RHOLANDO CAPOFRECCIA 01: IL VIAGGIO NEL TEMPO

Ero accovacciato nei pressi dell’unica feritoia che dava sul rivellino, assistevo alla disfatta dei miei soldati e all’inevitabile presa della rocca da parte dei Veneziani. Erano strani, questi qui. Fauci aguzze che sbucavano da labbra violacee, dimensioni enormi che facevano pensare che fossero esseri di un’altra natura, occhi luminosissimi e veloci nel vedere il nemico. Avevo paura di loro. Era la prima volta, da quando ero stato mandato in questo luogo ameno dal mio duca, che avevo il terrore di andare a combattere accanto ai miei uomini. Mi sentivo un vigliacco e agli occhi del mio servo, che se ne stava in un angolo della stanza pronto ad obbedire ad uno qualsiasi dei miei ordini,   lo ero di sicuro.

«Ci uccideranno tutti, signore. Forse è veramente il caso di abbandonare la rocca. Dovreste, a mio avviso, cercare di riparare dal castellano più vicino, in modo da contattare al più presto il duca. E’ possibile che il messaggio che gli avete mandato nel pomeriggio sia stato intercettato, altrimenti non si spiegherebbe il motivo per cui siete stato lasciato da solo a combattere queste bestie». Continuavo ad osservare quanto stava per accadere nel rivellino, ormai i nemici si erano impossessati degli spalti e stavano per penetrare nel cortile principale. Anche isolare la torre del mastio sarebbe stato inutile, era solo questione di tempo e ci avrebbero presi. Scrissi rapidamente due righe per il duca e consegnai la pergamena al mio servo, facendogli giurare che se non avesse più sentito mie notizie l’avrebbe recapitato a destinazione e poi, dopo aver raccattato quattro stracci e la scatola di madreperla, corsi verso il piccolo passaggio che metteva in comunicazione la torre del mastio e il ponte di fuga. Appena fummo sul ponte, il mio servo ed io ci salutammo, consapevoli che avremmo preso strade diverse. La rocca alle nostre spalle era ormai messa a ferro e fuoco. Avevo poco tempo per arrivare al convento dei Carmelitani, che si trovava a qualche miglio di distanza. Era l’unico luogo in cui potevo nascondermi e aspettare che le acque si calmassero, per poi partire alla volta di Milano. Dovevo fare in fretta e correre per la boscaglia, nella speranza di non essere visto dai Veneziani, che sicuramente se ne stavano a bivaccare nei boschi e nei dintorni delle cascine del paese. La serata sembrava aiutarmi: come sempre nella stagione fredda, la campagna era avvolta in una nebbia fittissima, che permetteva solo di intravedere i profili degli edifici. Tutto intorno a me era spettrale: i rami neri degli alberi spogli, i canali d’irrigazione asciutti, i bastoni umidi per terra seminascosti dalle foglie ingiallite. Cercavo di fare più in fretta possibile e di non  fare rumore, pensavo che se mi fossi attardato per un motivo banale la mia esperienza terrena si sarebbe conclusa in quattro e quattr’otto. Ad un tratto ecco davanti a me la scalinata che permetteva l’accesso alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, era quello il mio nascondiglio. Sapevo che dietro l’altare maggiore vi era una piccola apertura piantonato da un frate e quest’ultimo mi avrebbe permesso di nascondermi nel convento. Dovevo muovermi. Mi guardai intorno e non vidi nient’altro se non la nebbia fittissima della Bassa padana, allora mi misi a correre verso la gradinata., ma la mia attenzione venne attirata da un dardo fiammeggiante che passò appena sopra la mia testa, andando a conficcarsi nel portone della chiesa. Chi lo tirò non lo seppi mai, forse era la stessa persona che mi conficcò un coltellaccio nelle spalle, lasciandomi agonizzare sui gradini di Santa Maria delle Grazie.

