ITALIA MAGICA & NECROFILA – BILANCIO CRITICO SUI “CAPOLAVORI” DEI “RACCONTI DI DRACULA” (E IL GOTICO ITALIANO) – PARTE 03

Il castello delle rose nere, sempre un Graegorius, del febbraio 1965.

Una Turingia solenne e profonda, accesa da colori cangianti e vorticosi.

Samale usa una lingua arricchita dai cascami del sonno, svaporata nei presagi, forme evanescenti, ombre palpitanti; 3 viandanti arrivano in un castello parossistico, addobbato di rose nere e un carnevale botanico per giardino. L’arrivo del gruppo ricorda il solito Stoker, ma la castellana misteriosa, sola & bellissima, pare un calco di quella de L’amante del vampiro, gotico di Polselli del 1960. La baronessa del libro è un cadavere mummificato che oscilla tra la vita e la morte e torna indietro dai fasti della putrefazione, in una scena che è doppia con quella della resurrezione della strega ne La maschera del demonio di Bava (sempre 1960). Anche la figura senescente del servo della baronessa non-morta, pure lui redivivo e vampiro, somiglia al nostrano Walter Brandi, succhiasangue nel film di Renato Polselli.

Torniamo al libro. L’andirivieni del protagonista, Pierre Lecoeur, nei corridoi del castello è una passeggiata letteraria nel dietro le quinte della scrittura, una ricapitolazione di carabattole, panoplie, arazzi, armature, una nevicata onirica di dettagli irrefrenabili intarsiati in una esasperazione fantastica nuova, che riemerge dalle disarticolazioni del notturno italiano ottocentesco fatto di laboratori alchemici scapigliati ed eclissi naturalistiche dei vari Capuana, Verga, giù giù fino alla selva di narratori di massa delle riviste popolari dei primi del ‘900, penso a La Domenica del Corriere, Per terra e per mare, Giornale illustrato dei viaggi, Viaggi e avventure di Terra e di Mare, vere palestre per l’elaborazione definitiva di un fantastico italiano e di un artigianato letterario di cui, fino in tempi recentissimi non se ne conosceva l’esistenza.

Libero Samale eredita tutto questo e lo rigenera, collezionando i suoi oggetti letterari e non facendosi mancare nulla, nemmeno i manichini di cera, i burattini cadavere appena visti in 6 donne per l’assassino di Bava e in tanta letteratura austriaca. Il resto del romanzo, bellissimo, sfoglia situazioni che allora s’erano appena viste al cinema; penso al Boia scarlatto (qui citato fin dalla copertina stupenda), rivisitato con le sue stanze della tortura, catene pendule e corpi femminili straziati dallo staffile d’un boia neurologo, burattino pure lui parossistico, perso nei labirinti karmici della reincarnazione.

Questi vagabondaggi nel tempo e nello spazio, questo eterno ritorno di non-vivi è il tema dominante del libro e di molte pellicole del terrore di quegli anni ’60, in particolare Danza Macabra di Antonio Margheriti (1964, quindi appena prima di questo romanzo), infittito di burattini oltre le barriere del tempo, simili alla gravità necrofila e surreale del dottor Samale (sarebbe interessante, in futuro, rintracciare la presenza del manichino nella letteratura fantastica italiana, mettendo a confronto i testi di autori consapevoli come Collodi, Leopardi, Savinio coi lavori primari e casuali della paraletteratura). E in un crescendo di proiezioni inconsce ed hoffmanniane, tutti questi burattini letterari sono costretti a rivivere in eterno nei meandri impiccati della letteratura di massa.

(3 – continua)

Davide Rosso