LA BESTIA IN CANTINA

La telefonata giunse in piena notte. Lo squillo del telefono proruppe come una frana. Riccardo si alzò di scatto sul letto. Sua moglie si lamentò e si girò dall’altra parte.
Cos’era? La terza, o la quarta volta che squillava? Prima che il suono giungesse ancora come da un altro mondo, alzò la cornetta. Lasciò la luce spenta nella speranza che Lidia non si svegliasse del tutto.
«Pronto?»
«Riccardo, sono io. Franco».
«Franco?» Riccardo guardò la sveglia. Segnava le 3 e 12 minuti. «Sai che ore sono?»
«Scusami Riccardo. Non potevo aspettare».
Franco notò la voce tesa dell’amico. Non era agitata; piuttosto pregna di un’aspettativa…
«Aspetta che cambio telefono».
Riccardo mise in attesa e andò in salotto. Lì riprese la telefonata.
«Allora, cosa c’è di tanto urgente? È notte!»
«Riccardo, devo venire a prenderti».
Riccardo sbadigliò e si grattò.
«Cosa vuol dire, Franco? Non capisco».
Si trascinò in cucina, dove aprì il frigorifero. Un ronzio elettrico si diffuse nel silenzio. Prese il succo d’arancia. Chiuse il frigorifero e afferrò un bicchiere, tutto con movimenti duri come colpi di scalpello.
«Devi venire con me».
Riccardo si versò da bere.
«E’ notte, Franco. Non possiamo fare domani?»
«No, scusami ma non è proprio possibile. Devi assolutamente venire… ho fatto una scoperta…»
«Che scoperta? Mi vuoi spiegare? Ti metti a fare scoperte di notte, adesso?»
«Come faccio a spiegarti? E’ una cosa che ho trovato in cantina, qui da me. Devo capire se puoi essermi d’aiuto. La devi vedere tu di persona. Ti prego, non dovrai far altro che infilarti una vestaglia. Non c’è bisogno nemmeno che ti vesti.»
«Ma cosa dici, amico?»
«Ti passo a prendere… tra un quarto d’ora sono da te».
«Ma non se ne parla proprio, Franco. E’ notte».
Riccardo si accorse di aver alzato la voce. Dall’altra stanza Lidia chiese: «Chi è, Riccardo?»
«Niente. Dormi amore. E’ un amico».
«Riccardo, ti supplico, non lasciarmi da solo… in questa cosa… te lo chiedo per la nostra amicizia».
«Ma che vuol dire? Siamo amici, no? E allora cos’è ‘sta storia?»
«Riccardo, sei davvero mio amico?» domandò Franco. La domanda risuonò secca. Possibile che Franco si stesse interrogando seriamente sulla loro amicizia, a quell’ora? Riccardo aveva tanto l’idea di stare sognando.
E forse non è nemmeno un’idea… ma è proprio così!
Si diede un pizzicotto al fianco e per poco non urlò.
Cazzo!
«Franco, c’è qualcuno che ti minaccia? Se non puoi parlare apertamente dimmi solo sì o no».
«No, nessuna minaccia, Riccardo, né a me né a te. Perché mi fai questa domanda?»
«Perché tutto questo è strano! Ecco perché.»
«Insomma, Riccardo. Quante storie! Pensavo che convincere un amico ad aiutarmi sarebbe stato più semplice.»
«E allora…» stava cominciando Riccardo. Anche le amicizie conoscevano il rispetto, no? Ma Franco non lo lasciò parlare.
«Riccardo, tra dieci minuti sarò da te. Non suonerò per non disturbare Lidia, ma se tu sei un amico, sarai già giù ad aspettarmi».
Riagganciò.
Ma che diavolo voleva dire? Si era inebetito in un sol colpo? Perché aveva bisogno di questa improvvisa dimostrazione di amicizia?
Sospirò e andò in camera da letto. Lidia aveva ripreso a dormire. Tolse i vestiti dall’appendiabiti e si cambiò in salotto. Se avessero fatto in fretta, magari sarebbe riuscito a non farle nemmeno capire che era uscito nel cuore della notte.