Si provava a tornare alla normalità in casa mia. Eravamo stati per un po’ di tempo ospiti dei miei nonni, perché ci riusciva difficile mettere il naso in quella casa dove avevamo vissuto momenti felici con quella che era stata per noi madre e moglie. Ci sentivamo in lutto e almeno all’inizio pensavamo che fosse improbabile riprendere con la vita di ogni giorno. Come si faceva a riprendere qualcosa che si era interrotto così bruscamente? La nonna, quando mi vedeva particolarmente abbattuta, mi sussurrava che prima o poi sarebbe passato, perché anche un dolore così grande piano piano svanisce, come un grande temporale che quando sta per terminare diventa una pioggerella sottile. Io le sorridevo ed inizialmente facevo una grande fatica a crederle. Poi un giorno papà ed io decidemmo che avevamo passato fin troppo tempo a crogiolarci nella sofferenza: era ora di rientrare in possesso delle nostre vite e, in primo luogo, della nostra casa. L’avremmo trasformata, avremmo cancellato ogni traccia della sua presenza, perché lei ci aveva lasciati e traditi e noi dovevamo dimenticarla. Ci vollero ancora una quindicina di giorni per ridipingere i locali e arredarli nuovamente, ma una volta terminato tutto, eravamo davvero soddisfatti di come la nostra nuova casa era venuta. La prima sera che ci dormimmo, festeggiamo quell’avvenimento che consideravamo storico con una bella cena, un bel film alla televisione e una dormita soda nei nostri letti. Parlavamo del futuro, finalmente felici, e quasi non potevamo crederci.

«Vado a letto, pa’. Buonanotte… possiamo farcela» gli dissi, alzandomi dal divano. Rispose a mezza voce, aveva le lacrime agli occhi. Salii in camera, accesi la luce e andai nel mio piccolo bagno per lavarmi i denti. Ci rimasi dentro per una buona mezz’ora e, quando tornai in camera, andai dritta verso il mio cassettone per prendere il pigiama. Da quando era successo tutto quel macello con la Stregona del Fuoco, Shamandala non era più venuta a farmi visita: questo per me aveva voluto dire che erano finiti gli spaventi, il trovarmela davanti senza che facesse il benché minimo rumore mi metteva sempre parecchio in agitazione e non mi abituavo mai. Fu per questo che quando mi beccai un tizio con un coltellaccio conficcato fra le scapole che sanguinava sul mio letto nuovo un po’ mi spaventai. Non gridai ma mi cadde il bicchiere d’acqua che volevo lasciare sul comodino accanto al letto, rompendosi in mille pezzi. Tornai in bagno a prendere uno straccetto per raccogliere i pezzi di vetro e asciugare l’acqua, sperando di non ritrovarmi più quell’essere sul letto e invece no, era ancora lì che mi aspettava, evidentemente voleva parlarmi. Mi fece sistemare i vetri rotti, mi indicò dov’erano finite le schegge più piccole e poi, una volta che ebbi terminato, mi suggerì di sedermi con un cenno della mano e mi invitò ad ascoltarlo attentamente.

