ITALIA MAGICA & NECROFILA – BILANCIO CRITICO SUI “CAPOLAVORI” DEI “RACCONTI DI DRACULA” (E IL GOTICO ITALIANO) – PARTE 05

Nell’aprile del 1963 esce il n. 42 della collana. Lo scrive Frank Graegorius, alias lo psichiatra Libero Samale. Il titolo: Il Golem. In copertina una sorta di mummia sfasciata, rischiarata dai bagliori morenti di una candela. Molto interessante.

Il titolo rimanda a una pluralità di cose. Prendiamo in mano Praga magica di Ripellino e andiamo alle pagine dedicate all’uomo d’argilla. Che cos’è un golem? Un uomo artificiale, un servo ruvido ed embrionale, reazione rabbinica impastata con terra vergine e permutazioni alfabetiche. Nella tradizione praghese ne rintracciamo molteplici fonti. Meyrink anzitutto e il suo romanzo del 1915. Poi Der Golem film muto di Wegener, girato due volte. Anna Baiocco, nell’introduzione dotta al libro di Meyrink licenziata da Tre Editori è ancora più specifica e rintraccia fonti antichissime. La parola Golem appare in un salmo della Bibbia, ripresa nell’uso talmudico. Fin dal 1847 si stampano a Praga miscellanee e leggende sulla figura dell’uomo d’argilla. Uno degli studiosi è il rabbino J. L. ben Bezalel (a cui si riferisce anche Graegorius…). Paracelso si occupa di homunculus nel suo De generatione rerum naturalium (1616). Anche Kafka fu affascinato dalla figura del Golem praghese. Mary Shelley ne scrive, nel 1818, una sua versione col Frankenstein. Riflessi anche in Hoffmann, Collodi, Goethe e nel cinema espressionista tedesco, coi suoi vampiri barcollanti, i baracconi con le figure di cera e i robot di Metropolis (1926).

Torniamo a Graegorius. Il suo Golem non è ambientato a Praga, bensì in Boemia sui monti Tatra, in una regione ricca di quelle suggestioni e antiche tradizioni care all’autore. Oggi è possibile leggere il romanzo in una edizione limitata e sorvegliata, curata per conto della Dagon Press da Sergio Bissoli. Il volume è arricchito da un memoriale sulla figura del dottor Samale e un inserto fotografico con immagini mai mostrate prima dello scrittore.

Prima di addentrarci nelle pagine della storia, diamo una veloce scorsa alle memorie di Libero Samale, scritte da un suo conoscente, Sergio Rendine, compositore. Rendine conosce Samale a 17 anni. Con Samale inizia un percorso iniziatico che lo porterà a diventare un massone, come lo scrittore. Il training somiglia a quello di Alberto Sordi in Un borghese piccolo piccolo, con Samale nella parte del cinico e sgamato maestro della conoscenza. Nel lungo documento di Rendine non c’è traccia del Graegorius scrittore. Samale è uno psichiatra addentro alla massoneria, tipico italiano paraculo e benestante dell’epoca. Rendine ricostruisce un ritratto involontariamente delirante dello scrittore: Samale appare come una specie di Gustavo Rol, un santone della massoneria dotato di poteri speciali, capace di compiere viaggi astrali, miracoli alla Padre Pio e dotato di razzismo piccolo borghese e classismo d’ordinanza. Più si legge e più viene in mente Sordi e la commedia all’italiana. Samale e il giovane allievo passavano il loro tempo nei pullman, nei ristoranti affollati ed economici, nei musei e nelle orride sale di seconda categoria a vedere orridi film (forse il maestro era in queste occasioni che traeva ispirazione per i suoi libri eretici). Il maestro massone Samale amava parlare solo di calcio e donne, guardava il culo delle infermiere e sfotteva il suo giovane allievo preoccupato dallo scandalo P2. Le ultime pagine delle memorie ricostruiscono gli ultimi giorni di vita del nostro, colpito da un’emorragia interna e vari ictus, pronto ad accomiatarsi dal palcoscenico della vita. Il Samale massone sembra quasi rimandare a certe dichiarazioni proprio di Gustav Meyrink, alla ricerca costante di una conoscenza superiore, per non essere più un uomo della massa, uno dei tanti sonnambuli che trascorrono l’esistenza a vegetare (e questa cosa del razzismo, con pennellate socialiste sembra tornare in tanti autori del fantastico novecentesco, penso anche al classismo di Lovecraft, apparentemente stemperato negli ultimi anni di vita). Questo parallelismo ci riporta all’oggetto di queste righe, ossia il romanzo. Anzi i romanzi.