Poi, mentre scendeva le scale per uscire dal palazzo e mettersi ad aspettare Franco al lampione davanti a casa sua, si chiese perché il suo amico avesse precisato che non c’era nessuna minaccia, e nemmeno contro di lui. Riccardo gli aveva chiesto se c’era qualcuno che minacciava lui, Franco, ma Franco aveva sentito il bisogno di precisare che nemmeno contro Riccardo c’era una qualunque minaccia. Che si fosse trattato di un lapsus o qualcosa del genere?
Cazzo, c’è qualcuno che lo minaccia sul serio!
Subito dopo fu lui stesso a scrollare il capo.
Ma no, figurati! In ogni caso, questa telefonata non avrebbe alcun senso. Se ci fosse qualcuno col coltello puntato alle sue costole, si metterebbe a chiamare il suo miglior amico per andare a prenderlo? Bel ragionamento, Riccardo.
Diavolo, sono le tre di notte! Cosa vuoi ragionare, a quest’ora?
Nel giro di cinque minuti Franco arrivò da lui. E già attraverso il finestrino riconobbe un’espressione che ben si attagliava alla tensione che aveva percepito nella sua voce. Era come se fosse sul baratro di un conato. Uno di quei conati di vomito in grado di restituire l’intero menù della settimana.
«Sali», gli disse.
Riccardo si affrettò, e da quando si sedette non smise di osservare l’amico. Non lo riconosceva. Non l’aveva mai visto così… esaltato. Gli occhi luminosi, la bocca tesa in uno spasmo, piccole perle di sudore sulla fronte. Quello che gli era sembrato un attacco di vomito era invece un attacco di esaltazione!
Ha visto un fantasma!
«Qualunque cosa tu mi debba far vedere, facciamo in modo di fare tutto in fretta, Franco. Non voglio che Lidia si spaventi per la mia assenza… L’ho lasciata che dormiva. »
«Sì. Faremo subito.» Poi non aggiunse nient’altro e si avviò. I suoi occhi stralunati tentarono di riconoscere la strada, come se la vedesse per la prima volta.
Si diresse verso Montorio. Percorse l’ultimo tratto di via Scuderlando per prendere la strada che, attraverso gli ultimi caseggiati, usciva dalla città. Dopo un buon minuto di silenzio, Riccardo domandò: «Allora, si può sapere di cosa si tratta?»
«Devi solo portare un po’ di pazienza, Riccardo…»
«No, Cristo! Io voglio che tu me lo dica ora! Altrimenti puoi anche fermarti e lasciarmi a piedi.»
Franco lo osservò come se non avesse previsto questa sua uscita. Le sue guance già ben in carne, risaltarono ancora di più in una specie di sorriso forzato. A Riccardo venne in mente un’immagine strana, come se l’amico avesse dentro la bocca due cheliceri, come quelli di un ragno, che si stavano preparando a uscire, tirandogli le labbra in maniera oscena.
«Dico sul serio, amico. Me ne ritorno da solo!»
«E va bene. Ma devi fidarti di quello che ti dico…»
«Credimi, non metterò in dubbio una sola parola di quanto mi dirai, se solo me lo vorrai dire!»
Franco non si fermò, non parcheggiò sulla destra della strada di campagna. Semplicemente rallentò.
«Stanotte, quando mi sono coricato, ho cominciato a sentire dei rumori. Mi ero appena addormentato ma erano… decisi. Continui. All’inizio, quando ho capito che provenivano da giù, mi sono allarmato. Poi cercai di convincermi che fossero al di fuori della casa. Nell’arco di pochi secondi mi sono reso conto che giungevano proprio dalla cantina.»
Oltrepassarono il cartello con Verona sbarrato. Si diressero verso le colline dalle quali incombeva, illuminato dal lucore della Luna piena, il castello di Montorio.
«Mi ha preso il terrore. Credevo che fosse entrato qualche ladro…» continuò l’amico. «Poi mi sono chiesto perché non fosse entrato direttamente in casa, visto che abito da solo e la villa è un po’ isolata rispetto al resto».
