teneva la piccola Isa sul petto, addormentata. Gliela presi dalle braccia e la sistemai nel suo lettino, poi mi avvicinai a Laura e le chiesi cosa avesse.

« Non saprei, è dalla sera della cena che mi sento molto debole, come se avessi sempre la febbre. Deve essere la stanchezza per il parto, mi è successo anche quando ho avuto gli altri due bambini. Come diceva mia madre, il trucco è starsene a letto qualche giorno e riposare, farsi curare dalla levatrice e tutto andrà bene. Le altre volte ha funzionato. Avevi bisogno di qualcosa?»

« Non vorrei disturbarti, visto che non stai bene!»

« Non preoccuparti, sono a tua disposizione. Dimmi pure.».

Le raccontai quanto avevo sentito e Laura ascoltava, senza guardarmi in faccia. Quando terminai, si voltò verso di me con uno sguardo enigmatico, era evidente che anche lei, come me, non sapeva come leggere questo fatto.

« E’ sempre stato un amico fidato, altrimenti non l’avremmo scelto per diventare il padrino della piccola Isa. Non è mai stato invadente e ha sempre mantenuto sul suo passato una sorta di velo, così  come suo fratello. Sai, loro non sono di Milano, ci si sono trasferiti in passato, a causa del lavoro che svolgono, sono dei banchieri. Sappiamo solo che provengono da un piccolo paese vicino alle montagne, niente di più.». Lasciai Laura tranquilla a riposare, pregandola di chiamarmi se avesse avuto bisogno di qualcosa. Era già scesa la notte sulla città, che appariva silenziosa e scura, triste. Non avevo sonno: come facevo a combattere l’insonnia in una realtà in cui non era ancora stato inventato né il computer né il libro tascabile? Cavolo, mi dissi, sedendomi su una panca a guardare fuori dalla finestra. Ad un tratto non mi sentii sola. Mi voltai e accanto a me c’era Shamandala, che mi invitava a prenderle la mano. Ci ritrovammo in un batter d’occhio nella chiesa dove si era svolto il battesimo. Protette da un incantesimo, i partecipanti a quella che sembrava una riunione segreta non potevano né vederci né sentirci. Erano presenti alcune delle persone che avevo visto al banchetto, ovviamente c’erano anche i fratelli Del Maino, seduti nel primo banco. Nessuno diceva niente, sembrava che stessero aspettando l’arrivo di qualcuno. Il portone in fondo alla navata si aprì ed insieme ad una ventata di aria fresca entrò anche un uomo robusto, dalla lunga barba rossa e con occhi verdi fiammeggianti. Si mise davanti al suo pubblico ed iniziò a parlare. Mi ci volle un momento per capire che avevo davanti il tizio con cui aveva parlato il gobbo quella mattina, ma non riuscivo a capire chi fosse. Lui al banchetto non c’era e, osservandolo bene, non sembrava nemmeno un tipo molto raccomandabile. Cercai di farmi una nota delle persone presenti: tutte capivano quello strano dialetto, pertanto sembrava evidente che provenissero tutte dal medesimo luogo. In un momento mi fu tutto chiaro, potevano essere dei congiurati, forse volevano fare la festa al duca, no? Shamandala, sempre attenta ai miei pensieri, mi sorrise, ma la nostra attenzione venne attirata da un comportamento molto strano che tennero tutti i presenti. Si tolsero i guanti, si tagliarono i polsi e versarono il loro sangue in un unico calice, da cui bevvero tutti. Questo non sembrava solo un patto di sangue, no. Anzi. Sembrava che ci fosse qualcosa di più, quel qualcosa di cui aveva parlato Rholando al momento del nostro primo incontro. Ero spaventata e con uno strattone pregai Shamandala di riportarmi nella stanza del palazzo del mio avo.

Una volta al sicuro, spiegai a Shamandala quanto avevo dedotto. Se questi congiurati volevano sbarazzarsi del duca, era necessario per loro eliminare anche degli uomini a lui più fedeli e tra questi c’era Rholando, che infatti è morto a Soncino durante un assedio, senza il suo talismano. Ma perché prendersi un talismano che non ha più nessun valore, se la persona che lo porta è morta? Avevo tanta confusione in testa, l’unica cosa che mi sembrava chiara era che dovevo scoprire qualcosa di più su queste persone, partendo dal loro paese d’origine. Forse dovevano vendicare un torto subito. Shamandala mi prese per mano e, quando riaprii gli occhi, non mi trovavo più nella camera da letto, ma in una piazza di un piccolo paese circondato da montagne bianchissime e bellissime.

Roberta Lilliu