Graegorius abbandona la Praga magica e si rifugia in una regione sepolta sotto navate vegetali e silenzi eterni. Un castello in rovina. Un paese, Poldice, Arkham, Innsmouth del nostro. I popolani sono un’accozzaglia di gentaccia ignorante e regredita, forse simile a quella che affollava i pullman o i cinema frequentati da Samale e Rendine. Ovviamente la masnada ctonia, più che alla scrittura delirio ed espressionista di un Meyrink, rimanda agli horror Universal degli anni ’30, ha insomma un taglio maggiormente di genere, fumettoso, concitato e saturo di avvenimenti.

In poche pagine il protagonista viaggiatore precipita in una Boemia misteriosa e antica, satura di odi, rancori e linciaggi di massa, descritti con l’acume etnografico d’un Ernesto De Martino da pornofumetto. Ecco poi farsi largo i simboli ermetici ebraici, greci e latini della leggenda praghese, qui descritta come una sorta di Frankenstein fittizio, ispirato dalla figura del rabbino ben Bezalel, che qui diventa Ben Bazabel, sorta di nome solfureo. Un vecchio eretico ha forgiato il golem, figura fisica e presente, per vendicarsi sull’ignoranza del popolino becero.

Siamo lontanissimi dalle pagine soffuse di mistero e intensa atmosfera del Golem di Meyrink. Là la figura dell’essere introduce in una dimensione nebulosa e sonnambolica, dove la forza del sogno trascina in un universo dove il tempo e lo spazio non hanno più significato. Il golem appare di sfuggita e non ha le sembianze pesanti e fumettose di quello dei Dracula. E’ un’ombra irreale, una figura interiore, sorta di proiezione del protagonista, Athanasius Pernath.

Graegorius, nonostante la vulgata lo voglia una sorta di Umberto Eco del pulp, è lontano mille miglia dalla raffinatezza nebulosa e kundalinica dello scrittore austriaco, dalla sua scrittura cullata di sonno, fatta d’impulsi spettrali che anticipano di poco la galleria onirica dell’espressionismo cinematografico del cinema tedesco degli anni ’20. Meyrink scrive un horror al bulino, un’incisione metafisica dove il golem è un simbolo astratto, una proiezione dell’inconscio del protagonista, tentativo di erodere i bastioni del quotidiano e alludere a un nuovo risveglio ermetico; inoltre il romanzo si colloca all’interno di un fantastico europeo dominato dal capitale e dall’anonimato di una vita moderna bisognosa di misticismo; in questo contesto operano anche Hanns Heinz Ewers, Karl Hans Strobl e Alfred Kubin, attratti dalle pulsioni di città come Monaco, Vienna, Praga. Graegorius è maggiormente materico, col suo golem/Frankenstein in procinto di spaccare tutto e fottersene d’ogni inconscio.

Curiosamente però entrambi i libri hanno in comune questa maledizione, quest’ombra che grava sul paese ed è al centro dei discorsi del volgo. Comunque il romanzo di Libero Samale (a mio avviso non tra i suoi migliori) sembra anticipare le figure claudicanti di certi Frankenstein italiani degli anni ’70.

(5 – continua)

Davide Rosso