«Era un animale?»
No, perchè forse avresti fatto meglio a chiamare il servizio di derattizzazione, pensò con una punta di isteria.
«Ho cercato di convincermene anche io, e per un po’ mi sono tranquillizzato. Ho preso coraggio e con la torcia elettrica sono sceso in cantina. Mi aspettavo di trovare qualche cassa spostata, o qualcosa fuori posto… insomma un segno che ci fosse qualche grosso animale che era entrato lì. Che ne so, un cane, un lupo, il mitico orso della Lessinia che magari era arrivato dalle favole dei bambini e si era nascosto da qualche parte.»
«Più che un orso, nelle favole di questi posti ci sono gli orchi, Franco.»
«Come?»
Franco lo fissò con gli occhi sbarrati.
«Niente, niente. Stavo scherzando, amico. Tranquillo!»
«Come ti vengono in mente queste cose, Riccardo? Sono spaventato a morte, chiedo il tuo aiuto e tu mi vieni a dire certe cose!»
«Dai, stai calmo. Stavo solo scherzando.»
«Beh, il rumore che avevo sentito era inquietante… sembrava che qualcuno si fosse divertito a spostare le casse che tengo in cantina… Tu stesso ti saresti spaventato a morte!»
«Insomma, che cos’era?»
«Aspetta, dammi il tempo.»
Franco fece un sospiro e Riccardo lo vide concentrarsi mentre guidava. Sembrava qualcosa di molto duro da dire.
«Ho… ho sentito ru-rumore di ali,» tartagliò l’amico, «tipo una specie di grande cavalletta, o una grande libellula…» Poi guardò Riccardo. Gli fece un sorriso e, con l’evidente sforzo di sembrare il più normale possibile, disse: «E’ una fata, Riccardo.»
Ci fu forse un minuto di silenzio, in cui la macchina prese la strada che serpeggiava fuori da Montorio per dirigersi verso la frazione di Mizzole. Franco abitava lì, subito prima di entrare in paese.
Riccardo non sapeva se ridere o se incazzarsi sonoramente.
Franco lanciò un’occhiata per capire la sua reazione.
Poi Riccardo disse: «Vuoi dirmi che una prostituta è entrata nella tua cantina?»
«Riccardo, ma come ti salta in mente… una prostituta?»
Pensa che strano, ragionò Riccardo, immaginare che per fata tu intenda una prostituta!
«No, è proprio come ho detto. Ho trovato una fata. È alta sì e no quindici centimetri, ha l’aspetto di una bellissima fanciulla. Ha due orecchie a punta e le ali blu e verdi. Ma le vedi solo quando si posa da qualche parte e si ferma perché altrimenti le sbatte così veloci! Nemmeno un colibrì… C’è un odore di zucchero filato. E’ come mi raccontava mia madre. L’odore di quando si entra nel regno delle fate. Ed è lì, in cantina!»
Riccardo lo osservò con sgomento. Lo sguardo dell’amico era ancora più trasfigurato in un’estasi. Stava guardando già un altro mondo, mentre gli diceva quelle parole!
«Perdio Franco ma come ti salta in mente! Che cazzo mi vai raccontando?»
«Riccardo, te lo giuro. È proprio una fata! Sai, il piccolo popolo, un essere fatato. Lascia puntini luminosi quando si muove… Campanellino, Trilly, chiamala come vuoi, ma è una cosa del genere. »
«Guarda, Franco, riportami subito indietro.»
Gli stava andando il sangue alla testa. L’imbarazzo per la cretinata d’essere uscito in piena notte, avendo lasciato la moglie da sola, a letto. La pena per l’amico che era uscito di testa, così sul più bello, nel corso di una notte estiva.
«Che cosa ti succede? Hai bevuto? Fammi sentire l’alito, non dovresti nemmeno guidare…»
«No, Riccardo. Ti prego, seguimi. E vedrai con i tuoi occhi».
Sì, vabbé! Chi litiga con un ubriaco, offende un assente! E’ proprio vero.