«Cacciatrice, ho bisogno del tuo aiuto. Sono Rholando Capofreccia, tuo avo, capitano nella rocca di Soncino ai tempi di Francesco II Sforza, duca di Milano. Sono stato ucciso in una notte di novembre, mentre cercavo di scappare, durante la presa della fortezza che comandavo, da esseri che credevo umani ma che non lo erano. Se io sono stato un codardo a fuggire, loro lo sono stati più di me, perché mi hanno assassinato mentre non potevo vedere i loro volti e non potevo difendermi. Il problema non è questo però, poiché quella notte stavo scappando con due oggetti molto importanti per la nostra famiglia. Uno di questi è la scatola di madreperla, che Shamandala ha recuperato subito dopo la mia morte, e che è arrivata fino a te. Il secondo oggetto è allo stesso modo molto importante, poiché si tratta di un talismano che ho realizzato io stesso per proteggere prima me e poi la nostra stirpe dagli esseri demoniaci. Una notte, quando ero ancora un paggio presso la corte del castellano di Angera, sono stato svegliato da dei rumori furtivi nella mia camera. Non ricordavo di aver mai visto prima d’allora un essere enorme dalle fauci risplendenti, gli occhi brillanti come rubini e dalle unghie ritorte e affilate che provava a mordermi. Mi spaventai moltissimo ed iniziai ad urlare come un ossesso, scalciando e pregando Dio di risparmiarmi la vita. Feci talmente tanta confusione che il soldato di ronda nel corridoio entrò nella mia camera per vedere cosa stava succedendo e quando quest’ultimo entrò, nella stanza c’ero solo io che piangevo come il bambino che ero. Il giorno dopo ne parlai con il mio confessore, un monaco che viveva da eremita in una cella nei pressi del castello, e lui, dopo avermi ascoltato, mi suggerì di realizzare una croce d’argento che avrei dovuto tenere sempre al collo, una volta che fosse stata benedetta, affinché proteggesse me e la mia famiglia dagli spiriti demoniaci. Feci come mi aveva detto e avevo giurato che l’ultimo giorno della mia vita terrena avrei consegnato quel talismano al cacciatore predestinato, insieme alla scatola di madreperla. Quando, dopo la mia morte, tornai al mio cadavere, vidi Shamandala che mi diceva che del mio talismano non vi era più traccia. L’ho cercato per tutto questo tempo senza mai trovarlo ed è per questo che sono qui, devi aiutarmi a trovarlo, perché si avvicinano tempi bui per tutti noi». Speravo di non sentire più una frase del genere, avevo già i brividi. Domandai se sapeva chi fossero i suoi assassini, dopo quasi cinquecento anni forse poteva averlo capito.

«Sono stati dei vampiri. Io pensavo che fossero i nostri nemici di sempre, i Veneziani, che molto spesso attaccavano i confini del Ducato per appropriarsene ed ampliare il loro stato, ma ho avuto conferma da Shamandala che non si trattava di loro. Queste creature demoniache erano state mandate esplicitamente per uccidermi, poiché sapevano del mio potere, erano stati avvertiti da coloro che volevano sbarazzarsi di me, i cortigiani Stampa, che sarebbero poi diventati marchesi di Soncino. Anche questi erano vampiri e lo sono ancora, mascherati da persone normali che vivono in mezzo alla tua gente».

«Tu non sai che facce hanno? Insomma, potresti seguirmi in questa ricerca ed indicarmeli, magari con un po’ di fortuna…».

«No, non c’è tempo da perdere. Devi tornare indietro con me, devi stare al mio fianco per evitare il mio assassinio e devi aiutarmi a non farmi rubare il talismano. Con il buon Dio dalla nostra potremmo pensare di ammazzare i marchesi».

Questo era il momento in cui mi domandavo perché non potevo essere una ragazza qualsiasi. Non mi ci vedevo proprio acquattata in un bosco pronta ad intervenire mentre un mio antenato veniva massacrato. E poi come potevo fare a tornare indietro nel tempo? Dovevo forse buttarmi dentro nello specchio, come quella volta che si era rivelato l’apertura verso un altro mondo? Stavo per chiedere a Rholando tutto questo quando lui mi invitò a mettermi a letto e ad addormentarmi. Feci come mi diceva, sembrava piuttosto sicuro di sé e io non provai a contraddirlo. Mi sdraiai, tirai le coperte sul naso e ricordo che mi addormentai subito, sognandomi Shamandala che mi aspettava in un androne buio. Stava aprendo una tenda rossa e mi invitava a passarvi sotto. Quando lo feci, mi trovai nella rocca di Soncino, più precisamente nella corte principale, attorniata da soldati pronti ad uccidermi con le loro spade se solo avessi fatto un passo falso.

Roberta Lilliu