Sapeva che per lui era un periodo difficile, che rischiava di perdere il lavoro e che la ricerca dell’amore-della-sua-vita, come lo chiamava sette volte a settimana, veniva puntualmente frustrato; ma quello era troppo.
«Arriverò lì dentro, Franco. Lo faccio solo per te. Perché una volta mi sembrava di conoscerti. Poi, quando sarò arrivato a casa tua e ti mostrerò che cosa c’è realmente in cantina, tu ti farai visitare e io me ne tornerò a casa, prima che Lidia scopra che sono sgattaiolato via…»
«Certo, certo. Grazie Riccardo. Ma vedrai che è proprio come dico».
La macchina giunse davanti al cortile della villa. Franco parcheggiò accanto al cancello e si affrettò a uscire, gettandosi verso casa come un bambino che corre ad afferrare una caramella gommosa. La luce dell’appartamento era ancora accesa. E l’uscio della casa… addirittura aperto!
«Si può sapere che ti salta in testa, Franco? Hai lasciato la porta aperta! Non ti puoi fidare così.»
«Vieni, seguimi», gli fece l’altro.
L’espressione di quand’era in preda a un conato era scomparsa, e i suoi occhi rimanevano sbarrati, quasi che dovesse far cadere giù dalle orbite due ingombranti bulbi oculari. Non era esattamente uno sguardo spaventato, il suo.
Riccardo prese la torcia che aveva portato con sé. Perché Riccardo? Temi qualcosa? Pensavi che non ci fosse la luce? si domandò ancor più istericamente.
Giunsero davanti alla porta di metallo. Franco si affrettò a prendere la chiave da un mazzo e a inserirla nella toppa.
Riccardo sentì un odore… era un odore dolciastro… come di zucchero filato appena appena scaldato nella vasca che ruota. Era proprio così che aveva detto Franco: zucchero filato, come se si entrasse nel regno delle fate.
«Sai», gli disse Franco, «il mondo dei sogni ti si apre solo quando ti addormenti…»
Riccardo lo guardò e fu tentato di aprire una sequenza di insulti, ma scrollò le spalle. A quel punto era curioso di vedere. Soprattutto a cosa fosse dovuto quell’odore. Poteva anche essere un cadavere in decomposizione, per quello che ne sapeva lui. Aveva letto sui libri di Stephen King che un cadavere in decomposizione emana un tanfo che dapprima ha la consistenza tenue di un dolce, di una torta che cuoce. La cosa lo fece rabbrividire.
La porta della cantina si aprì, con l’immancabile cigolio. Franco si addentrò nel buio.
Riccardo titubò.
«Avanti», gli fece segno Franco. «Lascia la torcia spenta» gli sussurrò poi.
Finalmente anche lui entrò nel corridoio che portava in cantina.
L’odore dolciastro aumentava a ogni passo. Si ricordò dell’odore che faceva lo stabilimento della Paluani andando in autostrada. Un pandorino dorato, che si sta scaldando e rilascia la sua fragranza, il corpo di un uomo in decomposizione: lo stesso odore. Riccardo ebbe un improvviso senso di nausea. Quando oltrepassò la soglia, l’odore raggiunse un livello difficilmente sopportabile.
Dio, non può essere un cadavere! Franco non c’entrerebbe nulla con un cadavere. E poi… l’odore è troppo dolce. E’ come il caffè freddo pieno di zucchero.
Infine si avvide anche di quel che c’era al di là di casse di legno stipate agli angoli e libri vecchi su scaffali curvati. Mezza nascosta da un cumulo di oggetti, una luce danzava nell’aria, un rumore di ali di cavalletta, un frullo velocissimo e un odore che da nauseabondo si trasformò di colpo in invitante, come se fosse entrato nella casa dei mandorlati o nel paradiso dei croccantini.
E ovviamente Riccardo fu senza parole. Tentò di opporre per lo meno un “ma…”. Ma non ci riuscì.
Aveva davanti agli occhi la prova che il mondo dei sogni esiste sul serio. Quello era un essere piccolo, minuto in tutte le sue membra, perfetto. Si avvicinò a lui e lo vide… anzi, forse, sarebbe stato più corretto dire che la vide. Una fata, una vera e propria fata, come quelle che aveva visto in certe illustrazioni.
«Non è meravigliosa?» domandò Franco.
La sua voce risuonava ancora stupita. Ancora una volta Riccardo sentì spezzarsi le parole in gola. La meraviglia era cresciuta così tanto che gli aveva riempito la bocca e perfino l’esofago!
«Tendi la mano», disse Franco.
Riccardo, con gli occhi fissi a quel mondo nuovo che si apriva davanti a lui, non poté opporsi all’invito e alzò il braccio. La fata andò a sedersi sul suo pugno chiuso. Ora vide tutti i colori sfumati delle ali.
E’ Trilly! E’ Campanellino!
Girò la testa, forse c’erano Peter Pan e la giovane Wendy, da qualche parte.
Quando si muoveva c’era una impalpabile polvere brillante che cadeva dal corpicino. I suoi occhi, pur essendo piccoli, brillavano viola, belli, dolci come quelli di una fanciulla senza paura… addirittura con un che di spavaldo. Li guardò bene, quegli occhi lo ammaliavano, tanto da non potersene più distaccare.
Lei gli sorrise.
Era davvero giunto nel regno delle fate, come aveva detto Franco? Lei si voltò verso il suo amico e poi tornò a fissarlo. Il suo sorriso si aprì, divenne quasi ammiccante. Forse fu solo un’impressione, ma gli occhietti sinceri e dolci assunsero un che di sensuale. Tanto che Riccardo si mise a ridere quando iniziò a vedere la piccola fatina come una pin-up degli anni ‘50.
Mandò un’occhiata a Franco.
Franco gli rispose con un sorriso di conferma, un sorriso un po’ teso, a dire il vero.
Riccardo tornò a fissare la fatina.
Che dico, fatina? Come ho potuto pensare che fosse una fatina, di quelle delle favole. Sembra una piccola… prostituta? Ma sì, guarda qua. E’ una donna perfettamente formata, tanto formata che già da tempo sembra aver perso ogni traccia di innocenza.
Con una trasformazione precisa e rapida, il suo dolce volto di donna esperta si trasformò in quello di una donnaccia da strada, che strizza l’occhio come per accalappiare qualche cliente.
A Riccardo venne istintivo voltarsi per verificare se Franco avesse colto quell’invito sfrontato. Fu quella l’unica cosa che andò storta, perché gli diede il tempo di rendersi conto che l’amico stava calando un’ascia, stretta tra mani sicure, nel dritto mezzo della sua testa.
 
«Ora che hai avuto quel che mi hai chiesto, rendimi quanto hai promesso», disse Franco rivolto alla fata, o a ciò che ne aveva assunte le sembianze. Quell’esserino si era trasformato in ciò che era realmente. Le sue dimensioni si erano normalizzate, divenendo una creatura di due metri munita di ali di pipistrello, corna in testa e grugno di cinghiale.
«Tagliamelo a pezzi!» gli ordinò con una voce che sembrava un soffio rauco dentro un trombone.
Franco lo guardò con occhio furente e ambizioso. Alzò l’ascia e troncò mani e piedi non senza fatica, a causa delle caviglie particolarmente nodose. Il mostro cominciò a divorare il pasto.
«Ora schiudimi le porte del Mondo dei Sogni», disse Franco.
L’essere abominevole lo guardò e rise. Poi si inchinò davanti a lui come un giostraio diabolico che ha da poco firmato un patto con un’anima, e gli fece cenno di passare con la mano sinistra.
Una luce cominciò a brillare sul muro della cantina e al di là di essa Franco vide stagliarsi le sagome di monti e valli incantate.
Eccola, eccola la mia riscossa, si diceva. Questo è il premio per una vita colma di sofferenze. Un premio tutto mio, che mi sono procurato con le mie mani e la mia testa.
Si portò un dito alla tempia.
Sì, è qui dentro la mia riscossa.
Si lasciò alle spalle fallimenti e morte, ed entrò nel Mondo dei Sogni.
19/08/2009, Fabrizio Valenza